SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Giovanni Scifoni ha messo in scena la sua opera Santo Piacere nell’ambito del IXXX Convegno di Fides Vita. Prima dell’esibizione ha rilasciato al nostro giornale un’intervista nella quale ha raccontato se stesso e il suo lavoro, mixando temi alti e leggerezza, come è nel suo stile. Un’intervista lunga, ma da non perdere!
Visto che oggi è la festa di tutti i santi partirei proprio dai tuoi video che hanno come protagonisti i santi. Come è nata l’idea e come si è sviluppata?
Il tutto è nato su suggerimento di Paolo Ruffini, oggi direttore del Dicastero per la Comunicazione del Vaticano e all’epoca direttore di Tv2000. All’inizio era una noia infinita perché a parlare dei santi davanti a un cellulare non è stato facile e infatti non mi si filava nessuno! Poi un giorno ho iniziato a coinvolgere la famiglia, mia moglie e i miei tre figli, e la gente ha iniziato a seguirmi: dunque il problema ero io! Ero poco interessante, mentre era molto più interessante la mia famiglia! Le storie dei santi sono straordinarie, meravigliose e sempre diverse: i cattivi si assomigliano tutti nella storia, i santi invece sono tutti diversi. Queste storie sono un pretesto per parlare di qualcosa che ci riguarda un po’ tutti, infatti il santo ha la caratteristica di illuminare con la propria vita le grandi domande che hanno a che fare con ognuno di noi. Quando scrivo queste clip con mia moglie, nei ritagli di tempo fra una lavastoviglie e un’altra faccenda domestica, ci mettiamo a parlare del santo del giorno, di come possiamo raccontarlo e sempre ci chiediamo qual è nella vita di quel santo l’aspetto che parla a tutti: quello è il nostro punto di partenza!
Nel Santo Piacere tu affronti una questione religiosa come in altri testi teatrali che hai scritto. Perché questi temi fanno presa sulle persone? Quale bisogno vanno a intercettare?
Al centro non è tanto l’argomento religioso: è un po’ il contrario! Io non parlo di religione: sto dentro a un mondo che mi è stato consegnato dai miei genitori, dai tanti sacerdoti che ho incontrato nella mia vita, che mi hanno raccontato storie, mi hanno fatto conoscere la bellezza della Sacra Scrittura, dei Padri della Chiesa. Tutto ciò mi stimola tantissimo e mi suscita un processo creativo molto istintivo e naturale che fa sgorgare in me tante idee. Quando, ad esempio, mi metto a leggere la storia di un Padre della Chiesa mi vengono molte idee che non mi verrebbero leggendo altre storie! Io non parlo di religione, ma utilizzo i temi, le storie e i testi sacri per parlare di cose che hanno a che fare con le questioni esistenziali. Vedo che questo mio lavoro intercetta un bisogno. Una buona parte del mio pubblico è cattolico e dunque si avvicina per identificazione. Poi c’è un pubblico non credente che si avvicina incuriosito. Come anche c’è una fetta di pubblico che si avvicina con sospetto, perché si percepisce in qualche modo che io a queste cose ci credo. Spesso vengono affrontati temi religiosi o sacri, ma è comune vedere nell’artista un certo distacco rispetto a quanto viene trattato. Lo abbiamo visto in grandissimi personaggi come Dario Fo o come Pier Paolo Pasolini, giganti ai quali io non mi accosto e con i quali non voglio fare paragoni, però le persone percepivano un distacco da quello che raccontavano. Invece le persone che vengono a vedere me vedono un’aderenza che crea un cortocircuito strano nello spettatore. Molti sono insospettiti, quasi infastiditi, quasi come se sembrasse strano che un artista possa credere a queste storielle per vecchiette, per chiamarle come Sant’Agostino. Tuttavia questa aderenza suscita una strana sincerità per cui le persone che vengono a teatro vedono qualcosa a cui l’artista crede e questo a volte crea per un’ora mezza – e questa è proprio la magia del teatro – il fatto che in quel momento ci crediamo un po’ tutti. Il bisogno di domande esistenziali è molto presente nel pubblico, come il bisogno di affrontare il destino ultimo dell’uomo, soprattutto nei giovani, che hanno un desiderio incredibile di confrontarsi con questi temi. Su questo versante oggi c’è una scarsa offerta e quindi molti si avvicinano al mio teatro perché sono letteralmente affamati di domande impegnative che cerco di proporre con leggerezza. Questa è un po’ la sfida che mi pongo, quella di raccontare cose pesantissime come la teologia, la patristica con leggerezza.
Quello che fai ti permette di coniugare in maniera esplicita la fede col tuo lavoro. Ci vuoi dire qualcosa di più su questo aspetto?
Una decina di anni fa mi sono reso conto che ero uno a lavoro e uno nella mia vita privata. Ero diverso e diviso e sentivo che per me non andava bene, non mi piaceva e non ero contento di ciò. Ho cercato di capire come mettere me stesso, le cose a me più care nel lavoro ed è avvenuto tutto in maniera naturale e semplice. Mi sono messo a scrivere un primo testo, chiedendomi cosa mi interessasse più di tutto, ed è venuto fuori il mio primo spettacolo sulle ultime sette parole di Cristo e da lì tutti gli altri.
Cosa significa essere credente nel mondo dello spettacolo? La fede può essere un ostacolo in questo mondo?
Inevitabilmente negli ambienti di lavoro c’è una sorta di strano scetticismo e di snobismo da parte della critica teatrale ad esempio che difficilmente si avvicina al mio lavoro perché viene considerato un po’ di nicchia e il fatto che io sia un cattolico praticante può spiazzare. Qualsiasi tipo di coerenza è un problema nel mondo del lavoro. Se tu sei coerente con quello in cui credi, qualunque cosa sia quello in cui credi, ciò costituisce un problema quando si deve scendere a compromessi, perché il lavoro è sempre compromesso. Inevitabilmente non puoi fare tutto o accettare le condizioni che ti vengono date. La famiglia ti può precludere la strada perché gli artisti spesso si sposano col proprio lavoro. Da sempre gli artisti sono stati uomini senza patria, senza famiglia e senza radici, dagli attori girovaghi ai giullari. Avere una famiglia è un’impresa eccezionale per un artista. Ne conosco qualcuno che lo fa come me. Coinvolgere la mia famiglia nella mia vita di artista significa raccontare quello che sono. Torniamo al discorso della coesenza, del «Chi sei?», del «Cosa racconti?». Si dice che l’attore sia uno che si traveste, che finge… è vero, ma se non è profondamente sincero quando si maschera il pubblico se ne accorge e non è contento. Il pubblico vuole vedere nell’attore, anche nel più finto, nel più pagliaccio, nel più mascherato vuole vedere una verità. È il grande paradosso del teatro: tu vuoi vedere la verità nella finzione. Nella mia vita faccio tanti casini, sbaglio, ho fatto molte scelte incoerenti, ma la coerenza rimane per me un obiettivo.