Francisco Goya nel 1814 al termine della guerra d’indipendenza spagnola dall’invasore francese dipinse la celebre tela “3 maggio 1808″ conservata oggi al Museo del Prado di Madrid. Ho potuto ammirare personalmente quest’opera e devo dire che fra tutti i capolavori che, un po’ per passione, un po’ per lavoro, ho avuto la possibilità di osservare, questa è quella che senza dubbio mi ha suscitato una particolare emozione.
Il dipinto rappresenta una drammatica esecuzione. Le milizie francesi stanno fucilando alcuni popolani madrileni. Di questi ultimi, al contrario dei primi, scorgiamo i volti pieni di terrore. Alle uniformi dei soldati si contrappongono gli abiti semplici e variegati dei civili che sono già stati uccisi o che stanno per morire. Fra essi si scorge anche un frate. La luce di una lanterna, parzialmente coperta dalle figure dei soldati, illumina invece a giorno le vittime e fra queste in particolare l’uomo che attende il colpo fatale spalancando le braccia verso il cielo, quel cielo buio che ammanta la città dalla quale sono stati prelevati.
Si può parlare di un’opera d’arte solo quando l’artista riesce a toccare il cuore dello spettatore indirizzandolo verso qualcosa di più grande e credo che Goya sia riuscito in questo rappresentando magistralmente il dramma dell’uomo contemporaneo, quello del 1808 come quello del 2012.
La cultura dei lumi voleva staccare l’uomo dalle sue radici, dalle sue abitudini e dalle sue certezze ed ecco perché l’esecuzione avviene lontano dalla città. Madrid, con le sue case che evocano la vita di tutti i giorni e col suo campanile che ci ricorda la dimensione religiosa della vita, si vede in lontananza, è avvolta dalle tenebre come a significare che per l’esercito invasore la vita degli spagnoli deve uscire dal buio.
Ed ecco allora in primo piano l’esercito francese, venuto a portare la luce, simbolizzata dalla lanterna. Questa luce però è morte per il popolo spagnolo. Il plotone di esecuzione è rigidamente inquadrato e forma una vera e propria macchina di morte. Quegli uomini non hanno nulla di umano ed è per questo che il pittore non ce ne fa scorgere il volto.
Essi stessi coprono quella luce che sono venuti a portare. È come se con un sol colpo Goya avesse messo in mostra tutta la contraddizione di uomini che si proclamano paladini della liberà, dell’uguaglianza e della fraternità.
Vogliono portare la libertà, eppure hanno prelevato con la forza dalle loro case uomini inermi ed ora li stanno trucidando. Fra tutte le libertà esaltano quella di religione, eppure stanno per dare alla chiesa un nuovo martire nella figura del frate. Dicono che vogliono l’uguaglianza, ma le loro uniformi ci parlano solo di una grigia omologazione. Sono a favore della fraternità eppure non esitano a sgominare i loro simili.
Fra tutte le figure dei condannati si staglia quella dell’uomo che spalanca le braccia come un novello Cristo in croce, vittima di un odio cieco e feroce come quello di chi disse: “È meglio che muoia uno solo per il popolo piuttosto che perisca l’intera nazione” (Gv 11,50).
Non vive forse un analogo dramma l’uomo contemporaneo? Ad opera di alcune elites intellettuali, egli è stato allontanato dal suo back-ground culturale e religioso con la (falsa) promessa di un mondo nuovo e trasfigurato e si ritrova invece in una immensa solitudine, amalgamato ad una massa indistinta e oppresso da una schiacciante burocrazia.
È forse ammirando questo quadro che si può trovare la forza e il coraggio di un nuovo sguardo che ci consenta di trovare le risposte ai problemi dell’uomo odierno.