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Archivi del mese: marzo 2014

ROMA – A margine della presentazione del libro “Le chiese stazionali di Roma. Un itinerario quaresimale” scritto dall’ambasciatrice Hanna Suchocka abbiamo avvicinato Sua Eminenza il Card. Giovanni Battista Re che ha gentilmente risposto a qualche nostra domanda. L’alto prelato è nato a Borno nel 1934. Dal 2000 al 2010 è stato Prefetto della Congregazione per i Vescovi, l’organo della curia romana che si occupa in primo luogo dell’elezione dei nuovi vescovi.

Lei è stato uno dei più stretti collaboratori di Giovanni Paolo II. Con quali parole descriverebbe Karol Woytjla?

Giovanni Paolo II è stato grande sotto ogni aspetto: come uomo, come papa e come santo. Ed è stato grande anche come come amico: veramente voleva bene ai suoi collaboratori e quindi ha sempre avuto grande attenzione per noi. Certo è un Papa che è  rimasto nel cuore della gente. Era un mistico, un uomo di grande spiritualità e al medesimo tempo molto attento alle persone e alle situazioni tanto concrete. Questo suo modo di essere ha influito sulla storia. Tutto ciò che ha caratterizzato il suo pontificato è stato ispirato da motivazioni  profondamente religiose:  egli desiderava far riavvicinare gli uomini a Dio e ridare a Dio la cittadinanza in un mondo che non poche volte lo aveva dimenticato.

Poiché il decano e il vice decano del collegio cardinalizio avevano raggiunto gli 80 anni, lei ha svolto, a norma del diritto canonico, le funzioni del decano, essendo per anzianità il primo dei cardinali vescovi.  Quali sono i sentimenti di un cardinale di Santa Romana Chiesa che entra nella Sistina per eleggere il successore di Pietro? Ho partecipato al conclave del marzo 2013 con altri 115 cardinali.  Ho sentito molto la responsabilità di fronte a Dio di collaborare con lui per trovare il Papa che andava bene per il nostro tempo. È stato trovato un Papa che va proprio bene per questo tempo:  un Papa caratterizzato da grande umanità, ma anche da grande spiritualità, semplicità, sobrietà e direi un Papa che corrisponde alle attese di questo momento difficile della storia del mondo.

Quale aspetto di Papa Francesco la colpisce maggiormente? L’aspetto che si nota di più in lui – e che ha suscitato anche tanto simpatia – è il fatto di essere molto vicino alla gente. Questo Papa ha voluto abolire le distanze ed è molto vicino alla persone, cerca di avvicinarsi ad esse: basta vederlo nelle udienze generali, quando si fa prossimo ai fedeli in Piazza San Pietro abbracciandoli, baciandoli ed accarezzandoli.

La Chiesa si sta preparando a vivere in ottobre il sinodo per la famiglia. Se ne parla molto anche sui media, spesso con grande approssimazione. Come vede questo evento un uomo di Chiesa come lei? L a famiglia e la spiritualità familiare sono peculiari per il futuro del mondo. Per cui è encomiabile l’attenzione del Papa verso le famiglie. È bene che prima di tutto ci si prepari bene alla vita familiare e cioè è necessario aiutare i fidanzati a prepararsi al matrimonio, alla spiritualità del matrimonio e della famiglia, poiché è all’interno della famiglia che avviene la trasmissione della fede. È importante quindi che il Papa abbia messo al centro del prossimo sinodo il tema della famiglia, perché oggi essa è minacciata e ha bisogno di essere difesa secondo il piano di Dio.

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ROMA – Si è svolta lunedì 24 marzo alle ore 17.30 presso l’Istituto Patristico Augustinianum la presentazione del volume “Le chiese stazionali di Roma. Un itinerario quaresimale” scritto dal già primo ministro polacco e attuale ambasciatrice Hanna Suchocka, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana. All’incontro, moderato da don Giuseppe Merola, redattore dell’ufficio editoriale LEV, hanno preso parte, oltre all’autrice, varie ed illustri personalità.

Il cardinale Giovanni Battista Re, ha esordito ricordando il carattere straordinario di Roma, unica al mondo per la sua storia, per il suo respiro universale, per essere il centro del cristianesimo e per le sue incomparabili chiese, luoghi prima di tutto di preghiera e di spiritualità, ma anche veri e propri musei che contengono capolavori artistici inestimabili. Per conoscere bene Roma bisogna conoscere anche queste 44 chiese dell’itinerario quaresimale.

Il porporato si è soffermato sul carattere spirituale del percorso proposto dal libro, apprezzando l’intento dell’autrice di rivivere l’esperienza che tanti cristiani hanno vissuto nel corso dei secoli. Il libro è una sorta di diario dei sentimenti vissuti ogni mattina, sostando in queste chiese.

Secondo l’alto prealato, oggi il passaggio dal carnevale alla quaresima è sul calendario, ma non incide realmente nella vita quotidiana, non ha riflesso sul tessuto sociale. Invece nel passato non è stato così.

Infatti il tempo di quaresima è nato già nel II secolo in oriente e si è affermato a Roma a partire dal 313. Alla fine del IV secolo notiamo una precisa organizzazione del tempo quaresimale. Originariamente era un ritrovarsi per ascoltare le parole del Papa.

È stato Gregorio Magno a sistemare le stazioni quaresimali così come oggi le conosciamo. Questa pratica è durata fino al XIV secolo, quando la sede papale si trasferì ad Avignone. Nel XVI secolo San Filippo Neri cercò di riportarla in auge, limitandone le visite alle 7 chiese più importanti.

Ha preso poi la parola Alfons M. Kloss, ambasciatore d’Austria presso la Santa Sede, evidenziando il taglio non accademico del libro. In esso vi si trovano la fede, la storia e l’arte con l’intento di volersi avvicinare all’essenza della nostra fede, all’esperienza dei primi martiri, e riscoprire così il senso profondo della quaresima.

L’ambasiatore si è soffermato sulla propria esperienza, raccontando di come egli viva il Mercoledì delle Ceneri a Santa Sabina, prima stazione quaresimale, e di come questa chiesa gli ricordi, per la presenza dei domenicani, la chiesa frequentata a Vienna. L’austerità della basilica lo introduce nel clima della quaresima.

Il prof. Stanislaw Grygiel, ordinario di Antropologia filosofica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo, ha fatto parte del gruppo composto da docenti, membri del corpo diplomatico e amici che hanno compiuto il pellegrinaggio insieme all’autrice. Tutti questi pellegrini chiedevano a Dio di illuminare il proprio lavoro per il bene comune.

Il docente, citando le parole di Goethe, ha ricordato come l’Europa sia nata dal pellegrinaggio. Pellegrinare attraverso le tappe delle stazioni quaresimali, vuol dire andare in cerca di una sorgente secondo le parole di Giovanni Paolo II nel Trittico Romano: “Sorgente dove sei? Dove sei sorgente?”.

Ed una volta trovata la sorgente è necessario inginocchiarsi per attingere ad essa. Chi non si sa inginocchiare alla sorgente finisce per turbare le acque. Nell’atto del pellegrinaggio continua a nascere l’Europa. Possiamo quindi domandarci: “L’Europa staccata dalla Chiesa, sarà ancora Europa?

Il prof. Marek Inglot SJ, docente presso la Facoltà di Storia e Beni culturali della Chiesa presso la Pontificia Università Gregoriana, ha notato come il testo della Suchocka non sia solo un libro per essere letto, ma che invita ad intraprendere il cammino verso le stazioni quaresimali. Esso inoltre spinge il lettore ad interrogarsi sulla propria fedeltà a quanto hanno vissuto i primi cristiani.

Il docente ha sottolineato, seguendo il pensiero di Giovanni Paolo II rivolto alla Terra Santa, che già solo andare con la mente in questi luoghi, significa ripercorrere i passi del Verbo Incarnato, e mettersi sulle strade di un Dio che ci ha preceduto in questo viaggio.

Infine il religioso ha riscontrato una naturale simpatia dell’autrice verso i segni polacchi presenti a Roma. Ma anche verso i gesuiti. Quest’ultima “simpatia” ha suscitato in sala un sorriso… Essendo il relatore un gesuita! Ma padre Inglot ha specificato di riferirsi ai gesuiti della prima ora, a Sant’Ignazio e ai suoi compagni. Infatti l’autrice nel libro ricorda come a San Paolo Fuori le Mura, il 22 aprile 1541 Sant’Ignazio e i suoi fecero i voti solenni. E ancora come a San Lorenzo in Damaso fu presente San Francesco Saverio.

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SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Paolo Annibali, scultore e docente di Storia dell’Arte presso il Liceo Scientifico (anche del sottoscritto!) di San Benedetto del Tronto, ha da poco terminato la sua ultima opera “La porta degli emigrati” che da qualche giorno fa bella mostra di sé presso il Santuario di San Gabriele a Colledara. Lo abbiamo contattato ed ha gentilmente risposto alle nostre domande.

Professore, da quanti anni svolge la sua attività di scultore e come è iniziata la sua attività?

Sin da bambino divoravo album da disegno, avevo sempre le mani sporche di plastilina, ma questa voracità si è spenta con gli anni delle elementari, la scuola di allora non teneva in nessuna considerazione queste doti. Il desiderio dell’arte è riapparso con la fine delle medie, quando incontrai degli insegnanti che davano grande importanza ai rapporti umani. Provo nei loro confronti una grande riconoscenza, non solo per le scelte artistiche future, ma, diventato insegnante, ho cercato in qualche modo di imitarli, usandoli come modelli.

Debbo a loro che intrapresi gli studi con il liceo artistico e poi l’accademia. Certo, non è così scontato tradurre un talento in mestiere, è molto facile perdersi, l’arte è il mondo dell’incertezza, dell’approssimazione. Ancora non dimentico l’espressione dei miei genitori, quando comunicai che volevo fare l’artista, anzi lo scultore, lessi nei loro occhi la disperazione di chi immagina, non senza cognizione, il proprio figlio proiettato verso una vita di stenti.

In effetti il mestiere dell’arte è un percorso in eterna salita, nella quale devi credere senza esitazioni in te stesso e in quello che fai. Quando sei giovane il mestiere è un continuo inizio, in quanto i riscontri, soprattutto economici, sono pesantemente modesti, e solo quella fede ti può salvare.

Tra i tanti inizi, quello che più ha segnato la mia strada, è quello del 1981, quando giovane promessa appena uscito dall’accademia, mi colse l’artrite reumatoide, che per un lungo periodo m’impedì qualsiasi attività. L’esperienza del dolore mi offrì la possibilità di esplorare il mio mondo interiore più intensamente. Quando i morsi della malattia si attenuarono, la mia sensibilità si era affinata, il bagaglio emotivo arricchito. Nel 1983 organizzai la mia prima mostra personale in cui la mia ricerca poetica si era avviata verso quelle tematiche che ancora fanno parte della mia opera.

A quale corrente artistica appartiene la sua produzione e qual è lo scultore che lei vede come un modello?

Non mi sento di appartenere a nessuna corrente artistica. Oggi l’arte vive un momento di grande complessità e fragilità. Il mio lavoro è orientato verso la figurazione, un mondo direi forse rassicurante e anacronistico, anche se oggi mi sembra più che mai attuale, in quanto molti giovani sembrano esprimere le stesse tensioni.

Non ho mai pensato ad uno scultore come modello, ma a tanti. A tutti quelli che hanno espresso una forte componente morale e civile: Giovanni Pisano, Donatello…. Ma anche pittori come David, Courbet, Mantegna….

Nell’arco della sua carriera si è parecchio dedicato a soggetti sacri. Può ricordare ai nostri lettori quali sono le opere di maggior rilievo che ha prodotto per la committenza ecclesiastica? Ci può dire poi quale opera considera il suo capolavoro?

Tra le opere più significative che ho realizzato, penso ci sia l’ultima, la “Porta degli emigrati” per il Santuario di San Gabriele, forse perché è l’opera della maturità, forse perché è ancora fresco il ricordo della fatica, ma anche l’ambone della cattedrale di Fiesole, la porta della cattedrale di Jesi.

Più che il mio capolavoro, il cui giudizio lascerei ad altri, parlerei dell’opera che amo di più: la “Madonna della Misericordia” per la parrocchia di San Pio X a San Benedetto del Tronto. E’ una scultura che racconta un momento particolarmente difficile della mia esistenza.

Quale rapporto c’è fra chi commissiona l’opera d’arte e lo scultore? L’artista ha una certa libertà?

Tra artista e committente si istaura una certa complicità, quando il committente ti sceglie per realizzare un’opera, ha in te una grande fiducia. Va un po’ sfatato il luogo comune per cui le opere su committenza siano delle costrizioni per la sensibilità dell’artista.

I temi definiti sono per l’artista, quello che è la rima per il poeta, per non parlare poi di tutta l’arte del passato in cui si operava solo esclusivamente su committenza. Direi anche che la libertà espressiva e la propria personalità si possono affermare anche nei temi più angusti delle opere su committenza. L’importante è la qualità dell’opera.

In che misura secondo lei l’arte contemporanea riesce a descrivere la sensibilità religiosa dell’uomo di oggi?

Il rapporto tra spiritualità e arte contemporanea è complesso e spesso conflittuale. Distinguerei tra un’arte sacra creata appositamente per la liturgia e un’arte che pur lontana nei temi evidenzia la ricerca di senso, l’annuncio, l’intuizione del divino. Nella complessità del contemporaneo molto spesso è più la seconda tipologia di opere che ci avvicinano al sentimento di Dio. E’ sempre la bellezza lo strumento attraverso la quale si può parlare di spiritualità.

Lei oltre ad essere scultore è docente. Come si pongono secondo lei i ragazzi di oggi di fronte al nostro patrimonio artistico e in definitiva rispetto alla bellezza?

Se il mestiere dell’arte è straordinario posso dire, dopo tanti anni di insegnamento, che quello di docente lo è altrettanto. Il mondo della scuola è ancora il mondo della speranza e direi anche della bellezza. Certo lo studio è fatica, chi di noi si alzava la mattina con la gioia nel cuore pensando di andare a scuola? Nonostante che i ragazzi intuiscano che parlando di Masaccio o di una colonna greca, gli racconti le cose più belle che ha creato l’uomo, un conto è assistere una lezione, dove l’insegnante cerca di trasmetterti la sua passione, un conto è poi studiarsela e di nuovo raccontarla.

Ma il tempo dell’adolescenza è un tempo particolare. Nell’età adulta si ripensano tante cose e ci si accorge che molti discorsi sono “passati”, così l’arte è entrata a far parte del patrimonio più profondo di ognuno. Credo che tu ne sia la testimonianz: ebbi un sussulto di gioia, quando, in visita a Santa Maria sopra Minerva a Roma, ti incontrai mentre spiegavi le numerose opere d’arte del luogo ad un gruppo di bambini.

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Il 17 dicembre 2013 Papa Francesco ha esteso alla Chiesa universale il culto liturgico in onore di Pietro Favre, che, a detta dello stesso Pontefice, è la figura di gesuita che gli è più cara, dopo ovviamente Ignazio di Loyola. Ma chi è Pietro Favre? Per conoscere questo “nuovo santo” può essere utile la lettura del volume “Pietro Favre. Servitore della consolazione” curato dal Direttore de “La Civiltà Cattolca”, padre Antonio Spadaro ed edito per i tipi dell’Ancora.

Il testo raccoglie un insieme di saggi comparsi su “La Civiltà Cattolica” che possono aiutare a delineare il ritratto del “santo di Papa Francesco”. Il primo contributo scritto nel 1979 da padre Giuseppe Mellinato è di taglio biografico e funge da introduzione agli altri che invece si soffermano su particolari carismi di Favre.

Scopriamo allora che Pietro Favre è nato a Villaret, in Savoia, il 13 aprile 1506 in una modesta famiglia di contadini. All’età di 19 anni si recò a studiare alla Sorbona di Parigi, dove incontrò Ignazio di Loyola che era più grande di lui di una ventina di anni. Insieme dimorarono presso il Collegio Santa Barbara con Francesco Saverio.

Capiamo subito quindi che Favre è uno dei primi amici di Ignazio e dunque avvicinarlo significa comprendere qualcosa in più su come è nata la Compagnia di Gesù. Egli non aveva le idee chiare su quale fosse la propria vocazione, fu così che nel gennaio del 1534 iniziò gli esercizi spirituali, la pratica di discernimento ideata proprio da Ignazio, che lo porteranno nel maggio dello stesso anno a diventare prete.

Egli dunque è il primo sacerdote della  Compagnia di Gesù, prima ancora dello stesso Ignazio! Fu proprio Favre a celebrare la messa quel 15 agosto 1534 quando Ignazio e altri cinque suoi amici alle pendici di Montmartre fecero voto di unirsi in quello che sarebbe divenuto uno dei più importanti ordini religiosi della Riforma Cattolica.

È proprio nel contesto della desiderio di riforma che Favre svolge il suo apostolato. Egli, secondo le parole dei padri Coupeau e Zollner, “poteva testimoniare che la diffusione del protestantesimo era dovuta a una crisi morale e spirituale in seno alla Chiesa cattolica. Per il fatto che i cattolici dei paesi tedeschi avevano perso il retto sentire, era andata persa anche la retta fede.  Per poter riacquistare la retta fede, la strategia di Favre tendeva a ricondurre i fedeli al retto sentire” (p. 72).

E quale metodologia seguiva Favre? Sono ancora i due gesuiti a spiegarcelo: “Anziché esibirsi pubblicamente in dispute teologiche o polemizzare sulle condanne reciproche, con incontri personali voleva convincere i protestanti di quanto gli stesse a cuore la riforma spirituale e quanto fosse necessaria l’unità di tutta la Chiesa” (ibidem).

Troviamo in queste parole una grande assonanza con la sensibilità spirituale di Papa Francesco. Il Pontefice infatti, proprio come il santo che ha tanto a cuore, predilige la cosiddetta “cultura dell’incontro”: al centro dei suoi interessi non c’è l’esposizione di una dottrina, ma il desiderio di farsi prossimo ad ogni uomo.

Lo vediamo nella sua gestualità, nel suo chinarsi verso le persone più sofferenti, nei suoi non rari contatti telefonici: in ognuno di questi  suoi gesti possiamo scorgere il desiderio di incontrare direttamente le persone alle quali vuole fare sentire l’abbraccio di Cristo.

Papa Francesco, come Favre, vive in un tempo di riforma, che è anzitutto una sempre maggiore adesione del cuore a Cristo prima che una serie di cambiamenti di strutture. La riforma della Chiesa è qualcosa di sostanzialmente molto diverso da quella che può essere la riforma di uno stato: essa passa prima di tutto attraverso le persone.

Per tutti questi motivi crediamo che Papa Francesco si ispiri e senta così vicino il primo sacerdote della Compagnia di Gesù.

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