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Archivi del mese: agosto 2013

RIMINI – Continua il nostro viaggio alla scoperta del volto più genuino e più nascosto del Meeting di Rimini, quello che i tg, tutti interessati al solo aspetto politico della manifestazione ciellina, non trattano. Oggi (venerdì 23 agosto, nda) siamo all’interno della mostra “Il Volto Ritrovato. I tratti inconfondibili di Cristo” dedicata alla figura di Cristo, con particolare attenzione ai lineamenti che emergono dal Volto Santo di Manoppello, cioè l’immagine che è rimasta impressa su quello che per la tradizione è il fazzoletto adoperato dalla Veronica per asciugare il viso di Gesù durante la Via Crucis. Ci ha guidato Michele Colombo che è ricercatore alla Facoltà di Lettere dell’Università Cattolica di Milano e uno dei curatori della mostra, e gli abbiamo rivolto qualche domanda.

A quante edizioni del Meeting hai partecipato e quante mostre hai già guidato?

Ho lavorato al Meeeting come volontario dai quattordici ai ventiquattro anni. Dopo l’università, sono stato curatore con altri amici di tre mostre di argomento letterario, una sui Promessi sposi di Manzoni nel 2004, una sul Paradiso di Dante nel 2006 e una sui Canti di Leopardi nel 2008. Quest’anno è arrivata la proposta da parte di Raffaella Zardoni, l’ideatrice della mostra di Manoppello, di coinvolgermi sia nell’organizzazione dell’esposizione vera e propria sia nell’allestimento del catalogo (che per certi versi è un vero libro di ricerca sul tema). Naturalmente in alcuni anni sono venuto al Meeting anche da semplice turista.

Forse il Santuario di Manoppello non è così conosciuto come tanti altri santuari italiani. Tu lo conoscevi già?

L’ho conosciuto grazie a Raffaella, che a sua volta l’ha conosciuto grazie alla visita privata di Benedetto XVI a Manoppello il primo settembre del 2006: in un certo senso la nostra mostra nasce dalla sua paternità. Quando sono andato con Raffaella e altri amici al santuario per la prima volta ero molto incuriosito, perché, come tu dici, si tratta di un posto ancora poco noto. Vedere il Volto Santo da vicino, poter constatare con i miei occhi le caratteristiche straordinarie del velo e fermarsi a contemplare la profonda tenerezza dello sguardo che l’immagine trasmette sono state esperienze uniche. Proprio da quella gita (accompagnata da ottimi pranzi di cucina abruzzese, tra l’altro) è nata la mia collaborazione alla mostra.

Cosa intendi con “caratteristiche straordinarie del velo”?

Il Volto Santo di Manoppello non pare né dipinto né tessuto: come l’immagine si sia impressa sul velo e come sia perfettamente visibile da entrambi i lati (tanto che non è possibile decidere quale sia il diritto e quale il rovescio) non sembra facilmente spiegabile. Inoltre la sottigliezza estrema del tessuto (forse bisso marino?) fa sì che l’espressione del volto muti in maniera sorprendente a seconda dell’illuminazione: ora è scura e sofferente, ora è radiosa e pacificata.

Quale aspetto della mostra ti colpisce maggiormente?

Il desiderio dei visitatori di vedere i tratti del volto di Gesù e la loro commozione quando fissano lo sguardo negli occhi dell’uomo di Manoppello. Proprio per questo la mostra si conclude con una sala in cui è possibile per il visitatore contemplare in silenzio il Volto Santo. È una strada alla riscoperta che il cristianesimo è rapporto con un uomo presente: un rapporto in cui, come ebbe a dire don Giussani, Cristo è mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo è mendicante di Cristo.

Nel salmo 26 il re Davide chiede a Dio di abitare nella sua casa per ammirare la bellezza del suo Volto e quella del suo Tempio. Secondo te il binomio Volto-Tempio, che è alla base della nascita delle più belle chiese in Europa e nel mondo, può essere il punto di partenza per una nuova evangelizzazione basata sul tema della bellezza?

La tua domanda mi fa pensare all’invito di papa Francesco ad andare verso le periferie dell’esistenza: le periferie sono appunto le zone più degradate, dove lo sguardo è continuamente offeso dalla mancanza di armonia e bellezza e dove la ricerca di volti umanamente ricchi sembra più difficile. Credo perciò che il binomio Volto-Tempio possa essere il punto di partenza se, sfuggendo al pericolo del pietismo, è animato dalla consapevolezza che il bello non è un accessorio ma il segno di ciò che il cuore di ogni uomo desidera.

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RIMINI – “La luce splende nelle tenebre. La testimonianza della Chiesa ortodossa russa negli anni della persecuzione sovietica”. È questo il titolo della mostra dedicata ai martiri russi. Il martirio è stato sempre nella Chiesa, la forma più alta di testimonianza cristiana, perché la più aderente a Cristo. Ogni secolo ha i suoi martiri e quest’anno il Meeting ha dedicato una mostra a quelli che sono stati vittima dell’ideologia bolscevica. Si tratta di figure appartenenti alla Chiesa Ortodossa che per la loro fedeltà a Cristo sono giunte ad effondere il sangue per Lui. Il lavoro di preparazione ha coinvolto studenti italiani, ucraini e russi. Abbiamo incontrato e intervistato mons. Francesco Braschi, Direttore della Classe di Slavistica dell’Accademia Ambrosiana e Dottore della Biblioteca Ambrosiana, che è uno dei curatori della mostra.

Quante sono le storie di martiri narrate nella mostra?

La mostra, che copre un arco di settant’anni, è costruita in modo da presentare due binari paralleli di lettura, intorno ai quali sono organizzati i pannelli illustrativi. Abbiamo innanzitutto una serie di pannelli di carattere storico-narrativo, che offrono al visitatore la possibilità di rendersi conto di cosa avvenne in Russia dagli anni precedenti la rivoluzione bolscevica, fino alla fine del comunismo e alla possibilità per la Chiesa ortodossa di poter nuovamente esistere liberamente e alla luce del sole.

Così si permette al pubblico italiano di venire a conoscenza di episodi di solito ignorati dai nostri libri di storia, come il Concilio della Chiesa ortodossa del 1917-18, nel quale venne ripristinata la figura del Patriarca e si discusse di importanti riforme, ma che vide i partecipanti (vescovi, clero e laici) investiti dalle notizie e dagli sconvolgimenti che accompagnarono la rivoluzione d’ottobre.

Oppure, come le diverse parti di cui si componeva il programma di annientamento della Chiesa e della fede cristiana, che vedeva la spoliazione e la confisca delle chiese, ma anche la suscitazione di scismi e conflitti interni pianificata da Trockij, l’educazione ateistica-anticristiana dei giovani e degli adulti, la distruzione di Chiese quale la Cattedrale di Cristo Salvatore, l’istituzione dei Lager “a destinazione speciale”; o, ancora, il “grande terrore” del 1937-38, le vicende connesse alla seconda guerra mondiale e all’”utilizzo” della Chiesa da parte di Stalin in funzione antinazista e le persecuzioni che continuano anche nell’era di Kruscev.

Questo percorso storico viene accompagnato dalla presentazione di una ventina di figure di martiri, di cui si offrono alcuni rapidi cenni biografici e – soprattutto – alcune citazioni che permettono di “fissare” i tratti più importanti del loro pensiero e della loro esperienza. Molti di loro sono praticamente sconosciuti in Italia, altri sono noti per il loro pensiero, come Padre Pavel Florenskij; altri ancora sono particolarmente interessanti anche per l’attualità del loro pernsiero, come Michail Novoselov, scrittore e pensatore.

Non è possibile fermarsi a ricordarli tutti nel dettaglio. Tuttavia, possiamo affermare che i tratti che uniscono tutte queste figure sono principalmente quelli della fedeltà a Cristo e della capacità di riconoscere anche nella prigionia e nella sofferenza la Sua Presenza alla quale affidarsi con piena fiducia.

Quale testimonianza ti ha colpito di più?

E’ difficile fare una scelta tra le splendide testimonianze presentate nella mostra. Posso però menzionare le figure del Patriarca Tichon, che accettò nel 1917 la nomina a Patriarca nella piena consapevolezza che essa significava una continua prova nel tentativo di resistere alle richieste e alle pressioni del governo bolscevico; oppure la figura del Metropolita di Pietrogrado, Veniamin, ancora oggi molto venerato dai fedeli e capace di trasformare un processo-farsa in occasione per una testimonianza di grande forza cristiana e umana. Ma si potrebbe davvero continuare a lungo… in questo senso, il catalogo della mostra è un grande aiuto per iniziare a conoscere queste figure così impressionanti.

I martiri russi erano organizzati in qualche forma di resistenza contro il regime, oppure il totalitarismo bolscevico li ha colpiti singolarmente?

La resistenza era quella della fede, e mentre il governo bolscevico cercava di dividere e annientare la Chiesa ortodossa, usando tutti i mezzi a sua disposizione, vi furono testimonianze splendide di unità e di reciproco sostegno tra i detenuti nei lager. Purtroppo, vi furono anche contrapposizioni interne e figure conniventi con i persecutori, ma queste mostrano quanto più risalti la luce che promana dall’esempio di chi rimase fedele a Cristo e alla Chiesa.

Come si è resa possibile la nascita di un’ideologia così feroce in un contesto così profondamente cristiano come quello russo?

Innanzitutto bisogna ricordare che l’ideologia marxista non nasce in Russia, e che lo stesso Lenin compì la sua formazione politica e ideologica anche nell’Europa occidentale. Certamente, il fatto che dal tempo di Pietro il Grande la Chiesa ortodossa fosse priva del Patriarca ed avesse a capo lo Zar stesso, che la governava per mezzo di un suo funzionario, fece sì che la Chiesa fosse considerata – e di fatto fosse – come una propaggine dello stato zarista. E il sistema di goveno zarista era di fatto opprssivo per la maggioranza della popolazione. Per questo, anche coloro che miravano alla sola caduta dello zarismo, di fatto spesso si trovarono a combattere contro la Chiesa, considerata come organica al potere politico.

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RIMINI – In questi giorni i mass media si stanno occupando come ogni anno del Meeting di Rimini. Ad essere messi in risalto, come al solito, sono gli interventi dei politici, ma il Meeting non è solo politica. Anzi! Sono numerose le mostre e le iniziative culturali che animano la kermesse ciellina. Per conoscere meglio il lato più vero del Meeting, quello che i tg non riportano, abbiamo intervistato Edoardo Dantonia, uno dei tanti ragazzi che con impegno, e con altrettanto anonimato, manda avanti questo importante evento dell’estate riminese. Edorardo, classe 1992, è studente di Scienze dell’Educazione e guida i gruppi nella mostra “Il cielo in una stanza: Benvenuti a casa Chesterton” dedicata al celebre scrittore inglese sempre più conosciuto e apprezzato in Italia, anche grazie alla Società Chestertoniana Italiana che ha sede nella nostra diocesi.

Edoardo, a quante edizioni del Meeting di Rimini hai partecipato? Questa è la prima volta che guidi una mostra?

In realtà è la prima edizione del Meeting a cui partecipo: si può dire che abbia iniziato in grande stile con la mostra dedicata al mio autore preferito! Dire che sono emozionato è un eufemismo, visto che ho l’opportunità di approfondire questo grande scrittore e di trasmettere ad altri ciò che esso rappresenta per me.

Puoi spiegare ai nostri lettori come avviene il “reclutamento” delle guide del Meeting?

Non ne so molto in verità. Un mio caro amico, conoscendo la mia passione per Chesterton, mi ha semplicemente proposto di far parte della rosa di guide impegnate nella mostra a lui dedicata: come potevo rifiutare? Iscriversi non è stato difficile e sono stati fatti ben due incontri con i curatori, per chiarire bene le idee sul testo assegnato.

Vieni pagato per questa attività?

Assolutamente no: il lavoro al Meeting è totalmente volontario. Forse è questo che sconvolge maggiormente le persone, ormai assuefatte ad una logica di “do ut des”, in cui nulla può essere fatto gratuitamente. E a dirla tutta, per me è una grandissima opportunità, quindi potrei dire che vengo ripagato più che pienamente per tutta questa fatica!

Quando hai conosciuto la figura di Chesterton?

L’autore della mia “conversione” (virgolettata poiché sono stato battezzato alla nascita, quindi si è trattato solo di riavvicinarmi alla Chiesa) è stato Michael D. O’Brien, con il suo libro “L’Isola del Mondo”, ma è stato Chesterton ad avermi letteralmente trascinato al suo interno. È stato un mio caro amico a consigliarmi la lettura e a prestarmi fisicamente “Ortodossia”, testo impegnativo ma davvero incredibile. Chesterton era un poeta che lavorava molto per immagini: le sue non sono risposte o verità assolute, ma veri e propri “quadri” che colpiscono e sconvolgono e che magari non sono subito chiari nel loro significato.

Qual è l’aforisma di Chesterton che maggiormente ti affascina? E la sua opera che preferisci?

“Le fiabe non raccontano ai bambini che i draghi esistono. I bambini sanno già che i draghi esistono. Le fiabe raccontano ai bambini che i draghi possono essere uccisi.” Adoro questa frase perché mette in scacco i vari cinici che vivono per dimostrare che il male esiste e che non vi si può sfuggire: in realtà si sa già che il male esiste, ciò che è necessario dire è che esso può essere sconfitto. E qual è la forma narrativa che dimostra meglio ciò, se non proprio la fiaba?
Invece l’opera che preferisco è “Uomovivo”, uno delle prime in cui mi sono imbattuto. La considero la migliore per il personaggio di Innocent Smith, l’uomo vivo, dedito ad attività viste come inaccettabili, strambe, criminose, ma che infine si rivelano essere di una lo

Quale parte della mostra preferisci spiegare ai visitatori?

La stanza che preferisco in assoluto è il salotto. Il salotto, senza rivelare troppo, è la stanza dell’incontro con l’altro; incontro che può diventare scontro. E’ il luogo dove affiliamo i coltelli per affrontare il nemico, dove riusciamo persino a trovare noi stessi, a comprendere le ragioni delle nostre convinzioni. Per questo è la mia preferita: perché io sono sempre pronto a battagliare sulle grandi questioni della vita anche e soprattutto per comprenderle io stesso.

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Troppo spesso sentiamo in tv storie di violenza nei confronti delle donne. Questi tristi episodi non avvengono soltanto laddove la donna è purtroppo considerata un essere di serie “B”, ma fanno parte anche della cronaca di paesi come il nostro, dove l’uguaglianza e l’emancipazione delle donne è (o dovrebbe essere) ormai da decenni un dato acquisito.

Si scatenano così in tv i dibattiti su un così triste fenomeno e talvolta capita che il cristianesimo venga additato come una delle matrici di odio verso le donne. L’accusa di misoginia verso la chiesa è piuttosto antica e prende le mosse dal fatto che le donne non possono accedere al sacerdozio. Si sostiene che una simile scelta sia fortemente maschilista e discriminante nei confronti della donna. Il cristianesimo, afferma questa tesi, sarebbe nemico giurato e irriducibile dell’universo femminile.

Ma le cose stanno davvero così? Ad una analisi più attenta e lungimirante, l’accesso al sacerdozio è l’unica cosa che nel cristianesimo viene negata alle donne, alle quali è comunque riconosciuta una gran dignità, spesso ricordata negli ultimi giorni anche da Papa Francesco. Basta pensare che la figura più amata e venerata nel cristianesimo, dopo quella di Gesù, è Maria. E la Madre del Salvatore è, nella compagine dei santi, in buona compagnia di moltissime altre figure femminili: pensiamo, solo per elencarne alcune, a Lucia, ad Agata, a Perpetua e Felicita. Il cristianesimo poi è l’unica religione nella quale uomini e donne ricevono lo stesso rito di iniziazione: il battesimo. È l’unica religione monoteista che consente a uomini e donne di stare insieme durante gli atti di culto.

Insomma, la dignità della donna è particolarmente tenuta in conto nella religione cristiana e questo perché lo stesso Gesù chiamò, rompendo con la cultura del suo tempo, fra i suoi discepoli delle donne. Per scoprire la genesi di questo amore del cristianesimo verso l’universo femminile può essere utile la lettura del libro “Le donne di Gesù. Figure femminili del Nuovo Testamento” di Maria Luisa Eguez edito dalle “Edizioni Messaggero Padova”.

L’autrice, classe 1951, nella breve prefazione afferma che questo non è un testo esegetico, tuttavia dimostra di avere un ottima padronanza del testo biblico. La Eguez esplora 12 tipologie di figure femminili del Nuovo Testamento, un numero che non sembra affatto casuale.

Ampio risalto viene dato alla Madre di Gesù, alla quale l’autrice dedica bel 29 pagine. La figura della Vergine viene attentamente analizzata partendo dal testo evangelico nel quale si colgono i vari echi veterotestamentari. Maria dunque viene descritta come una figura femminile pienamente inserita nella storia del suo popolo, nella quale le parole dell’Antico Testamento trovano compimento e pienezza.

Tutte le altre figure femminili prese in considerazione consentono di fare una duplice riflessione: da una parte si incontrano volti di persone che la cultura del tempo aveva escluso dal piano di salvezza di Dio, come la madre della straniera ( p. 73), e che vengono ampiamente esaltate da Gesù per la loro fede, dall’altra ogni donna analizzata permette di evidenziare qual è lo sguardo di Gesú verso l’umanità e verso il mondo femminile in particolare come nel caso dell’adultera (p. 63)

La lettura che l’autrice offre non è, come ella stessa afferma, un’interpretazione femminista del vangelo, ma offre lo spunto per comprendere come l’amore per il femminile sia una dimensione costitutiva e originale del cristianesimo, in sostanziale asimmetria con non pochi contesti culturali coevi alla nascita della nostra religione.

Un testo sicuramente consigliabile per avere un quadro generico, ma allo stesso tempo completo, su questo aspetto e che può essere di aiuto per la preparazione di un incontro di catechesi o una lezione di religione.

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SAN BENEDETTO DEL TRONTO – È pronto lo stemma pontificio di Papa Francesco che farà bella mostra di sé sul balcone dell’episcopio di San Benedetto del Tronto. L’opera è stata firmata dall’ingegnere e architetto Alberto Romani che abbiamo avuto il piacere di incontrare e intervistare. Alberto Romani è nato a San Benedetto del Tronto il 23 Dicembre del 1976. Dopo essersi laureato in “Ingegneria Edile – Architettura”, ha intrapreso la strada della libera professione ed è fondatore e presidente dell’Associazione Nazionale dei Laureati in “Ingegneria Edile – Architettura”. Inoltre si occupa di araldica (realizza stemmi) e liuteria (costruttore e restauratore di chitarre).

Può dirci qualcosa per introdurci nel mondo dell’araldica?

L’araldica ecclesiastica, in modo simile a quanto avviene per l’arte iconografica, non può prescindere dalle preghiere che l’artista recita durante la composizione dello stemma. La preghiera deve essere continua e in “favore” della persona che viene rappresentata nell’emblema stesso.

Sin dal suo concepimento, e durante il procedere della scrittura araldica, fino alla definitiva conclusione, il compositore entra in “confidenza” con il Signore, con la Vergine Maria, ma anche con i Santi che talvolta, per scelta del committente, vengono rappresentati attraverso i simboli nello stemma stesso. Chiaramente tutto ciò richiede tempo, concentranzione, pazienza, serenità da parte di chi realizza l’opera.

Badiamo bene che quest’arte, riferita all’ambito ecclesiale, vuole ricordare anche che sussiste la necessità di costante preghiera per i nostri Vescovi, Arcivescovi, Cardinali, Papi, i quali hanno voluto rappresentare la loro missione, il loro affidamento e le loro aspirazioni di fede attraverso un insieme di simboli.

A tal proposito, sottolineo il fatto che tale stemma è stato, non a caso, benedetto dalla Comunità dei Frati Francescani Minori Conventuali della nostra città, durante una celebrazione eucaristica domenica 4 agosto; il tutto a ricordare il legame istauratosi tra il nostro attuale Pontefice e la figura di San Francesco d’Assisi.

Quanto tempo ha impiegato per realizzare l’opera?

Ho realizzato quest’opera in circa 3 mesi e mezzo di tempo. Anche se uno stemma può apparire semplice da realizzare come disegno, tuttavia, ci sono delle tempistiche e dei procedimenti particolari, anche dovuti alla tipologia di materiale che viene utilizzato. Sottolineo poi il fatto che è particolarmente indicato, per le premesse fatte sopra, realizzare queste opere completamente a mano, cercando di evitare le realizzazioni industriali, perchè appunto verrebbe meno tutto l’aspetto spirituale. Per capirci, è come se un’icona venisse realizzata con delle macchine industriali!

Quale tecnica è stata utilizzata?

Ho anzitutto creato il supporto in lamiera zincata da 3 mm di spessore. Dopo averla calandrata e irrigidita nella parte posteriore con lamelle saldate sempre dello stesso materiale, ho dato il fondo con primer e vernice color chiaro (tonalità tra l’avorio chiaro e il sabbia). Dopo aver disegnato i contorni dell’emblema, ho utilizzato vernici sintetiche brillanti per esterni, nonché oro e argento dove occorreva.

È la prima volta che realizza oggetti del genere?

Ho già avuto modo di realizzare opere di questo tipo per privati, ma anche per l’attuale Papa Emerito Benedetto XVI e per il nostro Vescovo della Diocesi di San Benedetto Del Tronto-Ripatransone-Montalto, Sua Eccellenza Monsignor Gervasio Gestori. Ho anche realizzato uno stemma araldico per il “Gruppo Diocesano Ministranti per le Celebrazioni Solenni” che tuttora è in possesso del nostro Vescovo. Di recente ho avuto l’opportunità di realizzare uno stemma araldico per la “Pastorale Giovanile della Provincia Francescana delle Marche” dei Frati Minori Conventuali.

Può spiegare il significato della simbologia adoperata da Papa Francesco per la sua insegna?

Fondamentalmente, Papa Francesco ha conservato il suo stemma anteriore, che scelse già al momento della sua consacrazione episcopale. I simboli della dignità pontificia sono uguali a quelli che furono a suo tempo scelti da Benedetto XVI (mitra collocata tra chiavi decussate d’oro e d’argento, rilegate da un cordone rosso).

Lo scudo è totalmente di colore blu: questo colore, nella simbologia, indica il distacco dai valori mondani e l’ascesa dell’anima verso Dio; nell’araldica, simboleggia fedeltà, santità, castità, devozione e giustizia, nonché, bellezza, fortezza, vigilanza e perseveranza.

All’interno dello scudo, in alto, campeggia l’emblema dell’ordine di provenienza del Papa, la Compagnia di Gesù: un sole raggiante e fiammeggiante caricato dalle lettere, in rosso, IHS, che indicano il monogramma di Cristo. La lettera H è sormontata da una croce; in punta sono rappresentati in nero i tre chiodi della crocifissione.

In basso a sinistra (ovvero nel linguaggio tecnico “a destra dell’ombelico” dello scudo), si trovano la stella, mentre a destra (ovvero nel linguaggio tecnico “a sinistra dell’ombelico” dello scudo) il fiore di nardo. La stella, secondo l’antica tradizione araldica, simboleggia la Vergine Maria, madre di Cristo e della Chiesa; mentre il fiore di nardo indica San Giuseppe. Nella tradizione iconografica ispanica, infatti, San Giuseppe è raffigurato con un ramo di nardo in mano. Ponendo nel suo scudo tali immagini, il Papa ha inteso esprimere la propria particolare devozione verso la Vergine Santissima e San Giuseppe.

Il motto del Santo Padre Francesco è ripreso dalle Omelie di San Beda il Venerabile, sacerdote (Om. 21; CCL 122, 149-151), il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di San Matteo, scrisse: “Vidit ergo Jesus publicanum et quia miserando atque eligendo vidit, ait illi Sequere me” (Vide Gesù un pubblicano e siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi).

Questa omelia è un omaggio alla misericordia divina ed è riprodotta nella Liturgia delle Ore della festa di San Matteo. Essa riveste un significato particolare nella vita e nel percorso spirituale di Papa Francesco. Difatti, nella festa di San Matteo del 1953, il giovane Bergoglio sperimentò, in un modo del tutto particolare, la presenza amorosa di Dio nella sua vita. In seguito ad una confessione, si sentì toccare il cuore ed avvertì la discesa della misericordia di Dio, che lo chiamava alla vita religiosa, sull’esempio di Sant’Ignazio di Loyola.

Una volta eletto Vescovo, Bergoglio, in ricordo di tale avvenimento decise di scegliere, come motto e programma di vita, l’espressione di San Beda “miserando atque eligendo”, che ha inteso riprodurre anche nel proprio stemma pontificio.

Lei è un appassionato di araldica. Quando è nato questo suo interesse?

Diciamo che sin dall’età adolescenziale sono stato attratto dalla simbologia e dallo studio dei simboli. Inizialmente cercavo di capire da solo il significato degli stessi e poi verificavo il mio pensiero attraverso documentazioni e ricerche. Poi rimasi incuriosito quando lessi una frase su un libro di araldiche, attraverso la quale si confermava ciò che era già da tempo il mio pensiero: ogni individuo, in quanto essere umano uguale ad un altro essere umano ha il diritto di poter possedere uno stemma araldico che lo rappresenti, a prescindere dal fatto che egli stesso sia un nobile oppure no, un alto prelato oppure no; perchè la vera nobiltà, scaturisce dalle opere che si compiono in favore dell’umanità e se esse rimangono solo un’ideale rappresentato attraverso simboli, allora l’araldica non ha senso di esistere. Poi decisi di iniziare a buttare giù un primo schema di stemma araldico personale, tuttora nel cassetto e in fase di studio preliminare.

Può lasciare un recapito per chi eventualmente fosse interessato a contattarla per lavoro?

Certamente! Chi fosse interessato, può contattarmi all’indirizzo e-mail albertoromani@alice.it

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L’ultima tela che ammiriamo nella cappella Contarelli riguarda la morte di san Matteo. La composizione si ispira a quanto descritto nella “Legenda Aurea” da Jacopo da Varagine secondo cui l’evangelista sarebbe stato ucciso dopo aver celebrato la messa.

Al centro della composizione si vede il carnefice seminudo che impugna con la mano destra una spada, mentre con l’altra blocca il braccio destro di San Matteo che è ancora vestito con alcuni paramenti liturgici. Un angelo si affaccia da una nuvola per porgere all’evangelista la palma, simbolo del martirio.

Sullo sfondo si intravvede un altare sul quale il santo ha appena celebrato l’eucaristia. Esso è anche riconoscibile grazie alla croce che vi è disegnata.

Tutto intorno stanno degli uomini che sono inorriditi dall’atto che il carnefice sta per compiere. Fra di essi, un po’ nascosto per la verità, possiamo vedere il ritratto di Caravaggio.

Anche in questo caso la contestualizzazione storica e teologica ci permette di comprendere meglio l’opera. Possiamo immaginare che la preoccupazione dei committenti sia sempre la stessa e cioè quella di tradurre in immagini la genuina dottrina cattolica da contrapporre alla nuova eresia protestante. Martin Lutero aveva negato (contraddicendo la stessa Scrittura che tanto venerava) il carattere sacrificale dell’eucaristia a favore del solo carattere conviviale del sacramento.

Egli aveva anche negato il valore e l’efficacia del culto dei santi. Ecco allora che l’artista sta qui a ribadirci la dottrina di sempre: nel sacramento dell’eucaristia, oltre all’aspetto conviviale dato dalla materia con la quale il sacramento stesso si celebra, vi è un vero e proprio memoriale del sacrificio di Gesù sulla croce che viene ricordato dalla posizione dell’evangelista che muore con le braccia spalancate. Anche la croce dipinta sull’altare sta a ricordarci la stessa verità di fede.

Se ogni Santo è un “alter Christus” il martire lo è ancora di più, perché muore in perfetta imitazione del suo Signore. È dunque per questo motivo che i martiri, come tutti gli altri santi, meritano un culto particolare che Lutero aveva loro negato.

Si conclude così questa ulteriore catechesi della bellezza che ci ha dimostrato ancora una volta come il linguaggio dell’arte possa aiutare noi cristiani ad annunciare verità così alte che difficilmente possono essere espresse attraverso le parole. Le immagini invece si imprimono più facilmente nella nostra mente e ci fanno penetrare il Mistero.

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