Catechesi della bellezza
Francisco Goya nel 1814 al termine della guerra d’indipendenza spagnola dall’invasore francese dipinse la celebre tela “3 maggio 1808″ conservata oggi al Museo del Prado di Madrid. Ho potuto ammirare personalmente quest’opera e devo dire che fra tutti i capolavori che, un po’ per passione, un po’ per lavoro, ho avuto la possibilità di osservare, questa è quella che senza dubbio mi ha suscitato una particolare emozione.
Il dipinto rappresenta una drammatica esecuzione. Le milizie francesi stanno fucilando alcuni popolani madrileni. Di questi ultimi, al contrario dei primi, scorgiamo i volti pieni di terrore. Alle uniformi dei soldati si contrappongono gli abiti semplici e variegati dei civili che sono già stati uccisi o che stanno per morire. Fra essi si scorge anche un frate. La luce di una lanterna, parzialmente coperta dalle figure dei soldati, illumina invece a giorno le vittime e fra queste in particolare l’uomo che attende il colpo fatale spalancando le braccia verso il cielo, quel cielo buio che ammanta la città dalla quale sono stati prelevati.
Si può parlare di un’opera d’arte solo quando l’artista riesce a toccare il cuore dello spettatore indirizzandolo verso qualcosa di più grande e credo che Goya sia riuscito in questo rappresentando magistralmente il dramma dell’uomo contemporaneo, quello del 1808 come quello del 2012.
La cultura dei lumi voleva staccare l’uomo dalle sue radici, dalle sue abitudini e dalle sue certezze ed ecco perché l’esecuzione avviene lontano dalla città. Madrid, con le sue case che evocano la vita di tutti i giorni e col suo campanile che ci ricorda la dimensione religiosa della vita, si vede in lontananza, è avvolta dalle tenebre come a significare che per l’esercito invasore la vita degli spagnoli deve uscire dal buio.
Ed ecco allora in primo piano l’esercito francese, venuto a portare la luce, simbolizzata dalla lanterna. Questa luce però è morte per il popolo spagnolo. Il plotone di esecuzione è rigidamente inquadrato e forma una vera e propria macchina di morte. Quegli uomini non hanno nulla di umano ed è per questo che il pittore non ce ne fa scorgere il volto.
Essi stessi coprono quella luce che sono venuti a portare. È come se con un sol colpo Goya avesse messo in mostra tutta la contraddizione di uomini che si proclamano paladini della liberà, dell’uguaglianza e della fraternità.
Vogliono portare la libertà, eppure hanno prelevato con la forza dalle loro case uomini inermi ed ora li stanno trucidando. Fra tutte le libertà esaltano quella di religione, eppure stanno per dare alla chiesa un nuovo martire nella figura del frate. Dicono che vogliono l’uguaglianza, ma le loro uniformi ci parlano solo di una grigia omologazione. Sono a favore della fraternità eppure non esitano a sgominare i loro simili.
Fra tutte le figure dei condannati si staglia quella dell’uomo che spalanca le braccia come un novello Cristo in croce, vittima di un odio cieco e feroce come quello di chi disse: “È meglio che muoia uno solo per il popolo piuttosto che perisca l’intera nazione” (Gv 11,50).
Non vive forse un analogo dramma l’uomo contemporaneo? Ad opera di alcune elites intellettuali, egli è stato allontanato dal suo back-ground culturale e religioso con la (falsa) promessa di un mondo nuovo e trasfigurato e si ritrova invece in una immensa solitudine, amalgamato ad una massa indistinta e oppresso da una schiacciante burocrazia.
È forse ammirando questo quadro che si può trovare la forza e il coraggio di un nuovo sguardo che ci consenta di trovare le risposte ai problemi dell’uomo odierno.
In questi giorni, come ogni anno, nelle nostre case stiamo allestendo il presepe. Può essere allora utile per ognuno di noi rispolverarne la storia e il significato.
Il primo presepe della storia fu “inventato” da San Francesco la notte di Natale del 1223. Egli si trovava a Greccio e, impossibilitato a visitare la terra dove Gesù vide la luce, decise di ricreare la scena della natività in quel piccolo paese. Si deve dunque al Poverello di Assisi il primo presepe vivente.
Alla fine del XIII secolo Nicola IV, nostro conterraneo (era infatti nativo di Lisciano) e primo francescano della storia divenuto Pontefice, sulla scia del Santo di Assisi, commissionò allo scultore Arnolfo di Cambio la realizzazione del primo presepe fatto di statuine.
Questo primo presepe venne per molto tempo conservato nella cappella “Sistina” di Santa Maria Maggiore (da non confondere con la Cappella Sistina dei Musei Vaticani!) in prossimità della tomba di un altro francescano divenuto Papa, anche egli originario delle Marche, e più precisamente di Grottammare. Stiamo ovviamente parlando di Sisto V. Oggi il presepe di Arnolfo di Cambio è ospitato nel Museo di Santa Maria Maggiore.
Veniamo ora all’iconografia e cerchiamo di distinguere gli elementi che ricaviamo dai vangeli da quelli che la tradizione e la pietà hanno successivamente aggiunto. Ricordiamo anche che i vangeli che ci parlano della nascita di Gesù, quello di Matteo e quello di Luca, sono stati scritti dopo la morte e resurrezione del Signore Gesù e che quindi, in un certo senso, questi eventi hanno illuminato gli scrittori sacri mentre componevano i loro testi. Diciamo quindi subito che molte delle cose che Matteo e Luca scrivono, anticipano e prefigurano il destino di Gesù.
Iniziamo dalla grotta. Leggendo il testo del Vangelo di Luca si dice che Maria partorì il bambino, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia. Da quest’ultimo particolare possiamo dedurre che il luogo in cui il Salvatore ha visto la luce fosse proprio una grotta, infatti le grotte erano usate come stalle.
Il particolare della grotta prefigura la morte di Gesù: egli infatti, dopo essere stato tolto dalla croce, venne deposto in un sepolcro. Anche le fasce ci suggeriscono che egli sarà avvolto in teli funebri secondo le usanze ebraiche. È particolarmente significativo l’uso che Luca fa dell’espressione “avvolto in fasce”. Una prima volta egli dice che Maria partorì il bambino, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia. Poi dice che un angelo annuncia a dei pastori la nascita del Messia e che questi dice loro che lo troveranno avvolto in fasce mentre giace nella mangiatoia. La narrazione lucana prosegue dicendo che i partori andarono e trovarono il bambino nella mangiatoia, senza nominare stavolta le fasce. È come se l’evangelista ci volesse indicare che Gesù per due giorni sarà prigioniero della morte e il terzo risorgerà.
Veniamo ora alla mangiatoia. È il luogo dove si poneva il cibo da dare agli animali. Ma anche qui non siamo davanti a qualcosa di casuale. Infatti quel bambino che lì giace, darà il suo corpo come cibo di salvezza per gli uomini. La reliquia della mangiatoia si trova in una zona ipogea sotto l’altare maggiore di Santa Maria Maggiore. E’ molto significativo che la statua del Papa Pio IX, che ha voluto questa sistemazione, sia inginocchiato davanti alla reliquia della mangiatoia ma guardi allo stesso tempo l’altare, dove durante ogni messa si rinnova il mistero dell’incarnazione e Gesù si dona come cibo di salvezza.
E che dire del bue e dell’asinello? Non pochi giornali nelle passate settimane hanno riportato la notizia che Benedetto XVI vorrebbe ridisegnare l’iconografia del presepe abolendo questi due animali. Come ormai troppo spesso accade, il Papa non ha per nulla affermato una cosa del genere e ce ne possiamo accorgere leggendo pagina 83 del suo nuovo libro dedicato all’infanzia di Gesù: “Nessuna raffigurazione del presepe rinuncerà al bue e all’asino”!
Il Papa invece ha ricordato come del bue e dell’asino non si parli nel vangelo di Luca (e neppure in quello di Matteo), ma ha spiegato che la loro presenza è dovuta alla attenta e meditata lettura della Bibbia. Infatti all’inizio del libero del profeta Isaia troviamo la seguente frase: “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone”. Il bue che conosce il suo proprietario è Israele, il popolo eletto, che conosce Dio, mentre l’asino che conosce la greppia è il simbolo dei pagani che conoscono il mondo fisico. Dunque il bue e l’asino sono il simbolo di tutta l’umanità (ebrei e non ebrei) che veglia su Gesù e lo adora.
Passiamo ora ad elementi riferiti dall’evangelista Matteo. Il 6 gennaio metteremo nel presepe i tre re magi, uno bianco, uno nero e uno giallo e questo è però un dato tradizionale! Infatti se leggiamo attentamente il testo del primo vangelo, ci accorgiamo che esso parla di alcuni (non tre!) magi (non re!) venuti dall’oriente (e non dall’Europa, dall’Africa e dall’Asia come invece suggerisce il colore della loro pelle!). Tradizionali sono anche i loro nomi Gaspare, Melchiorre e Baldassare.
Spesso vengono rappresentati uno imberbe, uno con la barba scura e uno con la barba bianca a voler rappresentare tutto l’arco della vita. Giunsero a Betlemme, ci riferisce sempre Matteo, seguendo una stella, ma non una cometa come quella che mettiamo nel Presepe. Il primo a rappresentare una stella cometa sul luogo della nascita di Gesù fu Giotto.
L’ultima sala che visitiamo prende il nome da uno dei dipinti in essa contenuti. Fu decorata da Raffaello e dagli allievi della sua scuola fra il 1514 e il 1517 durante il pontificato di Leone X che volle utilizzare questo ambiente come sala da pranzo. Il Pontefice volle celebrare due omonimi pontefici Leone III e Leone IV, entrambi raffigurati con le sembianze del Papa committente.Nel primo affresco vediamo rappresentata la battaglia di Ostia combattuta nell’849. La flotta cristiana combatte, sconfiggendola, quella saracena nei pressi della foce del Tevere. Sulla sinistra si riconosce il castello di Ostia. Al Papa Leone IV, seduto su un trono, vengono condotti i prigionieri del contingente nemico. Il tema di questo dipinto si deve alla preoccupazione del Papa per l’Europa che a quel tempo era minacciata dai turchi.
Leone IV è il protagonista anche del successivo affresco che dà il nome a tutta la sala. Il Pontefice affacciato da suo palazzo, rispondendo alla richiesta di aiuto di numerose donne, con la sua benedizione sta spegnendo un incendio divampato nell’847 nel rione Borgo. Accanto al palazzo papale possiamo scorgere l’antica basilica di San Pietro. In primo piano vediamo le bellezze di Roma che vanno in rovina: il Tempio di Marte Ultore a sinistra e quello di Saturno a destra. Anche questa scena è dettata dal contesto storico e vuole mostrare il carattere pacifico della Santa Sede che cerca di moderare le rivalità fra le grandi potenze europee.
Nella terza parete è rappresentato un episodio chiave della storia europea: durante la notte di Natale dell’anno 800, il Papa Leone III incorona Carlo Magno Imperatore. Il Pontefice, assiso in trono e attorniato da un gran numero di vescovi, pone sulla testa del sovrano francese inginocchiato la corona imperiale, mentre un giovane paggio regge quella reale appena deposta. L’affresco allude al concordato stipulato nel 1515 a Bologna fra lo Stato della Chiesa e il Regno di Francia. Se infatti si presta attenzione, si possono scorgere nei volti di Leone III e di Carlo Magno le sembianze del Papa Leone X e del Re Francesco I
L’ultima scena rappresentata nella sala ha ancora una volta come protagonista Papa Leone IV e rappresenta un episodio accaduto due giorni prima dell’incoronazione di Carlo Magno. Il pontefice, assistito da due diaconi, giura, ponendo le mani sul libro dei Vangeli posto sull’altare, di rispondere delle sue azioni solo davanti a Dio e non intende discolparsi dalle false accuse mossegli dai nipoti del Papa Adriano I. A rafforzare l’idea che il Pontefice può essere giudicato solo da Dio, nel paliotto dell’altare è raffigurata la martire Caterina che non viene lesa dalle ruote dentate che i suoi carnefici hanno predisposto per torturarla. Assistono al giuramento l’imperatore Carlo V, l’altro personaggio di primo piano nel quadro politico del ’500 insieme a Francesco I, che ci dà le spalle e indossa una catena d’oro e vari Vescovi. L’affresco vuole ricordare la conferma, avvenuta durante il quinto concilio Lateranense, della Bolla Unam Sanctam con la quale il Papa Bonifacio VIII si proclamava suprema autorità civile e spirituale
Ammiriamo ora la “Disputa del Sacramento”. Mentre la “Scuola di Atene” rappresenta il Vero Razionale, cioè la verità che l’uomo può cogliere a partire da se stesso, la “Disputa del Sacramento” rappresenta il Vero Rivelato, cioè la verità che l’uomo può cogliere a partire da Dio che si fa conoscere alla sua creatura. Il dipinto è impostato su un asse verticale ( Dio Padre , Cristo, lo Spirito Santo e il Santissimo Sacramento) e su tre assi che si dipanano dal Padre Eterno, dal Figlio e dall’Ostia consacrata.Partiamo dall’alto. Il Padre Eterno ha in testa un nimbo quadrato, ha la barba lunga e folta, indossa una tunica verde e celeste. Con la mano destra benedice, mentre nella sinistra tiene in mano un globo, simbolo della sua onnipotenza. Egli domina tutta la scena dall’empireo insieme a degli angeli sospesi fra le nuvole.
Sotto il Padre Eterno, il Figlio Gesù, assiso su un trono di nubi condiviso con sua Madre alla sinistra e San Giovanni Battista alla destra, ci mostra le ferite della Passione. Indossa una veste bianca, simbolo di Resurrezione. Alla sua gloria partecipano numerosi santi. A partire da sinistra riconosciamo Pietro, vestito con i colori giallo e blu caratteristici della famiglia Della Rovere, che tiene in mano le chiavi del Paradiso, Adamo, seminudo, con le gambe accavallate, Giovanni Evangelista, vestito di rosso e di verde, mentre scrive il suo Vangelo, il Re Davide con una cetra in mano e il Diacono Lorenzo. Dall’altra parte riconosciamo invece il diacono Stefano con la dalmatica e la palma del martirio, Mosè col volto raggiante che mostra le tavole della Legge, l’Evangelista Matteo, Abramo col coltello del sacrificio in mano e Paolo con la spada e le sue lettere nella mano sinistra.
Sotto al Cristo, notiamo, avvolto in un clipeo di luce, la colomba, simbolo dello Spirito Santo. Alla sua destra e alla sua sinistra degli angeli portano in gloria i quattro Vangeli.
Fin qui Raffaello ha rappresentato la Chiesa Trionfante del Paradiso. Tutti i soggetti rappresentati hanno uno sguardo sereno perché contemplano direttamente la gloria di Dio. Più animata invece la parte bassa del dipinto dove numerosi ecclesiastici, rappresentati della Chiesa Militante, si interrogano sul Mistero Eucaristico. Il centro della scena è dominato dall’Ostia contenuta in un ostensorio adagiato su un altare con dei fregi gialli su sfondo blu. I due personaggi più vicini all’altare, posti specularmente a Platone e ad Aristotele che si trovano nel dipinto di fronte, imitano i due filosofi greci: uno indica l’Ostia mentre l’altro indica il cielo come a dire che l’Eucaristia ha allo stesso tempo un aspetto materiale terreno e uno spirituale celeste. Forse mai il mistero eucaristico è stato meglio rappresentato nell’arte!
Sulla sinistra scorgiamo un personaggio con le sembianze del Bramante, appoggiato su una balaustra, mentre sta invitando il personaggio vestito di giallo e di blu, Francesco Maria Della Rovere ( lo stesso che abbiamo notato nella Scuola di Atene) a leggere su un libro. Il Della Rovere sembra che risponda quasi infastidito al Bramante, indicandogli come via maestra quella della contemplazione e dell’adorazione.
Fra i numerosi personaggi riusciamo anche a notare tre pontefici, cinque vescovi fra i quali Ambrogio ed Agostino, San Tommaso d’Aquino vestito da domenicano e San Bonaventura in abito cardinalizio e persino Dante Alighieri, considerato al tempo non solo poeta ma anche teologo.
L’ultimo dipinto che ammiriamo, il Parnaso, rappresenta la categoria platonica del Bello. Secondo la mitologia greca, su questo monte dimoravano le muse. Al centro del dipinto vediamo il dio Apollo mentre suona la lira da braccio. Gli stanno vicino le nove muse, riconoscibili dai caratteristici attributi. Attorno a questo nucleo ci sono alcuni dei più importanti poeti dell’umanità: il cieco Omero e alle sue spalle Virgilio che mostra a Dante Alighieri la Musa della Commedia
La terza stanza che oggi conosciamo insieme è la stanza della Segnatura, così chiamata perché qui si riuniva il Tribunale della “Segnatura Graziae et Iustitiae” presieduto dal Pontefice, anche se all’inizio il Papa aveva pensato di adibire questo spazio a suo studio privato. Raffaello lavorò in questo ambiente fra il 1508 e il 1511 su commissione di Giulio II.
Il programma iconografico è stato influenzato da due fattori: il ritorno in auge della filosofia platonica agli inizi del ’500 e il fatto che questa corrente di pensiero era sostenuta dai francescani dalle cui fila proveniva Giulio II. Raffaello ha infatti dipinto sulle pareti qualcosa che rappresentasse:
1) il Vero nella sua dimensione umana (filosofia) e nella sua dimensione rivelata (teologia);
2) il Bene (Virtù e Giustizia);
3) il Bello (Poesia).
Partiamo dal Vero nella sua dimensione umana. Nella Scuola di Atene sono rappresentati vari filosofi greci. Essi sono inseriti in una struttura che ricorda la vicina Basilica di San Pietro, come a dire che la Chiesa ha protetto e custodito il desiderio degli uomini di giungere al Vero. La presenza di questa struttura sta anche a dire lo sforzo che l’uomo mette per conoscere la Verità. Nei pilasti vediamo le statue di due divinità greche legate alla filosofia: su quello di sinistra Apollo con la lira in mano, mentre su quello di sinistra Minerva con l’elmo in testa e lo scudo in mano.
I personaggi principali della complessa composizione sono Platone ed Aristotele posizionati nel punto di fuga. Raffaello ha rappresentato Platone (che ha le sembianze di Leonardo da Vinci) con il braccio destro alzato che indica il mondo delle idee, mentre col braccio sinistro regge il Timeo. Aristotele invece distende il braccio in avanti tenendo il palmo della mano verso il basso ad indicare il mondo concreto. Il filosofo regge col braccio sinistro il libro dell’Etica. Il gesto di Platone e quello di Aristotele vanno letti insieme come la capacità dell’uomo di cogliere la totalità della realtà. Le due figure si stanno idealmente muovendo verso il dipinto che hanno di fronte come a dire che la filosofia conduce verso la teologia.
Sulla sinistra scorgiamo una figura di profilo, vestita di verde, che sta parlando con un gruppo di 5 persone. Si tratta di Socrate. Il filosofo sta discutendo con i suoi interlocutori col tipico gesto della adlocutio, cioè sta contando con le dita i ragionamenti che sta sviluppando.
Se abbassiamo di poco lo sguardo notiamo un uomo dai lineamenti gentili, vestito di bianco che guarda lo spettatore. Questo personaggio, che ritroveremo anche nella Disputa sul Sacramento, è con tutta probabilità Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino e nipote di Giulio II.
Spostiamo ora la nostra attenzione sulla destra. Possiamo riconoscere in questi due volti i due artisti che hanno lavorato in questa stanza: il Sodoma, che ha dipinto la volta, con un cappello bianco e un abito bianco e nero e Raffaello. Vicino ai due artisti di spalle c’è Tolomeo, erroneamente dipinto con una corona, che regge un globo. L’altro personaggio che invece regge il globo stellare è Zoroastro. Il personaggio inchinato che sta indicando una piccola lavagna è Euclide con le sembianze di Bramante.
Sulle scale sono seduti due filosofi: quello sulla destra col vestito lacerato è Diogene, mentre con lo sguardo pensoso e assorto è Eraclito che ha le sembianze di Michelangelo.
Passiamo ora alla parete dove sono raffigurate le Virtù e la Giustizia. Nella lunetta in alto possiamo osservare tre donne che rappresentano altrettante virtù. La prima da sinistra è la Fortezza che indossa un’armatura e accarezza un leone. Vicino ad essa si trova un albero di rovere che allude alla famiglia di Giulio II. Al centro si trova invece la Prudenza che si guarda alle spalle per mezzo di uno specchio. Sulla destra vediamo invece la temperanza che regge le briglie moderatrici. Il quartetto delle Virtù Cardinali è completato dalla Giustizia che è rappresentata nella volta. Tre dei cinque angeli che compaiono nella lunetta rappresentano invece le Virtù Teologali. L’angelo che coglie i frutti dall’albero rappresenta la Carità, quello che regge la fiaccola rappresenta la Speranza, mentre quello che indica il cielo allude alla Fede.
Dalle corretta applicazione delle virtù procede il Diritto qui rappresentato nella sua duplice forma di Diritto Civile e di Diritto Canonico. Nel dipinto a sinistra, a rappresentare il Diritto Civile, vediamo il giurista Triboniano che consegna il Codice di Diritto Civile all’Imperatore Giustiniano. Nel dipinto di destra invece, a rappresentare il Diritto Canonico, vediamo il domenicano San Raimondo di Penafort che consegna le Decretali al Papa Gregorio IX che ha le sembianze di Giulio II. Il cardinale a sinistra che regge il piviale del Papa è Giovanni de’ Medici, futuro Leone X.
Raffaello dipinse questa stanza in un momento non troppo felice della vita di Giulio II. Il Pontefice infatti era tornato a Roma dopo una campagna militare nella quale aveva perso la città di Bologna. Giulio II dunque volle far decorare la stanza con delle scene che mostrassero la protezione accordata da Dio alla sua Chiesa.Il primo dipinto mostra l’aiuto che Dio offre in difesa del patrimonio della Chiesa. Raffaello ha rappresentato il brano dell’Antico Testamento (2 Mac 3) in cui il Sommo Sacerdote Onia, che vediamo sullo sfondo, chiede a Dio di intervenire contro l’usurpatore Eliodoro che si è introdotto nel Tempio per rubarne il bottino. Il Sommo Sacerdote, vestito con i colori giallo e blu della famiglia Della Rovere, alla quale il Papa apparteneva, si trova nel Santo, è inginocchiato davanti al tavolo della preposizione, posto vicino alla menorah. Sulla destra tre angeli mandati da Dio, di cui uno a cavallo, scacciano Eliodoro dal Tempio. Sulla sinistra Giulio II assiste alla scena seduto sulla sedia gestatoria.
La seconda scena mostra l’aiuto che Dio offre in difesa della fede della Chiesa. Raffaello ha dipinto il Miracolo di Bolsena che è all’origine della festa del Corpus Domini. Sull’altare della chiesa di Santa Cristina a Bolsena, il sacerdote boemo Pietro sta celebrando la messa, ma dubita della reale presenza di Cristo nell’ostia e da questa stillano alcune gocce di sangue che macchiano il corporale. Davanti all’altare, il Papa Urbano IV, con le sembianze di Giulio II assiste devotamente inginocchiato sul faldistorio al miracolo appena avvenuto.
Il terzo dipinto mostra l’aiuto che Dio offre allo Stato della Chiesa. Raffaello ha rappresentato in questo dipinto lo storico incontro fra Papa Leone Magno e il re degli Unni Attila. Grazie a questo evento, gli Unni non invasero l’Italia. Leone Magno, che ha le sembianze di Leone X, è seduto su un cavallo bianco ed è accompagnato da alcuni dignitari pontifici. Il re degli Unni invece è seduto su un cavallo nero. I santi Pietro e Paolo assistono dal cielo la scena e intervengono in favore di Papa Leone. L’incontro è avvenuto nei pressi di Mantova, qui però il pittore ha voluto ambientare la scena nei pressi di Roma, visto che sullo sfondo vediamo il Colosseo
Il quarto ed ultimo affresco, il vero gioiello della sala, mostra l’aiuto che Dio offre al Capo della Chiesa, cioè al Papa. Raffaello, traendo spunto da un brano degli Atti degli Apostoli (At 12), ha dipinto la fuga di San Pietro dal carcere. La scena ha inizio nel centro: un angelo libera Pietro dalle catene, nonostante nella prigione ci siano due soldati. Sulla destra lo stesso angelo accompagna Pietro, tenendolo per mano, fuori dal carcere mentre altri due soldati dormono. Sulla sinistra quattro soldati si muovono animatamente perché hanno intuito che il prigioniero si sta dando alla fuga. In questa composizione possiamo notare tre fonti luminose: quella naturale della luna, quella artificiale della fiaccola di un soldato, e quella divina dell’angelo che compare per ben due volte. Solo quest’ultima salva Pietro. La scena è di particolare importanza nella storia dell’arte perché rappresenta il primo notturno e doveva essere anche cara a Giulio II visto che, prima di ascendere al pontificato, egli era il titolare della chiesa di San Pietro in Vincoli, dove sono custodite le catene che, secondo la tradizione, hanno tenuto prigioniero il Principe degli Apostoli.
ARTE – Con l’articolo di oggi cominciamo a scoprire un altro gioiello di Roma, anche questo, come la Cappella Sistina, inserito nel circuito dei Musei Vaticani. Si tratta delle Stanze di Raffaello: quattro sale dipinte dall’Urbinate e dai suoi allievi sotto i pontificati di Giulio II e di Leone X.
Iniziamo la visita dalla stanza che è stata decorata per ultima dagli allievi di Raffaello, dopo la morte del maestro: la Sala di Costantino. Sulle quattro pareti vengono narrate le storie del primo imperatore romano convertito al cristianesimo. Questo ambiente veniva utilizzato dai pontefici come sala di rappresentanza.
Nel primo dipinto Giulio Romano illustra la visione di Costantino. Il comandate romano sta incitando i suoi soldati prima della battaglia ( 28 ottobre 312), quando a un certo punto vede nel cielo una croce con scritto in greco: “Con questo segno vincerai”. Sullo sfondo si notano 4 elementi che visivamente ci fanno cogliere tutta la storia di Roma.
Scorgiamo infatti una piramide, la cosiddetta “”Meta Romuli”, ovvero la tomba del fondatore di Roma che nell’antichità si doveva collocare dove oggi sorge la chiesa di Santa Maria in Traspontina in via della Conciliazione. Questa tomba dunque ci ricorda l’inizio della storia di Roma. Vediamo poi un altro monumento funebre, la tomba di Adriano, l’attuale Castel Sant’Angelo.
La Mole Adriana ci ricorda la Roma imperiale e pagana. Andando ancora oltre possiamo osservare il Ponte Milvio, dove il giorno dopo Costantino combatterà la battaglia contro il suo rivale Massenzio. Il Ponte Milvio rappresenta il momento di passaggio dalla Roma pagana alla Roma cristiana. Infine vediamo il Monte Vaticano, dove Costantino farà costruire in seguito la Basilica di San Pietro. Esso rappresenta la Roma cristiana.
Giulio Romano con la collaborazione di Giovanni Francesco Penni ha realizzato la successiva scena: la battaglia di Ponte Milvio. I soldati, su ordine di Costantino, hanno issato sulle loro insegne il simbolo della croce e stanno combattendo contro i loro nemici sul Ponte Milvio che si vede nella parte destra della composizione. Costantino conduce la battaglia cavalcando un cavallo bianco mentre il suo rivale Massenzio affoga, insieme al suo cavallo, nel fiume Tevere.
La sorte di Massenzio fa tornare in mente quella del Faraone Egiziano e del suo esercito. È evidente il parallelismo che gli artisti hanno voluto creare: come Dio favorì gli ebrei salvandoli dal Faraone, così Dio ha appoggiato Costantino contro Massenzio. I tre angeli che assistono alla battaglia infatti stanno proprio a significare questo privilegio.
Gli allievi di Raffaello hanno poi dipinto sulla terza parete il leggendario Battesimo di Costantino. Secondo la leggenda (che non ha corrispondenze con la verità storica), Costantino è stato battezzato dal Papa Silvestro, che qui ha le sembianze di Clemente VII, nel battistero lateranense. Su due colonne vediamo appoggiati i due uomini più potenti del ’500: su quella di sinistra l’Imperatore Carlo V, mentre su quella di destra il re francese Francesco I.
Nell’ultimo dipinto vediamo rappresentata la Donazione di Costantino. In una struttura che ricorda l’antica basilica di San Pietro, l’imperatore inginocchiato dona a Papa Silvestro, che siede su un trono, la città di Roma.
Per le sue imponenti dimensioni il Giudizio Universale è sicuramente l’opera di maggior impatto emotivo che troviamo nella Cappella Sistina. Il Giudizio Universale è l’ultima tappa della storia della salvezza, realizzata per volontà di Paolo III.Per dipingerlo Michelangelo ha tamponato le due finestre della parete di fondo della Cappella, sovrapponendosi alle precedenti opere quattrocentesche del Perugino (nascita di Mosè e nascita di Cristo) e dando vita ad una parete che per la sua forma ricorda le tavole della legge, quasi a dire che nell’ultimo giorno saremo giudicati sulla base del decalogo.
Il fulcro di tutta la composizione è il Cristo Giudice che con un gesto imperioso chiama i morti a risorgere. Accanto a lui, c’è sua madre Maria che intercede per la salvezza degli uomini. Se abbassiamo un po’ lo sguardo possiamo osservare degli angeli che suonano le 7 trombe del giudizio. Fra questi angeli ce n’è uno che regge il grande libro delle colpe. Un altro invece regge il piccolo libro dei meriti
Spostando la nostra attenzione verso sinistra vediamo i corpi dei morti che aprono i loro sepolcri e, rispondendo al cenno del Cristo, si elevano verso il cielo per risorgere con lui e come lui. Michelangelo ha dato corpo in queste immagini alla speranza cristiana della resurrezione della carne. Non solo l’anima sopravviverà in eterno, come pensavano i greci, ma anche la carne vedrà di nuovo la vita, perché per noi cristiani Gesù è il salvatore di tutto l’uomo, sia nella sua componente spirituale che in quella materiale
Fra i vari corpi che anelano alla salvezza, due, vicini agli angeli che suonano le trombe, salgono in cielo grazie a una corona del rosario. Attorno a Cristo e alla Vergine, sia a destra che a sinistra, c’è lo stuolo dei beati. Molti di essi sono riconoscibili dai caratteristici attributi iconografici.
Fra i molti riconosciamo: Cristina con i seni scoperti, i progenitori del genere umano Adamo ed Eva, Andrea che regge la croce decussata (= a forma di decus, cioè di 10 in numeri romani X), Lorenzo con la graticola, Bartolomeo con il coltello nella mano destra e la sua pelle in quella sinistra ( nel volto deformato si può scorgere l’autoritratto di Michelangelo), Pietro con le chiavi e Paolo con la barba lunga, Simone con la sega, Biagio con i pettini, Caterina d’Alessandria con la ruota dentata, Sebastiano con le frecce e Filippo con la croce.
Nella parte in alto gli angeli portano in gloria gli strumenti della Passione di Cristo: sulla sinistra possiamo vedere la croce e la corona di spine, mentre sulla destra la colonna della flagellazione e la canna con la spugna.
Concentriamoci ora sulla parte in basso a destra. Vediamo in questa parte l’infelicità di coloro che volontariamente non hanno corrisposto all’amore di Dio. Essi sono traghettati nel luogo infernale dal leggendario Caronte, mentre Minosse, avvolgendosi la coda attorno al corpo, dice ai dannati a quale parte degli inferi sono destinati.
Minosse ha le sembianze di Biagio da Cesena, il cerimoniere di Papa Paolo III, che aveva criticato Michelangelo per aver raffigurato nella cappella del Pontefice così tanti nudi. Il pittore non la prese bene e così raffigurò il prelato all’inferno. Questi chiese al Papa di intervenire per porre rimedio all’affronto, ma pare che Paolo III gli abbia risposto: “Cristo mi ha dato potere in cieli e in terra, ma non all’inferno!”.
Abbiamo così terminato questa breve introduzione alla Cappella Sistina che il Beato Giovanni Paolo II ha definito “Santuario della teologia del corpo umano”. Non rimane che fare visita a questo straordinario luogo per poterne apprezzare l’immensa bellezza.
Sisto IV fece decorare le pareti della Cappella Sistina da una squadra di pittori toscani guidata dal Perugino. Essi decorarono ogni parete dividendola in tre registri: in alto osserviamo i Papi Martiri, nel mezzo le storie di Mosè e di Cristo e in basso delle finte tende.A noi interessa il registro di mezzo dove i pittori hanno illustrato la storia della salvezza sotto la Legge (storie di Mosè sulla parete sinistra, ovvero quella a sud) e la storia della salvezza sotto la Grazia (storie di Cristo sulla parete di destra ovvero quella a nord). Le due storie sono poste una di fronte all’altra perché Mosè per noi cristiani è una prefigurazione di Cristo e come dice Sant’Agostino “il Nuovo Testamento è nascosto nell’Antico, mentre l’Antico è svelato nel Nuovo”. Possiamo dunque leggere queste storie in parallello.
Il ciclo pittorico aveva inizio sulla parete di fondo dove oggi possiamo ammirare il Giudizio Universale di Michelangelo. Qui alla fine del 1400 avremmo potuto vedere sulla sinistra la nascita di Mosè e sulla destra quella di Cristo.
Fermando la nostra attenzione sul primo dipinto di sinistra, opera del Perugino, possiamo vedere un angelo che ferma Mosè, vestito di giallo e di verde, e gli impone di circoncidere suo figlio Eliezer. Del rito si occupa sua moglie Zippora. Sulla parete opposta, sempre ad opera del Perugino, troviamo il Battesimo di Cristo.
Nella parte alta vediamo l’Eterno Padre, attorniato da numerosi angeli, nell’atto di benedire, più in basso scorgiamo la colomba, simbolo dello Spirito Santo, che si posa sul Cristo mentre viene battezzato da Giovanni Battista. Risulta chiaro il parallelismo: il rito ebraico della circoncisione anticipa e prefigura quello cristiano del Battesimo
Tornando sulla parete di sinistra osserviamo le prove di Mosè, opera del Botticelli. In questo dipinto Mosè viene rappresentato per ben 7 volte mentre affronta diverse prove. Sul lato opposto, sempre dello stesso autore, vediamo le prove di Cristo narrate secondo il racconto di Matteo.
In alto a sinistra, il diavolo, vestito da frate, invita Gesù a trasformare le pietre in pane. In alto al centro Satana conduce Gesù sul pinnacolo del Tempio (che ha le sembianze di Santo Spirito in Sassia) e gli dice di gettarsi. Infine, in alto a sinistra, il maligno mostra a Gesù tutti i regni della Terra, ma viene sconfitto e allontanato dal Signore.
Proseguiamo guardando quello che secondo la critica è il dipinto meno bello della Cappella: il passaggio del Mar Rosso. Mosè raduna il popolo ebraico che riceverà il decalogo, mentre i soldati egiziani affogano nel Mar Rosso. Spostando la nostra attenzione sul lato destro possiamo ammirare il dipinto del Ghirlandaio che raffigura la chiamata dei primi discepoli. Analogamente al dipinto che abbiamo visto sulla parete opposta la scena si svolge sul mare (lago di Galilea). Gesù sta radunando il popolo che riceverà le Beatitudini.
Spostandoci di nuovo a sinistra, vediamo Mosè che sale sulla montagna per ricevere da Dio il decalogo, accompagnato da Giosuè, vestito di giallo e blu (i consueti colori dei Della Rovere). Sceso dal monte Mosè scaglia a terra le tavole della legge perché ha visto il suo popolo che adora il vitello d’oro. Sulla sinistra Mosè mostra al popolo ebraico il decalogo che Dio ha riscritto dopo l’episodio del vitello d’oro. Sulla parete opposta anche Gesù è salito su un monte per proclamare ai suoi discepoli le Beatitudini.
Sulla sinistra Botticelli ha dipinto la punizione di Core, Datan ed Abiram. I tre ebrei che si erano ribellati all’autorità di Mosè e di suo fratello Aronne sprofondano nella terra. Sullo sfondo si nota un arco di trionfo sul quale è scritto in latino: “Nessuno si assuma l’onore, se non chi è chiamato da Dio”. Come Mosè ed Aronne sono stati chiamati da Dio nell’Antico Testamento, così gli Apostoli sono stati chiamati da Gesù nel Nuovo Testamento.
È questo il tema dell’opera del Perugino, sicuramente quella di maggior pregio e con maggiore densità teologica. Gesù chiede agli apostoli cosa le persone, rappresentate col cappello, pensino di Lui, poi rivolgendosi di nuovo agli apostoli, dipinti senza cappello, chiede cosa loro pensino di Lui. Solo Pietro risponde “Tu sei il Figlio di Dio” e Gesù gli consegna le chiavi del Paradiso.
Sullo sfondo notiamo il Tempio di Gerusalemme. Da una attenta lettura del brano di Matteo si evince che questo episodio è accaduto durante la festa dello Yom Kippur, durante la quale il Sommo Sacerdote entrava nel Santo dei Santi e pronunciava il nome di Dio (JHWH).
È evidente il parallelismo: mentre il Sommo Sacerdote degli ebrei pronuncia il nome di Dio, Pietro, novello Sommo Sacerdote dei cristiani, dice “Tu sei il Figlio di Dio”. Possiamo quindi dire che questo dipinto del Perugino rappresenta in termini artistici la più straordinaria apologia del Papato.
Tornando per l’ultima volta sulla parete sinistra vediamo un angelo che mostra a Mosè la terra promessa dove però non entrerà. Il vecchio legislatore scende dalla montagna, legge la Torah agli ebrei e ai suoi piedi è posta l’Arca dell’Alleanza nella quale si possono scorgere le tavole della legge, la verga di Aronne e la manna, il pane sceso dal cielo che ha alimentato gli ebrei durante l loro pellegrinaggio nel deserto. Il pane è anche al centro del dipinto opposto dove Gesù sta celebrando l’Ultima Cena insieme agli apostoli.
Il ciclo delle storie di Mosè termina nella controfacciata dove vediamo la sua tomba. Accanto a questa scena, si conclude anche il ciclo delle storie di Gesù, ma in modo ben diverso, con la sua resurrezione.
Quella che stiamo per raccontare è una leggenda e non appartiene al campo della storia. Tuttavia non pochi artisti si sono ispirati ad essa e l’hanno rappresentata. Stiamo parlando del racconto che ha per protagonisti Costantino e Papa Silvestro. Questa storia è stata raffigurata nel ciclo pittorico che decora l’oratorio di San Silvestro nella chiesa romana dedicata ai Santi Quattro Coronati.
Narra la leggenda che l’imperatore Costantino essendo stato colpito dalla peste (possiamo notare nel dipinto le macchie rosse che sfigurano il suo viso e il suo corpo) viene consigliato da alcuni sacerdoti pagani che lo invitano ad uccidere dei bambini e a fare un bagno nel loro sangue al fine di guarire. Impietosito dalle lacrime delle madri, Costantino non dà luogo ai suoi propositi
Quella stessa notte Costantino vede in sogno i Santi Pietro e Paolo che gli consigliano di chiedere l’aiuto di Papa Silvestro che gli mostrerà una fonte, immergendosi nella quale egli guarirà. L’imperatore fiaccato per la sua malattia è steso sul letto, mentre i due santi gli stanno parlando
Costantino manda allora i suoi messi, ne vediamo tre mentre stanno cavalcando, a chiamare Papa Silvestro che si è ritirato presso il monte Soratte.
Così Papa Silvestro si reca da Costantino e gli mostra un’immagine nella quale l’imperatore riconosce i volti dei Santi Pietro e Paolo che gli avevano parlato in sogno
Papa Silvestro battezza allora Costantino ed egli guarisce dalla lebbra. L’imperatore riceve il battesimo per immersione come era consuetudine nell’antica comunità cristiana
Costantino, come segno di gratitudine per la sua guarigione, dona al Papa la città di Roma, il sinichio (l’ombrellino segno della dignità dell’imperatore) la tiara, simbolo di potere ed un cavallo. Possiamo vedere il Papa che è regalmente seduto su un trono, mentre Costantino è dipinto servilmente piegato e al servizio del Papa.
Il Papa seduto a cavallo, come anche gli altri vescovi, viene scortato dall’imperatore ed entra trionfalmente nella città di Roma.
Questa leggenda, conosciuta come “Donazione di Costantino”, costituirà per secoli la giustificazione del potere temporale dei Papi. La sua infondatezza verrà dimostrata solo nel rinascimento dall’umanista e canonico lateranense Lorenzo Valla (la cui tomba si trova proprio a San Giovanni in Laterano)
Il ciclo pittorico si conclude con due episodi che hanno come protagonista l’Imperatrice Elena, Madre di Costantino.
Il dipinto è mal conservato e rappresenta l’imperatrice mentre osserva una disputa fra Papa Silvestro e un Rabbino. Questi pronuncia il nome di Dio e fa morire un toro, mentre il Pontefice pronuncia il nome di Cristo e lo fa resuscitare. Il soggetto dipinto ci fa ricordare i rapporti non sempre idilliaci fra la comunità ebraica e quella cristiana nella città di Roma
Infine l’imperatrice Elena assiste al ritrovamento della vera croce.