Senza istruzione corriamo il rischio di prendere sul serio le persone istruite. G.K.C.

Catechesi della bellezza

CENTOBUCHI – Padre Ruberval Monteiro, monaco benedettino, è l’autore di un bel dipinto che abbellisce una cappella della parrocchia “Regina Pacis” di Centobuchi del quale vorremmo dare una lettura teologica.

L’opera si compone di due parti: in basso, nella zona dove è posto il tabernacolo, vediamo la scena dell’Annunciazione, mentre in alto possiamo ammirare un dipinto dell’Ultima Cena, affiancato dalla rappresentazione del peccato originale.

Partiamo dall’Annunciazione. Sulla sinistra vediamo l’angelo Gabriele, vestito di bianco e con le ali variopinte. Sulla sinistra la Vergine Maria, vestita di rosso e di blu, sta filando. I due sono separati da un clipeo, all’interno del quale si trova il tabernacolo vero e proprio, sormontato dalla colomba, segno dello Spirito Santo.

Il vangelo canonico di Luca non ci dice cosa stesse facendo la Madonna quando le apparve l’angelo. A questa curiosità, che i primi cristiani avranno sicuramente avuto, risponde l’apocrifo Protovangelo di Giacomo: Maria sta tessendo, per volontà del Sommo Sacerdote, il velo del Tempio, quel velo che si squarcerà in due alla morte di Gesù (cfr. Mc 15,38; Mt 27,51 e Lc 23,45) e che per l’autore della Lettera agli Ebrei è la carne stessa di Cristo (cfr. Eb 10,20).

Ci si potrebbe domandare come mai sia stata scelta la scena dell’Annunciazione per adornare il tabernacolo. A primo acchito fra l’Annunciazione e l’Eucaristia sembra non esserci nessun collegamento. A una lettura più approfondita però, possiamo notare che, come nell’Annunciazione il Verbo (= Parola) di Dio, per la potenza dello Spirito Santo, si è unito alla natura umana, dando luogo al Mistero dell’Incarnazione, così, durante la consacrazione, sempre per mezzo dello Spirito Santo, le parole del sacerdote raggiungono il pane e lo fanno diventare Corpo di Cristo, rendendo nuovamente presente il Figlio di Dio in mezzo agli uomini, come lo fu nel grembo della Vergine Maria dopo il suo “Sì”.

Tanto in Maria, quanto durante la messa, la dinamica parola-materia rende presente il Figlio di Dio in mezzo a noi secondo l’insegnamento di Sant’Agostino: Accedit verbum ad elementum, et fit sacramentum (=Il verbo accede alla cosa e la fa diventare sacramento).

Spostiamo ora la nostra attenzione sulla parte superiore del dipinto. A sinistra notiamo Adamo ed Eva che coprono le loro nudità, dopo aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Essi sono stati ingannati dal serpente, che possiamo vedere mentre si avvolge attorno all’albero. Se ci facciamo caso, accanto all’albero della conoscenza del bene e del male c’é quello della vita. È proprio da quest’ultimo che Cristo prende l’ostia da dare in cibo agli apostoli.

Il significato teologico è molto denso: come a causa del cibo (il frutto proibito) sono entrati nel mondo il peccato e la morte, così per mezzo di un altro cibo (l’Eucaristia) l’uomo ha riacquistato la vita e la grazia (cfr. Gregorio di Nissa, La grande catechesi 37,2-3).

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SAN BENEDETTO DEL TRONTO – La chiesa di San Benedetto Martire è la più antica della nostra città. Essa sorge sul luogo dove da tempo immemorabile si conservano i resti mortali del santo eponimo. L’edificio che oggi vediamo risale al XVIII secolo ed è opera dell’architetto Pietro Augustoni.

La chiesa è a navata unica. Oltre all’altare maggiore, vi sono altri sei altari, tre a destra e tre a sinistra. Varcata la porta, troviamo, murata nella controfacciata, la parte di una lapide che in origine era posta sul sepolcro di San Benedetto e che, secondo le ricostruzioni che sono state fatte, ci fornisce qualche dato sulla vita di San Benedetto. Il martire aveva una sorella gemella di nome Frutta che visse 58 anni, egli invece morì all’età di 28 anni il giorno 13 ottobre (probabilmente 304), quando erano Augusti Diocleziano e Massimiano.

Osservando poi il primo altare sulla parete destra possiamo notare due statue lignee: quella della Madonna Addolorata del 1950 e, in basso, quella del Cristo Morto del 1880.

Sopra al secondo altare della parete destra, vediamo una tela del XVIII secolo nella quale è raffigurata la Madonna del Carmelo che regge Gesù Bambino. Il divin fanciullo sta donando gli “abitini” a Santa Apollonia, riconoscibile dalle tenaglie che ha in mano, suo caratteristico simbolo iconografico. Assistono alla scena anche Santa Lucia, che regge in mano i suoi occhi, e San Nicola di Bari che ha in mano tre palle d’oro.

Sopra al terzo altare della parete destra possiamo ammirare la Pala della Madonna del Rosario, opera del XVI secolo. In questo dipinto distinguiamo due mandorle: in quella più esterna sono rappresentati i 15 misteri del Rosario, mentre in quella interna vediamo la Vergine e Gesù Bambino nell’atto di donare le corone del Rosario a San Domenico e a Santa Caterina da Siena.

Fra le due mandorle corre una fascia, sulla quale troviamo la frase del Salmo 45: “Astitit regina a dextris tuis in vestitu deaurato, circumdata varietate”. Al di sopra della mandorla scorgiamo due angeli oranti, mentre sotto di essa possiamo vedere due uomini che sorreggono dei cartigli: su quello di sinistra si legge “Egredietur virga de radice jesse” (Is 11,1) mentre su quello di destra è scritto “Ecce virgo concipiet et pariet filium” (Is 7,14).

Volgendo la nostra attenzione ora sull’altare che troviamo nella parete di fronte, possiamo ammirare la statua del santo patrono: Benedetto è rappresentato come un giovane soldato romano. Sopra la sua armatura indossa un mantello di colore rosso. Con la mano sinistra tiene una palma, simbolo del martirio, mentre con la destra regge un modellino del Paese Alto. Presso questo altare, visibili al pubblico, possono essere venerati il cranio e le ossa del santo.

Sul secondo altare della parete sinistra troviamo il simulacro della Immacolata Concezione, una immagine molto venerata perché, grazie alla sua intercessione, nel 1855 cessò nella nostra città la piaga della peste. Ogni anno l’8 dicembre, come segno di gratitudine verso la Vergine, questa statua viene portata in processione.

Fra questi due altari non possiamo non notare il luogo dove riposa Padre Giovanni dello Spirito Santo, al secolo Giacomo Bruni, sacerdote passionista sambenedettese che si spense a soli 23 anni e che la chiesa ha riconosciuto come Venerabile. Il dipinto è opera dell’artista don Luigi Sciocchetti, fratello di Mons. Francesco Sciocchetti, benemerito parroco della Madonna della Marina dal 1890 al 1920.

L’ultima pala d’altare che osserviamo risale al XVIII secolo e mostra le anime del purgatorio che grazie all’intercessione di San Giacomo della Marca e di San Pietro d’Alcantera si protendono verso la Madonna e Gesù Bambino nella speranza di raggiungere il cielo.

Se ora spostiamo la nostra attenzione nella zona del presbiterio e più precisamente sull’abside, possiamo notare la pala d’altare, realizzata nel 1707 dal pittore fermano Ubaldo Ricci, raffigurante la scena dell’Ultima Cena. Il Signore Gesù e gli apostoli sono radunati attorno alla mensa. Giovanni è appoggiato sul petto di Gesù e alla sua figura si contrappone quella di Giuda che, voltando le spalle a Gesù, abbandona la mensa.

Nell’abside si possono scorgere alcuni angeli che reggono in mano i simboli della passione: la colonna, la canna con la spugna, il martello, la corona di spine, il calice, la scala, le tenaglie e la croce. La pala d’altare e i putti ci introducono, attraverso il linguaggio delle immagini, al mistero che sull’altare viene celebrato: con il pane e il vino consacrati Gesù ci invita alla sua mensa che è memoriale del suo sacrificio.

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Come afferma il n. 2070 del Catechismo della Chiesa Cattolica “il Decalogo contiene un’espressione privilegiata della legge naturale”. Questo vuol dire che il decalogo ci viene a ricordare ciò che già è iscritto nel cuore dell’uomo: non è una legge troppo in alto, né troppo lontana, ma alberga nell’intimo dell’uomo (cfr. Dt 30,11-14).

Anche se sono così importanti, a volte la memoria gioca brutti scherzi e non riusciamo ad enumerarli tutti… Figuriamoci poi se ci chiedono di ripeterli in fila! A venire incontro a questa nostra difficoltà è ancora una volta un’opera d’arte che ci può aiutare a memorizzare i 10 comandamenti: si tratta del pannello di Lucas Cranach il Vecchio che rappresenta l’osservanza/inosservanza della legge. Il pittore tedesco ha realizzato nel 1516 quest’opera che faceva bella mostra di sé nella Camera di riunione della Corte del Municipio di Wittenberg.

I pannelli sono disposti su due file ognuna delle quali contiene 5 comandamenti. Partiamo dalla prima fila e volgiamo il nostro sguardo verso sinistra.

1) Non avrai altro Dio al di fuori di me: nella prima immagine Cranach ha rappresentato Dio che sta donando a Mosè le due tavole della legge. Mentre Mosè sta ricevendo i dieci comandamenti, due ebrei adorano il vitello d’oro (che qui però viene rappresentato come un idolo greco-romano).

2) Non pronunciare invano il nome di Dio: per illustrare questo comandamento, Cranach ha rappresentato la parabola del Pubblicano e del Fariseo. Entrambi si rivolgono a Dio, ma mentre il primo lo fa con estrema umiltà e retto timore, l’altro si serve di Dio per affermare se stesso e disprezzare gli altri uomini. Il Fariseo bestemmia non con delle parole, ma con la sua stessa vita, perché strumentalizza Dio.

3) Ricordati di santificare le feste: un angelo spinge moglie e marito ad entrare in chiesa.

4) Onora il padre e la madre: il primo dei comandamenti che parla dei nostri doveri verso gli uomini è rappresentato da un papà e da una mamma che stanno con i loro fanciulli.

5) Non uccidere: nell’ultimo riquadro della prima fila vediamo una creatura infernale di colore giallo (nella pittura spesso associato al male o all’invidia) istiga un uomo ad ucciderne un’altro steso a terra e vestito di rosso come il sangue che sta per versare.

6) Non commettere atti impuri: spostando la nostra attenzione sul primo riquadro della seconda fila notiamo che il maligno spinge un uomo a curiosare all’interno di una stanza nuziale.

7) Non rubare: istigato da un demone, un uomo vestito di rosso tenta di sottrarre un calice alla bella dama vestita di verde.

8) Non pronunciare falsa testimonianza: in un tribunale, al cospetto di un giudice che siede dietro un banco, compaiono due uomini quello a sinistra, spinto da un angelo, si appresta a dire la verità, mentre quello a destra, esortato dal diavolo, sta per mentire.

9) Non desiderare la donna d’altri: il tentatore spinge un uomo a corteggiare una donna mentre l’ignaro marito le dorme accanto.

10) Non desiderare la roba d’altri: un demone tenta un uomo che desidera rubare delle monete che si trovano su un tavolo

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La Cappella del Corporale del duomo si Orvieto venne costruita per custodire la preziosa reliquia del Miracolo di Bolsena. Tutta la cappella è stata affrescata fra il 1357 e il 1364 da Ugolino di Prete Ilario e può essere considerata un trattato di teologia eucaristica per immagini.

Molti affreschi si riferiscono a prefigurazioni veterotestamentarie dell’eucaristia e a miracoli eucaristici, come quello di Bolsena, accaduto 750 anni fa e rappresentato sulla parete destra della cappella. Proprio di quest’ultimo affresco vogliamo ora parlare. Ugolino di Prete Ilario ha impostato la narrazione del miracolo eucaristico di Bolsena, e dei fatti ad esso connessi, su tre registri: alto, medio e basso.

La storia viene raccontata per sequenze.Nella prima, in alto a sinistra, vediamo il miracolo vero e proprio. Il sacerdote boemo Pietro sta celebrando la messa nella chiesa di Santa Cristina a Bolsena. Egli sta consacrando il pane e il vino, riusciamo a capirlo anche dalla sua posizione curvata, richiesta ad ogni celebrante, sia come forma di rispetto verso Cristo che si rende presente, sia perché, come insegna Sant’Agostino, le parole raggiungono la materia e la fanno diventare sacramento. Pietro è rivolto verso l’altare e dà le spalle al popolo, come era in uso prima della riforma liturgica del Vaticano II. In questo momento, mentre egli è preso da un dubbio sulla presenza reale, dall’ostia stillano alcune gocce di sangue che vanno a macchiare il corporale.

La seconda sequenza si svolge ad Orvieto ed in essa si vede il sacerdote Pietro inginocchiato, in segno di rispetto e di gerarchica subordinazione, davanti a Papa Urbano IV. Il pontefice siede su un trono elevato, sul suo capo è posta la tiara, formata da una sola corona (col tempo si aggiungeranno le altre due fino a formare quella che oggi conosciamo). Il papa spalanca le mani in segno di stupore per quello che il sacerdote Pietro sta raccontando. Ad ascoltare l’incredibile racconto del sacerdote boemo c’è anche un gran numero di cardinali vestiti col tradizionale abito rosso porpora.

Nella terza sequenza, l’ultima del registro alto, il papa Urbano IV affida a Giacomo, Vescovo di Orvieto, il compito di indagare sulla veridicità del racconto di Pietro. Giacomo, come ogni vescovo, indossa la mitria.

A differenza del primo registro, gli altri due sottostanti si compongono di due sole sequenze. La prima sequenza del registro medio mostra il vescovo Giacomo mentre constata la veridicità del miracolo. Egli è stato condotto a Bolsena da Pietro, che appare inginocchiato davanti all’altare.

L’altra sequenza, che occupa uno spazio doppio rispetto alla prima, mostra l’arrivo della sacra reliquia nella città di Orvieto. Il vescovo Giacomo sta attraversando un ponte sul fiume Riochiaro e mostra al Papa il corporale macchiato di sangue. Il pontefice è inginocchiato e prega davanti alla reliquia; indossa i paramenti liturgici e sulle sue mani possiamo scorgere le chiroteche. Alle sue spalle, due membri della corte pontificia portano una croce astile, simbolo del potere spirituale, e il sinichio, una sorta di ombrellino che indica il potere temporale. Segue uno stuolo di cardinali, vescovi, religiosi e una gran folla di popolo accorsi per ammirare l’incredibile fatto.

Spostando la nostra attenzione sul registro basso vediamo la penultima sequenza. Urbano IV si affaccia dal palazzo papale di Orvieto e mostra al popolo il corporale. Nell’ultima sequenza, che chiude questo ciclo pittorico, vediamo san Tommaso d’Aquino che consegna al papa il testo dell’inno “Pange lingua gloriosi” scritto per onorare il mistero eucaristico.

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L’ultima tela che ammiriamo nella cappella Contarelli riguarda la morte di san Matteo. La composizione si ispira a quanto descritto nella “Legenda Aurea” da Jacopo da Varagine secondo cui l’evangelista sarebbe stato ucciso dopo aver celebrato la messa.

Al centro della composizione si vede il carnefice seminudo che impugna con la mano destra una spada, mentre con l’altra blocca il braccio destro di San Matteo che è ancora vestito con alcuni paramenti liturgici. Un angelo si affaccia da una nuvola per porgere all’evangelista la palma, simbolo del martirio.

Sullo sfondo si intravvede un altare sul quale il santo ha appena celebrato l’eucaristia. Esso è anche riconoscibile grazie alla croce che vi è disegnata.

Tutto intorno stanno degli uomini che sono inorriditi dall’atto che il carnefice sta per compiere. Fra di essi, un po’ nascosto per la verità, possiamo vedere il ritratto di Caravaggio.

Anche in questo caso la contestualizzazione storica e teologica ci permette di comprendere meglio l’opera. Possiamo immaginare che la preoccupazione dei committenti sia sempre la stessa e cioè quella di tradurre in immagini la genuina dottrina cattolica da contrapporre alla nuova eresia protestante. Martin Lutero aveva negato (contraddicendo la stessa Scrittura che tanto venerava) il carattere sacrificale dell’eucaristia a favore del solo carattere conviviale del sacramento.

Egli aveva anche negato il valore e l’efficacia del culto dei santi. Ecco allora che l’artista sta qui a ribadirci la dottrina di sempre: nel sacramento dell’eucaristia, oltre all’aspetto conviviale dato dalla materia con la quale il sacramento stesso si celebra, vi è un vero e proprio memoriale del sacrificio di Gesù sulla croce che viene ricordato dalla posizione dell’evangelista che muore con le braccia spalancate. Anche la croce dipinta sull’altare sta a ricordarci la stessa verità di fede.

Se ogni Santo è un “alter Christus” il martire lo è ancora di più, perché muore in perfetta imitazione del suo Signore. È dunque per questo motivo che i martiri, come tutti gli altri santi, meritano un culto particolare che Lutero aveva loro negato.

Si conclude così questa ulteriore catechesi della bellezza che ci ha dimostrato ancora una volta come il linguaggio dell’arte possa aiutare noi cristiani ad annunciare verità così alte che difficilmente possono essere espresse attraverso le parole. Le immagini invece si imprimono più facilmente nella nostra mente e ci fanno penetrare il Mistero.

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Abbiamo detto nel precedente articolo che molto tempo passò prima che la tela che oggi vediamo posta sopra l’altare principale potesse esservi collocata.

Caravaggio aveva terminato le due tele che raffiguravano “La vocazione di San Matteo” e “Il martirio di San Matteo” (tela della quale parleremo nella prossima puntata) quando gli eredi del cardinale Matteo Contarelli fecero collocare sopra l’altare della cappella il gruppo scultoreo che oggi possiamo ammirare nella chiesa della Trinità dei pellegrini. Esso rappresenta un angelo che col braccio sinistro regge un calamaio mentre col destro indica il cielo a significare l’origine divina delle parole che San Matteo sta per scrivere nel suo Vangelo. L’evangelista è seduto su uno scranno e viene come sorpreso alle spalle dall’angelo a significare l’alterità dell’azione divina nei confronti dell’uomo.

Per chi osserva l’opera, la mano che regge la penna con la quale l’evangelista sta per scrivere è in una posizione media fra l’angelo e il libro. Con questo particolare l’artista ha espresso la posizione che l’agiografo ha nella storia della salvezza: egli si trova a metà strada fra l’angelo che lo ispira e il libro che egli consegnerà alla comunità cristiana. I vangeli non sono scesi dal cielo, allo stesso modo in cui il Corano è sceso dal cielo per i musulmani: essi sono testi ispirati da Dio, ma scritti con le mani e con la testa degli uomini di cui Dio si è servito; si può dire che in un certo senso vale per la composizione delle Sacre Scritture lo stesso principio del rapporto Grazia divina-responsabilità umana del quale abbiamo parlato a proposito della precedente tela. Per i cattolici, a differenza dei protestanti, non vale il principio della “Sola Scriptura”, essa è sempre annunciata e interpretata dalla Chiesa in linea con le parole di Sant’Agostino: “Non crederei al Vangelo se non mi ci inducesse l’autorità della Chiesa cattolica” (cfr. Sant’Agostino, Contra epistulam Manichaei quam vocant fundamenti, 5, 6).

Dunque a un livello teologico l’opera dell’artista fiammingo rispondeva perfettamente alle esigenze del tempo. Perché dunque è stata rimossa? Molto probabilmente perché accanto a due opere di Caravaggio gli spettatori potevano avvertire qualcosa di “stonato”, un’opera scultorea forse si inseriva male fra due opere su tela e ne spezzava l’unità. Fu così che i committenti nel 1602 decisero di rimuoverla e di commissionare a Caravaggio anche la tela che doveva sovrastare l’altare.

Come dicevamo nella precedente catechesi della bellezza, quest’opera venne giudicata inopportuna: l’angelo faceva tutto un corpo con San Matteo non evidenziando l’origine divina della Sacra Scrittura e in più guidava materialmente l’evangelista nella stesura del Vangelo e una tale immagine non rendeva bene la visione cattolica sull’ispirazione delle Scritture; l’evangelista sembrava una sorta di burattino nelle mani dell’angelo che figurava così come l’unico autore del vangelo a scapito della componente umana. L’opera, come dicevamo, fu acquistata da Vincenzo Giustiniani, passò poi ai Musei di Berlino e fu distrutta verso la fine della seconda guerra mondiale nell’incendio della Flakturm  Friedrichshain ed oggi la conosciamo solo grazie a qualche foto scattata prima che fosse distrutta.

Fu così che Caravaggio compose l’attuale tela. Caravaggio riprese il modello elaborato da Jacob Cobaert e dipinse San Matteo sorpreso alle spalle dall’angelo, però pose questi sospeso nel cielo per accentuare l’origine divina del messaggio evangelico. La posizione dell’evangelista è comunque tutt’altro che classica! Egli sta scrivendo il suo vangelo ascoltando le parole dell’angelo stando seduto in modo poco composto su uno sgabello.

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La cappella Contarelli

Ci accingiamo a conoscere uno dei luoghi più visitati e amati di Roma: la cappella Contarelli in San Luigi dei francesi. La cappella prende il nome dal cardinale francese Matteo Contarelli che la comprò nel 1565 e decise di adornarla con opere d’arte che si riferissero al santo del quale portava il nome: l’apostolo ed evangelista Matteo.

Benché il cardinale avesse espresso con chiarezza cosa avrebbe voluto nella sua cappella, nulla si fece fino a quando nel 1585 giunse la morte. Ad occuparsi allora della realizzazione delle opere d’arte furono gli eredi, che però videro i primi risultati solo poco prima del 1600.

Ad occuparsi della realizzazione della cappella fu Caravaggio, su interessamento del potente cardinale Del Monte, suo protettore. Egli realizzò la “Vocazione di San Matteo” e poco dopo “Il martirio di San Matteo” che vennero posti rispettivamente sulla parete sinistra e su quella destra della cappella.

Sulla parete di fondo invece venne sistemata nel 1602 “L’ispirazione di San Matteo”, opera dello scultore fiammingo Jacob Cobaert, che però non piacque e venne rimossa. Oggi l’opera può essere ammirata nella chiesa della Trinità dei pellegrini. Al suo posto venne realizzata una tela da Caravaggio, che però ancora non riuscì a soddisfare i gusti dei committenti. L’opera fu acquistata da Vincenzo Giustiniani, passò poi ai Musei di Berlino e fu distrutta verso la fine della seconda guerra mondiale nell’incendio della Flakturm Friedrichshain. Infine Caravaggio realizzò l’opera che oggi ammiriamo.

Le tre tele che stiamo per conoscere possono essere definite un condensato di teologia cattolica: infatti l’autore ha espresso attraverso il linguaggio dell’arte le più alte verità della fede cattolica, messe in dubbio in quel periodo dalla rivoluzione protestante. Per parlare di queste meravigliose opere d’arte, seguiremo lo stesso metodo utilizzato per “La cena di Emmaus”: passeremo dalla descrizione al significato.

La vocazione di San Matteo

Descrizione

Nel quadro possiamo individuare due gruppi di persone: quelle sedute al tavolo e quelle in piedi. Al primo gruppo appartengono 5 persone, fra cui, in posizione centrale, San Matteo. In piedi sta  invece Gesù, quasi coperto da San Pietro. I primi sono vestiti in abiti cinquecenteschi tipici dell’epoca del pittore, mentre il Signore e il principe degli apostoli sono vestiti con abiti antichi. Nella parte alta del quadro, in posizione comunque decentrata, si vede una finestra, dalla quale però non proviene luce. Il buio della scena viene squarciato dalla luce che proviene dalla parte del Cristo e che va a illuminare tutti i personaggi seduti al tavolo, compresi quelli che, in posizione curvata, continuano a contare i denari non curandosi minimamente di quello che sta accadendo. I pubblicani più vicini a Gesù lo osservano con stupore, tuttavia l’unico che sembra rispondere alla chiamata di Gesù sembra essere proprio Matteo, che con l’indice sinistro indica se stesso come se si sentisse interpellato. La mano di Pietro sembra confermare la chiamata del Cristo che avviene in modo dolce. Si noti la posizione della mano di Gesù che richiama quella del Creatore nella volta della Cappella Sistina.

Significato

Passiamo dalla descrizione al significato. Con un po’ di stupore ci accorgeremo che la tela è piena di significati, che solo grazie ad una approfondita conoscenza della teologia cattolica possiamo apprezzare in pieno. Partiamo proprio dai due gruppi; quello seduto al tavolo rappresenta la “dimensione orizzontale” umana, mentre il gruppo formato da Gesù e Pietro rappresenta la “dimensione verticale” divina: insomma, il quadro ci sta parlando del più grande dei misteri, quello dell’incontro dell’uomo col divino.

La luce proviene dalla parte di Gesù e di colui che egli ha chiamato a guidare la Chiesa e non dalla finestra, come a dire che solo dalla parte del Salvatore e della Chiesa che egli ha instituito può provenire la salvezza. Dobbiamo pensare che non è ancora passato mezzo secolo dalla rivoluzione protestante che ha spaccato l’Europa e la committenza ecclesiastica vuole ribadire l’unicità della Chiesa, anche attraverso il potente linguaggio delle immagini. Sempre in quest’ottica va vista collocazione di Pietro che è posta fra Gesù e lo spettatore: Pietro, e con lui tutta la Chiesa, svolge un ruolo di mediazione fra il divino e l’umano, al contrario di quanto affermato da Lutero.

La luce poi illumina tutti coloro che sono seduti al tavolo. Anche qui dobbiamo vedere tradotta in immagini una delle verità più importanti dell’antropologia cristiana, quella della grazia e del libero arbitrio. La luce della grazia illumina tutti gli uomini, è Dio che fa il primo passo verso di loro, ma a questo desiderio di salvezza non tutti rispondono allo stesso modo: è il dramma della libertà incarnato dai due personaggi che stanno sull’estrema sinistra, non a caso curvati su se stessi; sono così attenti solo ed esclusivamente alle loro persone e ai loro interessi, che si autoescludono dalla salvezza portata dalla grazia di Cristo. Al contrario, Matteo si sente coinvolto dalla chiamata e risponde positivamente. Egli si sente chiamato dalla dolcezza di quella mano che non è rigida e tesa come in atto di comandare, ma con estrema delicatezza invita alla sequela e alla responsabilità

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Durante le nostre catechesi artistiche abbiamo sempre rivolto la nostra attenzione a opere di chiese cattoliche, oggi invece prendiamo in considerazione un polittico che si trova nella chiesa luterana di Santa Maria a Wittenberg. Lo facciamo essenzialmente per due motivi: in primo luogo perché il linguaggio dell’arte, essendo comune non solo alle varie confessioni cristiane, ma addirittura ad una gran quantità di religioni, avvicina fra loro gli uomini e poi perché, dall’osservazione di una tale opera, possiamo imparare a conoscere un po’ meglio i nostri fratelli cristiani, pur non condividendo le loro dottrine.

Il polittico in questione è posto sull’altare della chiesa di Santa Maria di Wittenberg, è stato dipinto nel 1547 da Lucas Cranach il Vecchio, che può essere considerato l’ideologo del Luteranesimo nel campo della pittura, ed è composto da quattro panneli. I primi tre ci illustrano i tre sacramenti riconosciuti dai luterani: il battesimo, l’eucaristia e la penitenza. Nell’ultimo, posto in basso, c’è il crocifisso.

Partendo dal primo pannello possiamo osservare Filippo Melantone, stretto collaboratore di Lutero, mentre sta amministrando presso un fonte battesimale il primo sacramento dell’iniziazione cristiana. Accanto a lui, sulla destra, scorgiamo l’iniziatore della riforma protestante che tiene aperto il libro della bibbia. Sulla sinistra invece vediamo il pittore stesso che regge la veste bianca che il neo battezzato indosserà. Vicino a Lucas Cranach il Vecchio ci sono la madre e il padre del bambino in ricchi abiti cinquecenteschi.

Veniamo ora al pannello centrale. Sia per la sua posizione che per le sue dimensioni comprendiamo che questa è la scena più importante. Il momento dell’ultima cena è rappresentato ispirandosi all’iconografia orientale che mostra spesso gli apostoli disposti a mo’ di “sigma” mentre Gesù è seduto a capotavola. La scena si ispira alla narrazione di Giovanni: vediamo infatti l’apostolo prediletto dal Signore appoggiarsi sul suo petto mentre Gesù imbocca Giuda. Fra i dodici apostoli è seduto Lutero il quale sta dando il calice ad un uomo che ha le sembianze di Lucas Cranach il Giovane. In questo particolare possiamo vedere uno dei capisaldi della dottrina eucaristica luterana e cioè la comunione sotto le due specie. I Luterani infatti non riconoscono la dottrina cattolica della concomitanza e pertanto ritengono valida la comunione solo se ricevuta attraverso entrambe le specie del pane e del vino

Nel terzo pannello è raffigurato Johannes Bugenhagen, pastore della chiesa di Santa Maria di Wittenberg, mentre con una chiave accoglie nella comunione della chiesa un fedele e con un’altra allontana un peccatore. Fino a questo momento, a livello iconografico, le chiavi sono sempre state un attributo di Pietro. Lutero però ha contestato (erroneamente) la dottrina del primato asserendo che le chiavi non appartengono al solo Pietro, ma a tutta la chiesa. Ecco perché Cranach le dipinge nelle mani di un semplice pastore

Veniamo ora all’ultimo pannello posto in basso. Al centro vi è il crocifisso, sulla destra Lutero che predica e sulla sinistra i fedeli che lo ascoltano. Fra questi si può riconoscere la moglie di Lutero, l’ex suora cistercense Caterina von Bora , mentre mentre dà la mano a loro figlio Hans. Se è vero che il crocifisso occupa una posizione centrale nel pannello dando espressione alla cosiddetta “theologia crucis”, dall’altra dobbiamo constatare che esso ha dimensioni più piccole rispetto alla sovrastante scena dell’ultima cena e questo perché per Lutero, a differenza della comune dottrina di allora, vede nell’eucaristia il memoriale della cena e non del sacrificio di Cristo sulla Croce.

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FIRENZE – Dopo aver parlato  di come i sette vizi capitali sono stati rappresentati da Hieronymus Bosch, illustriamo ora come vengono raffigurate le 7 virtù. Aiutiamoci con i dipinti di Piero del Pollaiolo e Sandro Botticelli (autore della sola Fortezza), attualmente conservati nella Galleria degli Uffizi e originariamente pensati per decorare il Tribunale della Mercanzia di Piazza della Signoria a Firenze.

È fondamentale che nella catechesi si punti più sugli aspetti positivi che su quelli negativi. È tanto facile descrivere (e fare) ciò che è male, quanto è difficile parlare (e fare) del bene. Dobbiamo fare nella nostra pastorale invece una sorta di conversione, una vera e propria metanoia (=cambio di mentalità) di evangelica memoria e sforzarci di parlare del bene.

Ricordiamo che le sette virtù si dividono in teologali e cardinali. Le prime sono tre e vengono così chiamate perché sono infuse direttamente da Dio e hanno Lui come “oggetto”, le rimanenti vengono chiamate cardinali perché sono il cardine di tutte le altre. Tutte vengono rappresentate da figure femminili con particolari attributi iconografici.

Partiamo dalla Fede. Viene rappresentata da una donna che regge in una mano il calice e la patena (spesso si vede l’ostia), mentre nell’altra brandisce una croce. Il suo colore caratteristico è il bianco

La Carità è rappresentata da una donna che allatta il suo bambino (spesso si trovano anche altri pargoli che attingono al seno materno). Nell’altra mano la Carità regge una fiamma, simbolo dell’amore ardente e disinteressato verso il prossimo. Il suo colore caratteristico è il rosso

La Speranza è una donna vestita di verde con le mani giunte e lo sguardo rivolto verso il cielo da dove attende la salvezza. Anche se in questo dipinto manca, il suo caratteristico attributo iconografico è l’ancora dando così rappresentazione alle parole della Sacra Scrittura che in Eb 6,19 afferma: “In essa (cioè nella Speranza) noi abbiamo come un’ancora della nostra vita, sicura e salda”. La forma dell’ancora infine ricorda la croce, speranza di ogni credente.

Passiamo ora alle virtù cardinali iniziando dalla Fortezza. È rappresentata come una donna che indossa un’armatura necessaria per il combattimento contro il male e il conseguimento del bene. Regge in mano uno scettro, simbolo della nobiltà di chi esercita questa virtù. In genere nelle rappresentazioni della virtù compare anche la colonna che sostiene chi vuole essere forte.

La Giustizia tiene in mano il globo, mentre nell’altra regge una spada con la quale applica in modo imparziale le sentenza. Al posto del globo molto più frequentemente si trova la bilancia, simbolo di equità.

La Temperanza è simboleggiata da una donna che stempera il vino con l’acqua.

Infine abbiamo la Prudenza che regge in mano uno specchio col quale si guarda alle spalle. Tale attributo iconografico deriva dal passo del Libro della Sapienza che dice: “La sapienza è uno splendido riverbero della luce eterna, specchio puro dell’attività di Dio, immagine della sua bontà” (Sap 8,26).  Nell’altra mano la Prudenza regge un serpente. Anche questo attributo deriva dalla Sacra Scrittura e precisamente dal passo evangelico di Matteo dove Gesù afferma: “Siate dunque prudenti come serpenti e semplici come colombe” (Mt 10,16).

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ROMA – Quando si enumerano i 7 vizi capitali, se va bene, all’appello ne manca sempre uno, anche a causa del fatto che sempre meno trovano posto nella catechesi. Effettivamente non è mai piacevole ricordare a noi stessi quali possono essere le nostre pecche. Ecco allora che per digerire meglio il discorso ci può venire in aiuto una piccola ma interessante opera d’arte: I 7 vizi capitali di Hieronymus Bosch. La tavola che misura 120 x 150 cm sarà esposta fino al 2 giugno nell’ambito della mostra “Brueghel. Meraviglie dell’arte fiamminga” al Chiostro del Bramante a Roma.

Nel complesso il dipinto presenta 5 cerchi di cui uno più grande al centro e gli altri posti negli angoli della tavola.

Al centro del primo grande cerchio si può osservare il Cristo, posto in una sorta di occhio che scruta tutti i vizi dell’uomo, come anche ricorda la scritta “Cave cave Deus videt” (=Attenzione, attenzione, Dio vede)

Partendo dal basso e andando poi in senso orario ci imbattiamo nel primo vizio capitale: l’ira (dalla radice indoeuropea eis =  impeto, slancio). Essa è rappresentata da due uomini furibondi che se le stanno dando di santa ragione! Una donna, con il capo velato, cerca di calmarne uno.

Segue poi l’invidia (dal latino “videre” col prefisso “in”= guardare in, guardare in modo cattivo). Due cagnolini non si accontentano di alcuni ossi che hanno a portata di mano ma ambiscono ad afferrarne uno più grande tenuto da un signore affacciato ad una finestra. Questi, insieme a sua moglie, guarda, con profonda invidia appunto, un uomo nobile che si diletta con un  falco che tiene appoggiato sulla mano destra, mentre un garzone lavora per lui trasportando un pesante sacco. Una giovane donna, presumibilmente la figlia dei due invidiosi, cerca di sedurre e conquistare un uomo ricco (lo si deduce dal grosso sacco portamonete che tiene legato alla vita.

L’avarizia (dal latino “avere” = bramare) è rappresentata da un giudice, vestito con la sua toga, che si fa corrompere da due uomini, mentre altri due, ignari, sono seduti in attesa di giudizio.

La gola viene rappresentata da due villani che si ingozzano a più non posso; uno si scola avidamente un fiasco di vino non facendo neppure uso del bicchiere, l’altro, seduto davanti ad una tavola imbandita, rosica smodatamente un osso mentre un pasciuto fanciullo gli afferra il camiciotto all’altezza della pancia. Come se i due non fossero ancora sazi, una donna porta ancora una portata da mangiare.

L’accidia (dal greco “a-kedia” = non curanza), cioè la trascuratezza nel compiere ciò che è bene e necessario, è rappresentata da un personaggio vestito di verde, comodamente seduto  davanti ad un caminetto, con la testa appoggiata su un cuscino. Egli viene sollecitato alla preghiera da una suora che gli porge la corona del Rosario

Due coppie di amanti che si intrattengono sotto una tenda rossa rappresentano il vizio della lussuria (dal latino “luxus” = sfarzo). Essi si divertono guardando le messe in scena di due buffoni.

Infine la superbia (dal latino “superbus” = che sta sopra”) viene rappresentata da una donna che in modo vanitoso si guarda la propria acconciatura in uno specchio che viene sorretto dal demonio.

Sopra al grande cerchio centrale si nota un cartiglio con su scritto: “Gens absque consilio est et sine prudentia / utinam saperent et intelligerent ac novissima providerent” (=È un popolo privo di discernimento e di senno; o, se fossero saggi e chiaroveggenti, si occuperebbero di ciò che li aspetta).

Sotto di esso si vede un altro cartiglio che recita: “Nascondam faciem meam ab eis considerabo novissima eorum” (=Io nasconderò il mio volto davanti a loro e considererò quale sarà la loro fine)

Gli uomini poi devono fare i conti con i 4 novissimi: Morte, Giudizio, Inferno e Paradiso.

La Morte è rappresentata nel medaglione in alto a sinistra. Un sacerdote, insieme ad altri religiosi, sta amministrando l’estrema unzione a un moribondo. Dietro al capezzale si intravvede la morte che col suo dardo sta per trafiggere il morente. Sopra di esso invece un diavolo nero e un angelo si contendono la sua anima.

Il Giudizio è rappresentato nel medaglione in alto a destra. La venuta di Cristo giudice viene annunciata da quattro angeli che suonano altrettante trombe. Al loro suono i morti escono dai sepolcri per risorgere.  Sia alla destra che alla sinistra di Cristo c’è uno stuolo di santi.

In basso a sinistra troviamo l’Inferno, dove vengono puniti coloro che hanno perseverato nei vizi.

In basso a sinistra vediamo il Paradiso. Una moltitudine di uomini e di donne vengono introdotti alla presenza dell’altissimo. Davanti alle porte del paradiso Pietro accoglie Adamo ed Eva, simbolo dell’umanità redenta, mentre in primo piano tre angeli suonano degli strumenti che allietano i corpi dei beati

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