Senza istruzione corriamo il rischio di prendere sul serio le persone istruite. G.K.C.

Interviste

ROMA – Il primo meeting dei giornali cattolici on line si terrà dal 12 al 14 giugno a Grottammare. Per la prima volta le più importanti realtà cattoliche presenti in rete si incontreranno per confrontarsi, scambiare esperienze e individuare strategie comuni.

L’incontro è aperto a tutte le realtà pagine, blog, siti, radio, tv, presenti in rete o diffuse in forma stampata o via etere. Per conoscere più nel dettaglio cosa accadrà durante il meeting, nelle prossime settimane intervisteremo giornalisti, direttori di testate ed altre persone che a vario titolo parteciperanno all’evento. Iniziamo con l’intervista ad Antonio Gaspari, direttore di Zenit, una delle principali realtà che collaborano per la realizzazione di questo importante evento.

Durante la presentazione del meeting, lei ha detto che questo evento è nato durante una passeggiata. Ci può spiegare meglio cosa intendeva?

Eravamo a San Benedetto del Tronto, insieme al capo redattore del giornale diocesano “L’Ancora”, Simone Incicco. Stavamo riflettendo sul perché Papa Francesco avesse così tanto successo dal punto di vista comunicativo. Discutevamo anche di come riuscire a fare comunicazione evitando la tentazione della cattive notizie, degli scandali, delle denuncie, degli attacchi e delle critiche. Ci siamo interrogati se e come era possibile fare un informazione basata sulle buone notizie. Come far crescere un giornalismo di inchiesta che raccontasse di grandi ideali, di storie eroiche, di larghi orizzonti…

Eravamo anche un po’ annoiati dei racconti di un cristianesimo, troppo intellettuale, con una impostazione moralistica e con poca carità. Abbiamo sentito il desiderio di raccontare dell’incontro delle persone con Cristo e dell’amicizia come dono di Dio. Ci siamo chiesti anche come fossero piccoli i nostri progetti di fronte ad una tecnologia telematica che sta assumendo dimensioni galattiche. Abbiamo sentito la necessità di sfidarci e di chiamare a raccolta tutti gli amici che lavorano nella comunicazione, per discutere come favorire e diffondere la cultura dell’incontro proposta da Papa Francesco. Così abbiamo pensato ad un meeting nazionale, invitando però anche ospiti internazionali.

Lei è stato l’ideatore del titolo della prima edizione del meeting “Pellegrini nel cyberspazio”. Cosa l’ha spinta a formulare proprio questo titolo?

Coscienti o no, ogni persona compie una cammino terreno con grandi aspirazioni nel cuore. È vero che ognuno cerca l’infinito. In questo cammino siamo tutti pellegrini che cercano amore, felicità, gioia, senso, amicizia, famiglia, conoscenza, fratellanza, condivisione, buon vivere. Il cyberspazio è la dimensione più vicina ad una forma di comunicazione che non si ferma al sistema solare, ma che ha le potenzialità per comunicare con l’intera galassia. In questo pellegrinaggio ci siamo tutti credenti e non. Mi è sembrata l’immagine più consona all’idea di meeting che avevamo pensato.

Lei fa parte della squadra di Zenit da quando è nata, prima come inviato e poi come direttore editoriale. Alla luce della sua esperienza, quali sono i limiti e le risorse della stampa cattolica?

Le risorse sono enormi, direi senza limite. ZENIT è nata 16 anni fa, con un investimento di appena trentamila dollari. Si trattava di un’unica edizione in spagnolo spedita via mail a circa 400 utenti. Oggi usciamo ogni giorno in sette lingue (italiano, inglese, spagnolo, tedesco, francese, portoghese e arabo).

Pubblichiamo una media giornaliera tra le 75 e le 100 notizie via mail. Sono più di 500mila i sottoscrittori. Spediamo circa 16 milioni di mail al mese. Abbiamo un pubblico che frequenta la nostra pagina WEB (www.zenit.org) e le nostre pagine su Facebook e Twitter. Il venerdì santo della scorsa settimana le visualizzazioni sulle nostre pagine Facebook hanno superato i tre milioni di utenti.

Non sono molto bravo nelle critiche. Se devo pensare ai limiti della stampa cattolica, posso dire che a volte sembra che manchi il coraggio e la convinzione delle grandi visioni. Pur essendo più ardimentosa della stampa che gioca sulla cronaca nera e sugli scandali, l’editoria cattolica dovrebbe osare di più.

La stampa cattolica è più facilmente diffusa fra gli adulti rispetto alle generazioni più giovani. Cosa si può fare secondo lei per raggiungere anche questa importante fascia d’età?

La prima cosa da fare è offrire ai giovani la possibilità di entrare in redazione per raccontare e scrivere delle aspirazioni della nuova generazione. Nella redazione di ZENIT ci sono giovani liceali e universitari ai primi anni che scrivono articoli, fanno interviste, recensiscono libri, film, mostre, concerti.

Non è giusto che persone adulte continuino a scrivere cosa dovrebbero fare i giovani. Va bene proteggerli e sostenerli nella crescita, ma bisogna incoraggiarli e cercare di alimentare in grande libertà la loro sete del vero del buono e del bello.

Nella redazione di ZENIT abbiamo chiesto ai giovani di scrivere e raccontare della loro generazione. Li abbiamo aiutati con amicizia, facendoli sentire parte della compagnia della buona notizia. La collaborazione con i colleghi più esperti li sta facendo crescere spingendoli a volare sempre più in alto.

La tecnologia telematica ci sta aiutando, perché analizzando il pubblico che frequenta le pagine di Facebook per esempio, abbiamo constatato che l’età di chi segue e interviene di più va dai sedici fino ai 32 anni.

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ROMA – A margine della presentazione del libro “Le chiese stazionali di Roma. Un itinerario quaresimale” scritto dall’ambasciatrice Hanna Suchocka abbiamo avvicinato Sua Eminenza il Card. Giovanni Battista Re che ha gentilmente risposto a qualche nostra domanda. L’alto prelato è nato a Borno nel 1934. Dal 2000 al 2010 è stato Prefetto della Congregazione per i Vescovi, l’organo della curia romana che si occupa in primo luogo dell’elezione dei nuovi vescovi.

Lei è stato uno dei più stretti collaboratori di Giovanni Paolo II. Con quali parole descriverebbe Karol Woytjla?

Giovanni Paolo II è stato grande sotto ogni aspetto: come uomo, come papa e come santo. Ed è stato grande anche come come amico: veramente voleva bene ai suoi collaboratori e quindi ha sempre avuto grande attenzione per noi. Certo è un Papa che è  rimasto nel cuore della gente. Era un mistico, un uomo di grande spiritualità e al medesimo tempo molto attento alle persone e alle situazioni tanto concrete. Questo suo modo di essere ha influito sulla storia. Tutto ciò che ha caratterizzato il suo pontificato è stato ispirato da motivazioni  profondamente religiose:  egli desiderava far riavvicinare gli uomini a Dio e ridare a Dio la cittadinanza in un mondo che non poche volte lo aveva dimenticato.

Poiché il decano e il vice decano del collegio cardinalizio avevano raggiunto gli 80 anni, lei ha svolto, a norma del diritto canonico, le funzioni del decano, essendo per anzianità il primo dei cardinali vescovi.  Quali sono i sentimenti di un cardinale di Santa Romana Chiesa che entra nella Sistina per eleggere il successore di Pietro? Ho partecipato al conclave del marzo 2013 con altri 115 cardinali.  Ho sentito molto la responsabilità di fronte a Dio di collaborare con lui per trovare il Papa che andava bene per il nostro tempo. È stato trovato un Papa che va proprio bene per questo tempo:  un Papa caratterizzato da grande umanità, ma anche da grande spiritualità, semplicità, sobrietà e direi un Papa che corrisponde alle attese di questo momento difficile della storia del mondo.

Quale aspetto di Papa Francesco la colpisce maggiormente? L’aspetto che si nota di più in lui – e che ha suscitato anche tanto simpatia – è il fatto di essere molto vicino alla gente. Questo Papa ha voluto abolire le distanze ed è molto vicino alla persone, cerca di avvicinarsi ad esse: basta vederlo nelle udienze generali, quando si fa prossimo ai fedeli in Piazza San Pietro abbracciandoli, baciandoli ed accarezzandoli.

La Chiesa si sta preparando a vivere in ottobre il sinodo per la famiglia. Se ne parla molto anche sui media, spesso con grande approssimazione. Come vede questo evento un uomo di Chiesa come lei? L a famiglia e la spiritualità familiare sono peculiari per il futuro del mondo. Per cui è encomiabile l’attenzione del Papa verso le famiglie. È bene che prima di tutto ci si prepari bene alla vita familiare e cioè è necessario aiutare i fidanzati a prepararsi al matrimonio, alla spiritualità del matrimonio e della famiglia, poiché è all’interno della famiglia che avviene la trasmissione della fede. È importante quindi che il Papa abbia messo al centro del prossimo sinodo il tema della famiglia, perché oggi essa è minacciata e ha bisogno di essere difesa secondo il piano di Dio.

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SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Paolo Annibali, scultore e docente di Storia dell’Arte presso il Liceo Scientifico (anche del sottoscritto!) di San Benedetto del Tronto, ha da poco terminato la sua ultima opera “La porta degli emigrati” che da qualche giorno fa bella mostra di sé presso il Santuario di San Gabriele a Colledara. Lo abbiamo contattato ed ha gentilmente risposto alle nostre domande.

Professore, da quanti anni svolge la sua attività di scultore e come è iniziata la sua attività?

Sin da bambino divoravo album da disegno, avevo sempre le mani sporche di plastilina, ma questa voracità si è spenta con gli anni delle elementari, la scuola di allora non teneva in nessuna considerazione queste doti. Il desiderio dell’arte è riapparso con la fine delle medie, quando incontrai degli insegnanti che davano grande importanza ai rapporti umani. Provo nei loro confronti una grande riconoscenza, non solo per le scelte artistiche future, ma, diventato insegnante, ho cercato in qualche modo di imitarli, usandoli come modelli.

Debbo a loro che intrapresi gli studi con il liceo artistico e poi l’accademia. Certo, non è così scontato tradurre un talento in mestiere, è molto facile perdersi, l’arte è il mondo dell’incertezza, dell’approssimazione. Ancora non dimentico l’espressione dei miei genitori, quando comunicai che volevo fare l’artista, anzi lo scultore, lessi nei loro occhi la disperazione di chi immagina, non senza cognizione, il proprio figlio proiettato verso una vita di stenti.

In effetti il mestiere dell’arte è un percorso in eterna salita, nella quale devi credere senza esitazioni in te stesso e in quello che fai. Quando sei giovane il mestiere è un continuo inizio, in quanto i riscontri, soprattutto economici, sono pesantemente modesti, e solo quella fede ti può salvare.

Tra i tanti inizi, quello che più ha segnato la mia strada, è quello del 1981, quando giovane promessa appena uscito dall’accademia, mi colse l’artrite reumatoide, che per un lungo periodo m’impedì qualsiasi attività. L’esperienza del dolore mi offrì la possibilità di esplorare il mio mondo interiore più intensamente. Quando i morsi della malattia si attenuarono, la mia sensibilità si era affinata, il bagaglio emotivo arricchito. Nel 1983 organizzai la mia prima mostra personale in cui la mia ricerca poetica si era avviata verso quelle tematiche che ancora fanno parte della mia opera.

A quale corrente artistica appartiene la sua produzione e qual è lo scultore che lei vede come un modello?

Non mi sento di appartenere a nessuna corrente artistica. Oggi l’arte vive un momento di grande complessità e fragilità. Il mio lavoro è orientato verso la figurazione, un mondo direi forse rassicurante e anacronistico, anche se oggi mi sembra più che mai attuale, in quanto molti giovani sembrano esprimere le stesse tensioni.

Non ho mai pensato ad uno scultore come modello, ma a tanti. A tutti quelli che hanno espresso una forte componente morale e civile: Giovanni Pisano, Donatello…. Ma anche pittori come David, Courbet, Mantegna….

Nell’arco della sua carriera si è parecchio dedicato a soggetti sacri. Può ricordare ai nostri lettori quali sono le opere di maggior rilievo che ha prodotto per la committenza ecclesiastica? Ci può dire poi quale opera considera il suo capolavoro?

Tra le opere più significative che ho realizzato, penso ci sia l’ultima, la “Porta degli emigrati” per il Santuario di San Gabriele, forse perché è l’opera della maturità, forse perché è ancora fresco il ricordo della fatica, ma anche l’ambone della cattedrale di Fiesole, la porta della cattedrale di Jesi.

Più che il mio capolavoro, il cui giudizio lascerei ad altri, parlerei dell’opera che amo di più: la “Madonna della Misericordia” per la parrocchia di San Pio X a San Benedetto del Tronto. E’ una scultura che racconta un momento particolarmente difficile della mia esistenza.

Quale rapporto c’è fra chi commissiona l’opera d’arte e lo scultore? L’artista ha una certa libertà?

Tra artista e committente si istaura una certa complicità, quando il committente ti sceglie per realizzare un’opera, ha in te una grande fiducia. Va un po’ sfatato il luogo comune per cui le opere su committenza siano delle costrizioni per la sensibilità dell’artista.

I temi definiti sono per l’artista, quello che è la rima per il poeta, per non parlare poi di tutta l’arte del passato in cui si operava solo esclusivamente su committenza. Direi anche che la libertà espressiva e la propria personalità si possono affermare anche nei temi più angusti delle opere su committenza. L’importante è la qualità dell’opera.

In che misura secondo lei l’arte contemporanea riesce a descrivere la sensibilità religiosa dell’uomo di oggi?

Il rapporto tra spiritualità e arte contemporanea è complesso e spesso conflittuale. Distinguerei tra un’arte sacra creata appositamente per la liturgia e un’arte che pur lontana nei temi evidenzia la ricerca di senso, l’annuncio, l’intuizione del divino. Nella complessità del contemporaneo molto spesso è più la seconda tipologia di opere che ci avvicinano al sentimento di Dio. E’ sempre la bellezza lo strumento attraverso la quale si può parlare di spiritualità.

Lei oltre ad essere scultore è docente. Come si pongono secondo lei i ragazzi di oggi di fronte al nostro patrimonio artistico e in definitiva rispetto alla bellezza?

Se il mestiere dell’arte è straordinario posso dire, dopo tanti anni di insegnamento, che quello di docente lo è altrettanto. Il mondo della scuola è ancora il mondo della speranza e direi anche della bellezza. Certo lo studio è fatica, chi di noi si alzava la mattina con la gioia nel cuore pensando di andare a scuola? Nonostante che i ragazzi intuiscano che parlando di Masaccio o di una colonna greca, gli racconti le cose più belle che ha creato l’uomo, un conto è assistere una lezione, dove l’insegnante cerca di trasmetterti la sua passione, un conto è poi studiarsela e di nuovo raccontarla.

Ma il tempo dell’adolescenza è un tempo particolare. Nell’età adulta si ripensano tante cose e ci si accorge che molti discorsi sono “passati”, così l’arte è entrata a far parte del patrimonio più profondo di ognuno. Credo che tu ne sia la testimonianz: ebbi un sussulto di gioia, quando, in visita a Santa Maria sopra Minerva a Roma, ti incontrai mentre spiegavi le numerose opere d’arte del luogo ad un gruppo di bambini.

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BOLOGNA – “La bellezza della festa. Iconografia e arte nel mistero cristiano”. È questo il titolo di un’interessante iniziativa promossa dalla Pinacoteca Nazionale di Bologna in collaborazione con l’Arcidiocesi di Bologna. Da gennaio a maggio, con cadenza mensile, si terranno degli incontri presso la sede della pinacoteca e ai visitatori sarà proposto un percorso di lettura di opere d’arte che rapresentano varie feste cristiane.

Franco Faranda, direttore della pinacoteca, ha dichiarato al quotidiano “La Repubblica”: “L’iniziativa è stata nostra di fronte all’evidenza di un numero sempre crescente di persone che non hanno più consuetudine coi riti della Chiesa ed hanno così perso le conoscenze di base per leggere un quadro religioso. Un danno vistoso, considerato che l’80 per cento della nostra raccolta è a tema sacro. Ci siamo resi conto che molti visitatori non sanno che cosa è la Pentecoste e che pure iconografie come l’Annunciazione non sono così immediate”.

Per conoscere meglio questa iniziativa, abbiamo intervistato Don Gianluca Busi, membro della Commissione Diocesana per l’Arte Sacra e ideatore con Franco Faranda della mostra.

Don Gianluca, quando e come è nata questa iniziativa?

L’iniziativa comincia in maniera singolare! Ho tenuto una conferenza nella biblioteca storica dei francescani della mia città, lo scorso anno, dal titolo: “Capolavori mariani alla Pinacoteca Nazionale di Bologna”. Mi proponevo di condurre una sorta di “visita virtuale” al Museo nell’ambito di un programma di spiritualità, attraverso l’arte a tema mariano, che è stata filmata e pubblicata su youtube sul mio canale “gianluca busi”. Con mia grandissima sorpresa ho ricevuto entro breve tempo una telefonata personale da parte del direttore della Pinacoteca, il dottor. Franco Faranda, che, molto contento del mio intervento, mi invitava ad una collaborazione.

In che modo è stato coinvolto nella preparazione di questo evento?

Dopo un primo incontro, abbiamo fissato i termini per un reciproco patrocinio, coinvolgendo la mia diocesi ed il ministero per i beni culturali. Si è trattato soprattutto di evidenziare le reciproche competenze. Per motivi storici risaputi, la critica artistica in occidente vive all’interno di una frattura non sanata. Infatti l’approccio accademico risente della critica vasariana, ripresa nel secolo scorso dal Longhi e presente nei manuali che tende a privilegiare la ricerca filologica delle opere d’arte. Al contrario l’approccio ecclesiale, riproposto di recente, soprattutto attraverso l’opera miliare di Mons. Timothy Verdon di Firenze, tenta di ricollocare l’opera d’arte nel cosiddetto “contesto nativo”. Cerca cioè di leggere un dipinto o una scultura, ripensandola nel luogo originario per cui fu eseguita.

Colto questo punto, abbiamo pensato ad interventi a due voci, in cui la soprintendenza si prende cura di descrivere l’aspetto filologico di un’opera, mentre per noi della Diocesi si tratta di ricollocare  le opere d’arte alla luce della storia del popolo di Dio e di come le percepiva nel contesto della Liturgia celebrata.

Lei ha guidato già il primo dei 5 appuntamenti che sono in programma. Quali sono le sue impressioni e come hanno risposto i visitatori?

In realtà io ho soltanto introdotto l’iniziativa per il primo appuntamento, mentre l’introduzione vera e propria è stata di un delegato del mio Cardinale Arcivescovo Carlo Caffarra. Io stesso però compaio fra i relatori e terrò due conferenze dedicate al tema dei “crocifissi” e della “Pasqua”, nel taglio peculiare che come diocesi abbiamo scelto, quello cioè della cosiddetta “spiritualità attraverso l’arte”.

La cosa che ci ha sopreso è stata il numero dei partecipanti! Non sono bastati i posti a sedere nella già ampia Aula Magna della Pinacoteca! La mia impressione è che l’inziativa sia soltanto agli inizi, e che riceverà nel tempo un notevole sviluppo, anche perché il contatto con i destinatari ci consente di elaborare una strategia sempre più efficace ed “a misura” del nostro uditorio. Faccio notare  che le conferenze vengono filmate in modo professionale da un operatore che ha lavorato per la RAI e che sappiamo raggiungere migliaia di utenti in rete.

Credo che il punto di forza sia la formula coinvolgente che vede all’inizio le due conferenze concertate come dicevo a “due voci”, che poi prosegue nella visita “in situ” alle opere cui era dedicato il tema della giornata, nella fattispecie per il primo incontro, il tema del “Battesimo di Gesù”.

Una cosa di cui soffre spesso il visitatore di un Museo infatti è quella specie di distacco, “gap” incolmabile, fra il fruitore e l’opera d’arte. Questo avviene perché la ricerca accademica tende ad un eccessivo rispetto del visitatore, cercando di non comunicargli mai un’ermeneutica dell’opera d’arte che sia realmente fruibile. Questo avviene a mio parere a causa di un eccesso di rispetto pensando erroneamente che il visitatore abbia già una conoscenza adeguata dell’opera e che non debba essere influenzato da nessuna interpretazione.

Al contrario l’approccio di questa iniziativa si pone proprio l’obiettivo di comunicare una interpretazione nel contesto, quindi molto precisa, in vista di una sorta di “ri-alfabetizzazzione” del visitatore che spesso non ha più nessuno strumento per ricongiungersi con un dipinto che non appartiene alla sua cultura di riferimento.

Quando è nata la sua vocazione artistica?

Dipingo da quando ho tre anni, la mia prima maestra di pittura è stata mia madre che nello studio di Sartoria casalingo mi correggeva i primi disegni. Tuttavia mi sento un iconografo. Ho cominciato a dipingere icone in età adulta verso i trent’anni, a causa di un soggiorno presso di una comunità religiosa fondata da don Dossetti, vicina alla spiritualità orientale e all’iconografia canonica. Da circa vent’anni divido il mio ministero sacerdotale fra l’attività di Parroco ed insegnante con la pittura di icone.

Possiamo dare ai nostri lettori tutti i riferimenti per potervi raggiungere?

Certamente: le conferenze come ho già avuto modo di dire sono disponibili sul canale youtube “gianluca busi” in una playlist dal nome “bolognafedearte”. Ma possono essere reperite, insieme ad immagini di repertorio, sulle pagine fb della “Pinacoteca Nazionale di Bologna” e alla pagina “bolognafedearte”. Pensiamo anche di aprire un forum ed un gruppo fb in futuro, nel desiderio di cercare un contatto con i nostri destinatari per affinare continuamente questo progetto.

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Abbiamo il piacere di intervistare il Dott. Filippo Cagnetti, ricercatore in matematica alla University of Sussex, a Brighton, in Inghilterra. Il Dott. Cagnetti è nato a San Benedetto del Tronto l’8 Marzo 1975. Dopo la maturità classica conseguita nel 1993 ha frequentato la il corso di laurea in Fisica presso l’università “la Sapienza” di Roma, dove si è laureato nel 2003.

Dott. Cagnetti, dopo quanti anni a distanza dalla laurea ha maturato l’idea di arricchire il suo percorso formativo all’estero e cosa l’ha spinta a lasciare l’Italia?

Subito dopo la laurea ho iniziato un dottorato di ricerca in matematica alla “SISSA” di Trieste. Si tratta di una scuola internazionale, in cui gli studenti vengono da ogni parte del mondo e le lezioni sono tenute in inglese. È stata un’esperienza altamente formativa, durante la quale i docenti mi hanno insegnato a guardare alla comunità scientifica come a una grande famiglia, senza barriere di alcun tipo.
Così, quando alla fine del 2007 ho conseguito il dottorato, ho visto la possibilità di andare all’estero non come una “fuga”, ma come una grande opportunità per incontrare i migliori matematici in circolazione.
Quindi mi sono trasferito alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh fino a Settembre 2009, dove ho insegnato e fatto ricerca. Da lì mi sono spostato all’Instituto Superior Técnico di Lisbona, fino a Marzo 2013, con una parentesi di sei mesi alla University of Texas di Austin. Da Aprile 2013 sono alla University of Sussex, in Inghilterra.

Quali sono i pregi della formazione universitaria negli Stati Uniti e quali differenze ha trovato col sistema italiano?

Le differenze sono davvero molte. Negli Stati Uniti l’università è gestita come un’azienda, con tutti i pro e i contro che questo comporta. Gi studenti, ad esempio, sono trattati come clienti e quindi la loro soddisfazione ha un grande peso nelle decisioni prese. Questo si riflette sull’organizzazione del corso di studi, che è spesso impeccabile: classi poco numerose, esercitazioni corrette e valutate dal professore con cadenza settimanale. Da questo punto di vista l’università americana somiglia più al nostro liceo. Ad esempio, non è possibile rimandare all’infinito un esame e rimanere indietro nel corso degli studi. A fine anno o si passa o si è bocciati.

Naturalmente questo sistema ha degli aspetti negativi. Le tasse, ad esempio, sono molto alte. Spesso gli studenti sono incoraggiati a fare dei mutui, che dovranno pagare negli anni successivi, dopo che avranno cominciato a lavorare. Ricordo alcuni amici americani che non potevano permettersi di lasciare un lavoro ben pagato che detestavano, semplicemente perché altrimenti non sarebbero mai riusciti a saldare i debiti accumulati negli anni di studi.

Cosa ha di positivo il nostro sistema?

Paradossalmente, l’idea americana e inglese di soddisfare il più possibile le richieste degli studenti può andare a discapito degli stessi ragazzi. In alcuni casi questo porta ad abbassare il livello dei corsi, per paura di eccessive proteste. Nel nostro paese questo non accade. A mio avviso il livello medio di preparazione di un laureato italiano è migliore di quello di moltissimi altri paesi.

Quali sono gli aspetti che da un punto di vista professionale l’hanno maggiormente colpita avendo l’opportunità di lavorare all’estero?

La prima sorpresa l’ho avuta quando mi trovavo a Austin, in Texas, e ho ricevuto una telefonata da un’università inglese a cui avevo inviato per posta elettronica il mio curriculum 3 settimane prima. Nonostante non conoscessi nessuno, mi avevano selezionato per fare un colloquio. Si scusavano dello scarso preavviso, ma spiegavano che, se avessi accettato di presentarmi, avrebbero pagato il volo di andata e ritorno Stati Uniti-Inghilterra, un albergo per i giorni di permamenza, e tutte le spese di vitto.
Non ho avuto il posto, ma poi sono stato ad altri colloqui in Inghilterra, tutti dello stesso tipo. La loro preoccupazione è scegliere il migliore tra i partecipanti ed assumerlo subito, prima che qualcun altro lo faccia.
Devo purtroppo ammettere che quello che mi è capitato in Italia è molto diverso. I concorsi italiani richiedevano la preparazione di molti documenti, che poi andavano stampati e spediti via posta all’università in questione. In un caso, è passato un anno tra la presentazione della domanda e la data del colloquio. Naturalmente tutte le spese erano a carico mio, e non erano poca cosa, visto che venivo dall’estero.
Detto questo, non cambierei mai il percorso di formazione che ho fatto in Italia con uno all’estero. Se non fosse per quello che ho imparato nel mio paese, non sarei mai riuscito a fare della mia passione un lavoro. L’Italia ha una tradizione e una cultura che non sono seconde a nessuno. Proprio per questo però fa male vedere dipartimenti inglesi e americani pieni di scienziati italiani di prim’ordine, mentre sono rarissimi i casi di professori stranieri che si spostano nelle nostre università.

Come si trova nella città di Brighton?

Pur essendo arrivato da pochi mesi, mi trovo molto bene. Brighton è una città particolare, piuttosto piccolo ma davvero vivace e ricca di opportunità. È sede di due università e ogni anno ospita diversi festival artistici che richiamano gente da tutto il Regno Unito. Inoltre, è una località balneare molto amata dai turisti inglesi. Si trova a meno di un’ora da Londra, quindi è molto ben collegata a tutto il resto d’Europa.
Qui ho scoperto che gli inglesi sono molto più socievoli di quanto pensassi. Nella prima settimana di permanenza sono stato a messa a St. Joseph, la prima chiesa cattolica che ho trovato. All’uscita, io e tutti i giovani presenti siamo stati invitati a pranzo nei locali della parrocchia. Adesso frequent regolarmente i ragazzi che ho incontrato quel giorno. Da loro sto imparando tanto, è molto bello sentirsi accolti quando si è in un paese straniero.

Pensa che un giorno tornerà in Italia?

Ci penso spesso. Certamente sento la mancanza della famiglia, degli amici più cari e del mio paese. Allo stesso tempo, qui sono felice perché posso coltivare la mia passione e mi vengono date opportunità che in Italia non sono così scontate. Spero in futuro di poter tornare, e magari di fare qualcosa di buono per un paese che mi ha dato così tanto.

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ROMA – Anche se con fatica, le scuole italiane si stanno lentamente dotando di mezzi tecnologici che preparino gli alunni ad affrontare un mondo sempre più digitalizzato. Per saperne qualcosa in più, abbiamo incontrato Luca Paolini, docente di Religione Cattolica della Diocesi di Livorno e anima del sito religione 2.0.

Da quanto tempo insegna e quando ha iniziato a usare la tecnologia nelle sue lezioni?

Insegno Religione Cattolica dal 1986; ho un ricco bagaglio di esperienze perché sono stato sia alla scuola primaria, sia al serale, sia nelle due secondarie di 1° e 2°. In generale ho sempre usato gli audiovisivi e il computer a scuola, magari coinvolgendo i ragazzi nel sito internet scolastico. E’ solo però dal 2007 che ho scoperto la didattica 2.0 ed ho cominciato timidamente a sperimentarla in contemporanea con il blog “Religione 2.0”. Allora di didattica interattiva se ne parlava poco o punto, le LIM erano solo in pochi istituti, quindi mi sono dovuto inventare i miei percorsi didattici, e ancora oggi cerco di sperimentarne di nuovi, è un lavoro che non finisce mai, perchè la tecnologia evolve e noi dobbiamo evolvere insieme a lei, senza appiattimenti ma anche senza rimanere troppo indietro.

Nel corso degli anni di insegnamento, cosa vede di differente fra gli alunni di oggi e quelli che ha incontrato all’inizio della sua carriera?

Io credo che gli alunni siano sempre alunni, in qualsiasi epoca. Bambini e ragazzi che hanno bisogno di una guida autorevole e non autoritaria o ancora peggio insignificante. Certo è che oggi i ragazzi arrivano a scuola con altre “attese”, che puntualmente vengono “disattese” perché la scuola spesso è vecchia, lontana dal loro mondo, non è più un luogo dove si va volentieri e dove si fanno scoperte, perché l’apprendimento avviene in gran parte per via informale. Specialmente nella fascia di età tra i 6 e i 13 anni, sono i veri nativi digitali, manipolano la tecnologia e vorrebbero spazi tecnologici anche a scuola dove invece si ritrovano per ore su libri, quaderni e voci noiose dell’insegnante; si badi bene lungi da me l’idea di stigmatizzare libri e quaderni, che sono sempre utili e importanti, ma credo che oggi serva anche altro.

Come si svolge concretamente una sua lezione?

Le mie lezioni sono tutte diverse e utilizzano anche media e device differenti; posso chiedere di lavorare a casa con il computer, a scuola con il cellulare o con il tablet, oppure fare una lezione interattiva alla LIM. Per fare un esempio: spesso inizio la lezione con un brainstorming fatto con le tag cloud alla LIM, poi vediamo alcuni spezzoni di video o immagini, oppure facciamo visite virtuali con Google Street View o Google Earth; dopo passo alla parte veramente attiva della lezione dove loro devono produrre un tweet, un video, fare foto in giro per la città con il loro cellulare. Tratto molto la storia biblica e la storia della Chiesa in questo modo, ma anche la parte più esistenziale si presta molto all’utilizzo di questi strumenti. Ad esempio nelle prime classi della scuola secondaria di 1° dove insegno, l’anno scorso hanno realizzato le parabole con fumetti animati, reinterpretandole a loro modo. E’ stato come in tanti altri casi un vero successo e quelle parabole non credo che le dimenticheranno tanto facilmente.

Spesso le classi hanno le Lim, ma poi i docenti non le usano, oppure c’è la Lim, ma magari manca l’adattatore. Secondo lei fra tecnologia, istituzione scolastica e corpo docente c’è affinità?

Io direi che spesso le Lim ci sono ma si usano come una normale lavagna di ardesia e questo è molto triste. Ad oggi il corpo docente è in gran parte formato da persone non più giovani, tante volte stanche di avere a che fare con le problematiche sempre più difficili della scuola, con una generazione che sembra indifferente alle loro lezioni, desiderosi solo di andare in pensione. Non si è capito che l’uso della tecnologia non è solo una risorsa per i ragazzi, ma è una risorsa anche per i docenti che possono tornare a guardare con simpatia ed entusiasmo il loro lavoro, i loro ragazzi; conosco insegnanti anche non più giovanissimi, che hanno avuto il coraggio di rimettersi in discussione ed oggi vanno a scuola felici di sperimentare una didattica nuova e hanno ricostruito un rapporto con i loro alunni.

Molti pensano che l’uso dei mezzi tecnologici sia più una fonte di distrazione che un’opportunità per acquisire il sapere. Cosa si sente di rispondere a questa obiezione?

Io credo che molti oggi parlino così perché fanno pura demagogia, perchè non sono mai entrati in una classe, oppure non hanno mai provato a proporre una didattica diversa. E’ chiaro che è più facile demonizzare che rimboccarsi le maniche e lavorare seriamente per acquisire nuove competenze digitali da trasferire poi in classe. Questo è vero per tutti gli insegnanti e anche per gli insegnanti di Religione Cattolica.

Si sente una mosca bianca oppure lavora in rete con altri docenti?

Molto si sta muovendo in questo campo. Per esempio, sono stato contattato da alcuni Uffici Scuola delle varie diocesi italiane che mi hanno chiesto di organizzare corsi sulla didattica 2.0. Su Facebook poi esiste un gruppo molto attivo di circa 1000 docenti irc che si chiama proprio Insegnanti di Religione Cattolica 2.0, è un luogo di confronto, di dialogo proprio su queste tematiche.

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ROMA – Alla fine della presentazione del libro “Cyberteologia” di Antonio Spadaro, abbiamo intervistato il Ministro per la Pubblica Amministrazione e la Semplificazione Giampiero D’Alia, che insieme ad altri onorevoli ha organizzato l’evento. Il Ministro, classe 1966, è nato a Messina. È stato nel passato membro di varie commissioni parlamentari e da quest’anno presiede il ministero di Corso Vittorio Emanuele II.

Abbiamo appena parlato di cyber teologia. Lei, da uomo politico, pensa che la Chiesa riuscirà a raccogliere la sfida che viene dal mondo di internet? Riuscirà la Chiesa a entrare nel cuore delle persone anche attraverso questo luogo?

Secondo me sì! La sfida c’è e la Chiesa l’ha saputa raccogliere. Credo che anche questa iniziativa di oggi testimoni come scienza, tecnologia e fede siano intimamente connesse.

Il clima politico in queste ultime settimane è particolarmente arroventato. I mezzi di informazione non fanno altro che mostrarci le aspre polemiche. Vorremmo provare a dare ai nostri lettori qualche notizia positiva: qual è la cosa più importante che il suo ministero sta portando avanti da quando lo presiede?

Stiamo lavorando a rendere più trasparente le pubbliche amministrazioni, anche attraverso l’accesso civico, uno strumento di partecipazione diretta dei cittadini alla vita delle istituzioni, di controllo sociale dell’efficienza delle attività, delle amministrazioni e questo credo che sia la sfida anche per il futuro del nostro Paese.

Noi italiani abbiamo bisogno di un Ministro per la Semplificazione. Che cosa è che culturalmente ci fa essere cosi contorti?

Noi abbiamo troppo pubbliche amministrazioni, troppi centri di costo, troppi conflitti di competenze e tutto questo va semplificato. In parte lo possiamo fare con la legge, in parte lo dobbiamo fare cambiando in profondità il nostro sistema istituzionale, evitando che comuni, province, regioni e stato facciano contemporaneamente cose fra di loro in conflitto, non consentendo ai cittadini e alle imprese di poter dialogare col settore pubblico in termini di efficienze, così come richiesto anche dal momento che viviamo

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ROMA – A margine della conferenza tenutasi a Montecitorio lunedì 7 ottobre per la presentazione del suo libro “Cyberteologia”, abbiamo intervistato Padre Antonio Spadaro, Direttore de “La Civiltà Cattolica”, il più antico periodico italiano.

Padre Antonio, grazie innanzitutto per la sua disponibilità. Lei nel suo libro parla di “spiritualità della tecnica”. Questa spiritualita insita nell’ambito della tecnica, secondo lei, è stata compresa dal mondo laico? È una potenzialita che il mondo laico comprende?

Penso che la sfida non sia solo per il mondo laico o solo per il mondo cristiano, ma sia per il mondo in generale, cioè per gli uomini di oggi. Il punto è capire cosa sia la tecnologia. Essa può essere intesa come qualcosa di disumanizzante, come è avvenuto spesso nel ’900, oppure può essere intesa come l’espressione della libertà dell’uomo, dei suoi desideri più profondi, della sua capicità di azione e quindi anche delle sue facoltà più elevate, come anche il suo desiderio di Dio. Se leggiamo bene all’interno della tecnologia e del bisogno dell’uomo di esprimersi tecnologicamente, riconosciamo dei valori che fondano anche la spiritualità umana. In realtà la grande sfida di oggi è considerare come il campo di riflessione della tecnologia è esattamente quello delle grandi domande dell’umo e certamente quindi anche il campo della spiritualità umana.

Nel campo ecclesiale come è stato accolto il concetto di cyberteologia? Ci sono state riserve oppure aperture?

L’uno e l’altro nel senso che, ovviamente, è un concetto in movimento e non un dogma, nato da una semplice domanda: oggi la rete ha un impatto sul modo di pensare e la teologia è pensare la fede, “intellectus fidei” è la tradizionale definizione di teologia, quindi la domanda verte sul “se” e sul “come” l’ambiente digitale avrà un impatto sul modo di pensare la fede. All’interno del mondo ecclesiale ho trovato estremo interesse per questo argomento e ho visto come il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali e anche l’Ufficio Comunicazioni della Cei si sono mosse con grande interesse in questo campo.

Ricordiamo anche che la cyberteologia è diventata una materia all’Universita Gregoriana… Con un pizzico di orgoglio, ci consenta di dire che la nostra testata è stata la prima a lanciare la notizia della creazione di questa nuova cattedra!

Quest’anno mi è stato chiesto di insegnare questa materia e cercherò di farlo nei limiti di tempo e di disponibilità che ho. Mi ha colpito l’interesse che ha destato, non solo in Italia, ma anche altrove nel mondo, l’inserimento di questa materia nel curricolo teologico. Questo mi conferma sul fatto che è giunto il tempo in cui questa riflessione venga elaborata meglio.

Lei alla fine di agosto ha interviatato Papa Francesco. Sappiamo che le parole del Pontefice hanno fatto il giro del mondo, destando molta attenzione, sia nella nella comunità ecclesiale che nel mondo laico. Quale parole del Papa l’hanno maggiormente colpita e quali sono stati i suoi sentimenti davanti al Papa, che, fra l’altro, è anche un suo confratello?

Certamente l’interivsta è stata una grande sorpresa, anzi per me, mentalmente e spiritualmente, non si è trattato solo di un’intervista ma di una vera e propria esperienza spirituale, di grande impatto umano e di grande valore spirituale. Avendola vissuta con questa grande intensità, faccio fatica a trovare un passaggio più importante dell’altro, poiché sono davvero molti i punti importanti toccati dal Papa.

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ROMA – In una delle sue apparizioni a suor Lucia dos Santos, la Madonna ha chiesto di intraprendere un cammino di fede e di conversione dedicando i primi cinque sabati di cinque mesi consecutivi alla meditazione dei misteri della vita di Gesù e di Maria, alla celebrazione dei sacramenti dell’Eucaristia e della Penitenza e alla preghiera del rosario. Il tutto compendiato in un atto di consacrazione al suo Cuore. Questo camino è favorito nella città di Roma dalla “Confraternita di San Jacopo di Compostella” che organizza ogni primo sabato del mese un pellegrinaggio per le vie della città intitolato “La corona di Maria”. Per conoscere questa realtà abbiamo intervistato don Paolo Asolan che, oltre ad essere membro della Confraternita, è docente incaricato di Teologia Pastorale presso la Pontificia Università Lateranense.

1) La pratica del pellegrinaggio è molto antica. Ha ancora senso per i fedeli del XXI secolo?

Basterebbe pensare alle cifre di quanti si recano in pellegrinaggio ai vari santuari sparsi nel mondo o a quelli, che più ci sono vicini quanto a sensibilità, che percorrono le vie di pellegrinaggio a piedi, per arrivare qui a Roma o alla tomba di san Giacomo a Compostella, ad Assisi, o perfino a Gerusalemme. Il pellegrinaggio, specie quello a piedi, intercetta un bisogno diffuso: quello di mettersi a cercare con tutto se stessi – anima e corpo, non solo con la testa – il senso stesso del vivere e dell’andare, che spesso non è offerto neppure dalla Chiesa, vissuta ad intra e ad extra più come un sottosistema etico autoreferenziale che come un’offerta di vita nuova e buona, possibile per la risurrezione di Gesù e l’opera dello Spirito Santo. Papa Benedetto, inaugurando l’anno della fede, citò questi cammini di pellegrinaggio ponendoli in connessione proprio con il mistero della fede, affermando: «Oggi più che mai evangelizzare vuol dire testimoniare una vita nuova, trasformata da Dio, e così indicare la strada. La prima Lettura ci ha parlato della sapienza del viaggiatore (cfr. Sir 34,9-13): il viaggio è metafora della vita, e il sapiente viaggiatore è colui che ha appreso l’arte di vivere e la può condividere con i fratelli – come avviene ai pellegrini lungo il Cammino di Santiago, o sulle altre Vie che non a caso sono tornate in auge in questi anni. Come mai tante persone oggi sentono il bisogno di fare questi cammini? Non è forse perché qui trovano, o almeno intuiscono il senso del nostro essere al mondo? Ecco allora come possiamo raffigurare questo Anno della fede: unpellegrinaggio nei deserti del mondo contemporaneo, in cui portare con sé solo ciò che è essenziale» (Omelia per la Santa Messa di apertura dell’Anno della Fede). Credo che questa importante affermazione del Papa risponda bene alla domanda.

2) Quali sono le attività principali della Confraternita della quale fa parte?

I fini principali sono la crescita dell’amicizia e del legame con l’apostolo Giacomo, nati durante il pellegrinaggio alla sua tomba e continuati a casa nella promozione del culto a lui dedicato e nella fraternità con gli altri pellegrini; quindi la cura del proprio cammino di fede nella Chiesa, all’interno delle rispettive comunità cristiane; l’esercizio della carità nella forma dell’accoglienza concreta dei pellegrini (gratuita, semplice e offerta riconoscendo nel pellegrino Gesù stesso che chiede ospitalità) e più in generale nella promozione del pellegrinaggio, sia dal punto di vista culturale (contribuendo a sviluppare una vera e propria cultura del pellegrinaggio) che tecnica (percorrendo le vie, scrivendo guide, aprendo spedali per l’accoglienza lungo le stesse vie).

Si tratta, cioè, di rendere possibile ad altri di ricevere la stessa grazia che abbiamo ricevuto noi pellegrinando, e che ha trasformato la nostra esistenza, dandole una forma molto particolare. È un dono che intendiamo mettere a servizio della fede e della vita della Chiesa: gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date.

3) Quando e come è nata l’idea di un pellegrinaggio urbano?

In realtà noi percorriamo diversi pellegrinaggi urbani, ma per quel che riguarda la Corona di Maria, essa è nata dal fatto che in pellegrinaggio si prega con il rosario, ideale sia perché scandisce bene i passi, sia perché è la preghiera dei poveri e dei mendicanti: non necessita di libri o di luoghi particolari per essere fatta. Tornati a casa, spontaneamente, qualcuno di noi si recava presso qualche chiesa pregando così, rivivendo ritmi e stile conosciuti sul Cammino. A questo si sono aggiunti l’accresciuta consapevolezza – sbocciata quando, percorrendo la Francigena, siamo arrivati a Roma da pellegrini, e non solo da abitanti della città – di vivere realmente in una città santa, una città santuario, incredibilmente ricca di memorie legate alla fede e alla presenza di testimoni della fede; e la costatazione che Roma è una città mariana, dove la presenza della Madonna è evidente e discreta allo stesso tempo, bisognosa di essere cercata.

A questo si è aggiunto il desiderio di rispondere alle richieste fatte dalla Vergine a Fatima, riguardanti il suo Cuore Immacolato. Il tema del cuore in questo senso è cruciale: non si tratta soltanto di mettersi in movimento fisico, di fare una bella passeggiata, ma di entrare in profondità dentro il cuore. Nel nostro, come in quello di Maria, abita lo Spirito santo che grida “Abbà, Padre!”: è Lui, vivente in noi, che rende possibile quello che altrimenti resterebbe umanamente impossibile. Questa azione dello Spirito la riconosciamo anche per la gioia, la leggerezza e la libertà che il pellegrinaggio regala a chi lo compie.

 

4) Come si svolge il pellegrinaggio urbano?

Parlo sempre della Corona. Ci sono due itinerari: uno “classico” e uno sperimentato quest’anno, molto più breve. Il classico consiste in un anello di cinquanta chiese del centro dedicate alla Madonna, davanti alle quali si recita un’Ave Maria. In cinque di esse (diverse di volta in volta) entriamo e, fatta una sommaria (ma non superficiale), visita artistica della chiesa, meditiamo su uno dei misteri del giorno. Alla terrazza del Pincio e al Giardino degli aranci ci sono anche delle meditazioni sul senso del rosario e sul senso della consacrazione. Questo pellegrinaggio dura dal mattino a pomeriggio inoltrato, e si conclude con la Santa Messa.

Quello più breve inanella cinque chiese soltanto, dedicando un po’ più di tempo alle meditazioni o alla preghiera silenziosa, e si conclude sempre con la Messa.

A Giugno, luglio e agosto, invece, considerato il caldo diurno, la Corona si svolge a partire dal tardo pomeriggio, in genere iniziando con la Messa alla Madonna dell’Archetto (laprima immagine di Maria che nel 1796 “mosse gli occhi”) e toccando alcune delle madonnelle interessate dallo stesso prodigio. In questi mesi le meditazioni sono su brani del vangelo dove si parla dello sguardo di Gesù.

Siamo pellegrini compostellani, per cui la modalità di compimento del percorso a piedi è la stessa che abbiamo imparato sul Cammino di Santiago: non, quindi, un procedere necessariamente compatti in gruppo, così che sia rispettata la libertà di passo, di silenzio, di preghiera di ognuno. Insieme preghiamo il Rosario, ripetutamente, attraversando i suoi misteri, come un pianto, come un grido – come una gioia che non è nostra e che ci visita improvvisa.

Pochi o tanti che siamo – liberi grazie a Dio dall’ossessione per il numero esibito, mondana e anche un po’ triviale unità di misura del successo di ciò che si fa – rinnoviamo la grazia di vivere in una città santa e sperimentiamo qualcosa della bellezza della fede.

5) Quanto le bellezze artistiche della città di Roma possono aiutare i fedeli ad avvicinarsi a Maria e a Gesù?

Senza essere blasfemo, bisognerebbe dire che anche della bellezza di Roma nunquam satis. Vedere senza fretta e senza l’affanno del traffico i mirabilia dell’Urbe ci rende per forza meno bestie: ciò che si intuisce attraverso la bellezza dell’arte trasfigura la materia e la corporeità, apre all’invisibile. Il percorso classico mette insieme i luoghi più belli del centro, per cui anche dal punto di vista turistico si tratta di un giro impagabile. Ma non è il compiacimento del turista che ci interessa, quanto il cammino del pellegrino. Vorremmo descrivere non soltanto le forme interessanti dei quadri o delle chiese, quel che si vede a occhio nudo e che può essere spiegato tecnicamente o storicamente, ma il contenuto che viene rappresentato e celebrato dall’arte e dal genio degli artisti. Come cioè il Mistero può essere reso percepibile dai sensi, i quali lo riconoscono come il necessario che cercano e di cui hanno fame e sete. Questo avviene spesso anche raccontando le vite dei santi presenti nelle chiese: irradiano una bellezza la quale suscita come una nostalgia che brucia dentro, un presentimento di verità che affascina e cattura. Lo abbiamo costato soprattutto in questo Anno della fede, quando – terminata la Corona con la Messa – nel pomeriggio chi voleva continuava a pellegrinare alle basiliche dei santi intercessori del Canone Romano (Cecilia, Agnese, Clemente, Marcellino e Pietro, Giovanni e Paolo, …).

È una bellezza non meno persuasiva, che incanta allo stesso modo.

6) Ha avuto modo di raccogliere in questo tempo qualche testimonianza particolarmente toccante da parte di alcuni pellegrini?

Quando possiamo, al termine dell’omelia della Messa, lasciamo qualche minuto per le risonanze della giornata: invitiamo i pellegrini a condividere il passo del vangelo o l’intuizione che li hanno colpiti durante il cammino. È sempre sorprendente ascoltare queste brevi riflessioni e verificare come, al di là dei contenuti che possiamo aver preparato noi, il Signore effettivamente parli e cammini con noi. O, quantomeno, come l’uscire dai ritmi soliti, ordinari, e il rimettersi a camminare, crei delle condizioni di ascolto e di attenzioni affatto diverse da quanto accade mentre viviamo la solita vita. E di come siamo più docili ad accogliere e a far spazio. Direi che tra le cose che colpiscono di più sono le intenzioni di preghiera che vengono condivise, le quali spesso riguardano situazioni difficilissime, che la preghiera del pellegrinaggio aiuta a vedere sotto un’altra luce. Non come condanne e pesi gravosi soltanto, ma come occasioni di conversione nel profondo. Illuminate sempre dalla vita della Madonna nonché, come dicevo, dalla gioia e dalla libertà dello Spirito: la libertà di chi si sente amato, accompagnato e seguito con amore. In questo io vedo all’opera molto del ministero di intercessione della Madonna.

7) Una pratica antica che si avvale anche di linguaggi moderni. È vero che è possibile avvicinare questa realtà anche attraverso internet e facebook?

In realtà no, il pellegrinaggio per sua natura non ha e non può avere surrogati nei social network. Abbiamo però dei siti di servizio, grazie ai quali comunichiamo l’itinerario mensile, le informazioni necessarie da sapere e, in genere, tutto quel che riguarda il mondo del pellegrinaggio a piedi in Roma.

Il sito della Confraternita è www.pellegriniaroma.it, da lì si può risalire alla pagina Facebook e anche al contatto di Twitter.

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ROMA – Al termine della presentazione del libro “Symbolum. Percorsi e approfondimenti sul Catechismo della Chiesa Cattolica” edito dalla Libreria Editrice Vaticana, abbiamo incontrato l’autrice, la Professoressa Maria Rosa Poggio, alla quale abbiamo rivolto qualche domanda.

Come è nata l’idea di questo libro? È stata un’iniziativa personale o è nata all’interno di una esperienza ecclesiale oppure è stata la chiesa a richiederle la compilazione di questo testo?

Mi è stata richiesta, vista la mia esperienza nel campo dell’insegnamento e  vista l’esigenza di rendere  fruibile il Catechismo della Chiesa Cattolica. È stato chiesto uno strumento che potesse essere ponte tra quell’immenso patrimonio che è il catechismo, ma che alle volte risulta essere un pochino complesso, anche nella consultazione, e i fedeli.  Mi è stato chiesto di poter rendere i contenti del Catechismo più fruibili attraverso dei percorsi di lettura, ma anche attraverso la spiegazione di alcune domande e alcune parole specifiche, che magari provengono dalla teologia e quindi possono risultare di più difficile comprensione.  Ho cercato di facilitare il tutto anche con delle domande che io ho chiamato “le domande più frequenti” che  sono quelle che il catechista  si sente sempre rivolgere. Inoltre è stato mio intento di rendere accessibile il Catechismo da un punto di vista pratico per gli insegnanti , per i catechisti, man anche per  le singola persone che si vogliono avvicinarsi al Catechismo. Questo mio lavoro comunque non vuole essere una sostituzione, ma, come ho già detto, un percorso di lettura di quel Catechismo ,quindi credo che chi leggerà il mio libro sentirà poi il bisogno di andare alla fonte.

A quale tipo di persone si rivolge in particolare il testo da lei scritto ?

Il testo è stato studiato per gli adulti, ma ho cercato sempre di tenere un linguaggio tale da poter intercettare un ampio pubblico, un linguaggio che potesse essere comprensibile anche da ragazzi di 14-15 anni.

Sfogliando il libro si nota una predilezione per l arte antica. Secondo lei, le espressioni artistiche del passato sono più idonee per la nuova evangelizzazione rispetto a quelle più moderne?

No. Penso che tutta l’arte sia ugualmente utilizzabile. Naturalmente credo anche che l’arte moderna alle volte sia molto difficile da leggere, perché necessita di una preparazione molto particolare e bisogna essere ben certi del significato che l’autore ha voluto attribuire alla sua opera.  Mentre è più semplice avere una preparazione nell’arte antica, o perché l’abbiamo vista già, o perché spesso  la persona ha già un occhio esercitato, per cui alcuni documenti  artistici del passato sono più facilmente accessibili per la definizione dell’immagine e per la loro semplicità rispetto all’arte moderna.  Non dobbiamo dimenticare che l’arte antica è un immenso patrimonio  e che abbiamo avuto l’intera bibbia raccontata dalle cattedrali. Certamente, l’arte moderna è importante, ma c’è tutto un bagaglio di espressioni artistiche precedenti  che non può essere buttato alle ortiche!

La via della bellezza è stata un tema caro a Papa Benedetto. Pensa che anche Papa Francesco batterà questa via o troverà altri modi per la nuova evangelizzazione?

Dipende dal significato che noi diamo alla parola bellezza.  Se intendiamo esclusivamente l’arte nella sua espressione umana come la musica, la pittura,  la scultura ecc. allora forse Papa Francesco cercherà un’altra strada. Ma questo non significa che abbandonerà la bellezza,  perché possiamo trovare la bellezza anche nel creato o in chi ha bisogno, una bellezza che il mondo non valorizza, ma che la fede ci invita a scorgere.

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