Senza istruzione corriamo il rischio di prendere sul serio le persone istruite. G.K.C.

Recensioni

empo di Misericordia del giornalista inglese Austen Ivereigh è sicuramente una delle più complete biografie su Papa Francesco. L’autore, in nove capitoli, ognuno di una cinquantina di pagine, ripercorre la vita del primo pontefice latino-americano, dalle origini fino all’elezione a successore di Pietro.

Il volume, di taglio prevalentemente storico, ha il pregio di narrare la vita di Bergoglio tenendo sempre presente i contesti nei quali si sono svolte le vicende dell’attuale pontefice. La vita di Bergoglio è così indissolubilmente associata alla famiglia d’origine, alla città di Buenos Aires, alla situazione politica dell’Argentina, alle vicende della Compagnia di Gesù e allo sviluppo della Chiesa in America Latina.

La figura di Papa Francesco ha portato moltissime persone in ogni parte del globo ad avere una rinnovata attenzione verso la Chiesa, eppure la sua persona è stata spesso oggetto delle più svariate critiche, anche prima del sua salita al Soglio di Pietro. Si è parlato di lui come di un comunista, di un progressista, ma allo stesso tempo si è anche detto di lui che era un conservatore!

L’analisi attenta dell’autore consente di fare chiarezza sul personaggio Bergoglio e di liberarlo dalle gabbie ideologiche nelle quali spesso lo si è voluto imprigionare. Ad esempio, coloro che conoscono poco la storia della Chiesa in America Latina, quando hanno sentito Papa Francesco parlare di una “Chiesa povera per i poveri”, hanno associato questo discorso alla Teologia della Liberazione, la visione teologica, nata in America Latina, che rilegge l’avvenimento cristiano alla luce dell’ideologia marxista.

Austen Ivereigh spiega invece molto bene come Bergoglio sia invece in sintonia con la Teologia del Popolo, una variante Argentina della Teologia della Liberazione che mette al centro della propria riflessione la sensibilità religiosa e la cultura delle popolazioni latino-americane e che, a ben vedere, ha poco a che fare con la Teologia della Liberazione.

Un’altra caratteristica della Teologia del Popolo è quella di mettere al centro la gente comune come soggetto attivo nella costruzione della società, mentre nella visione marxista il popolo è piuttosto la massa da educare e lo strumento attraverso il quale giungere al potere.

Benché sia nella Teologia della Popolo che in quella della Liberazione si parli di “popolo”, è evidente che gli approcci siano completamente diversi. Questa diversità di vedute spaccava anche la Compagnia di Gesù: da una parte c’erano quelli che come Bergoglio volevano un contatto vivo con i poveri e gli ultimi (con lo slogan “i sandali senza i libri) dall’altra c’erano coloro che volevano teorizzare modelli utili per migliorare le condizioni dei poveri (con lo slogan “i libri senza i sandali).

La visione di Bergoglio si ispirava al carisma di Ignazio di Loyola e all’azione dei missionari gesuiti che nelle reducciones avevano portato il vangelo alle popolazioni locali avendo con esse un assiduo contatto. Per questa sua fedeltà alle origini della Compagnia di Gesù Bergoglio fu considerato un conservatore.

Il volume è ricco infine di testimonianze dirette di molte persone che hanno conosciuto da vicino Bergoglio, di rimandi a quelle che sono le sue fonti spirituali e le sue letture e tutto ciò fa sì che sia davvero un libro da leggere se si vuole conoscere a fondo l’attuale pontefice

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Capita spesso che agli alunni delle superiori lo studio della Divina Commedia risulti pesante, noioso e faticoso. Doversi confrontare con un testo scritto parecchi secoli fa e di notevole mole non è certo facile. Se in più si aggiunge che l’analisi del testo è soprattutto incentrata su questioni stilistiche e figure retoriche, allora la noia è garantita.

Franco Nembrini, rettore del Centro scolastico La Traccia di Calcinate (BG), ha tentato un’altra strada. Nel suo Dante, poeta del desiderio (edito da Itaca in tre volumi: Inferno, Purgatorio e Paradiso) l’autore mostra come sia proprio il tema del desiderio a farci riscoprire e innamorare dell’opera del Sommo Poeta.

Non solo la Divina Commedia, ma tutta l’opera dantesca e la stessa vita dell’Alighieri viene riletta alla luce del desiderio, che può essere definito come la pasta di cui è fatto l’uomo. Infatti, come descritto da Dante nel Convivio, l’uomo è sempre mosso dal desiderio, sin da quando è bambino.

All’inizio il suo interesse si rivolge verso cose piccole e di poco significato e poi, una volta cresciuto, egli brama sempre di più. Eppure, nessuna delle cose che cerca è in grado di soddisfare il suo desiderio ed è proprio per questo che continua a cercare la felicità altrove: sempre in cerca e sempre insoddisfatto perché il suo cuore è destinato all’Infinito.

Questa esperienza che ogni uomo prova è la stessa nella quale si è imbattuto Dante. A un certo punto della sua vita egli sentiva di avere raggiunto la felicità nel suo amore per Beatrice. Come ha scritto nel sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, Beatrice è “venuta da cielo in terra a miracol mostrare”, cioè è come un riverbero sulla terra dello splendore divino.

Beatrice però all’età di 24 anni si spegne: per il Poeta è un colpo durissimo. Dante inizia a cercare consolazione nella letteratura. Come è possibile che quella donna, quasi un ponte fra l’umano e l’infinito, abbia cessato di vivere? Perché dopo la sua morte, Dante si è rifugiato in altro, pur avendo provato per lei il massimo dell’amore possibile?

Sono domande che si pongono in maniera forte in Dante, che il poeta affronta alla luce della propria fede e che lo portano a scrivere la Divina Commedia, un vero e proprio percorso di purificazione attraverso l’esercizio letterario che lo porterà a “vedere Dio”, l’unico in grado di saziare in modo definitivo la fame di infinito che abita nel cuore dell’uomo.

Nembrini rilegge in chiave umana l’opera di Dante e questo permette a chi legge i suoi volumi di immedesimarsi nel poeta e di sentirlo vicino, quasi come un compagno di strada. Le forme letterarie della Divina Commedia diventano allora mezzi espressivi che servono al poeta per esprimere i suoi sentimenti: al centro di tutto c’è l’uomo, la sua esistenza, il suo porsi delle domande davanti al proprio destino e una tale lettura non può che essere affascinante.

Non mancano nei volumi di Nembrini raffronti con altri grandi della letteratura, in particolare Leopardi che nella sua produzione artistica canta le stesse esigenze del cuore di Dante, pur non arrivando alle stesse conclusioni.

La Divina Commedia, scritta da un uomo di fede, è commentata da un altro uomo di fede che svolge quella che possiamo definire una “lettura credente”. Questa operazione è quantomai necessaria ai nostri giorni se vogliamo restituire splendore a gran parte della letteratura che è stata elaborata in un contesto di fede e che non può essere letta nella sua pienezza se non attraverso uno sguardo cristiano.

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Capita spesso che agli alunni delle superiori lo studio della Divina Commedia risulti pesante, noioso e faticoso. Doversi confrontare con un testo scritto parecchi secoli fa e di notevole mole non è certo facile. Se in più si aggiunge che l’analisi del testo è soprattutto incentrata su questioni stilistiche e figure retoriche, allora la noia è garantita.

Franco Nembrini, rettore del Centro scolastico La Traccia di Calcinate (BG), ha tentato un’altra strada. Nel suo Dante, poeta del desiderio (edito da Itaca in tre volumi: Inferno, Purgatorio e Paradiso) l’autore mostra come sia proprio il tema del desiderio a farci riscoprire e innamorare dell’opera del Sommo Poeta.

Non solo la Divina Commedia, ma tutta l’opera dantesca e la stessa vita dell’Alighieri viene riletta alla luce del desiderio, che può essere definito come la pasta di cui è fatto l’uomo. Infatti, come descritto da Dante nel Convivio, l’uomo è sempre mosso dal desiderio, sin da quando è bambino.

All’inizio il suo interesse si rivolge verso cose piccole e di poco significato e poi, una volta cresciuto, egli brama sempre di più. Eppure, nessuna delle cose che cerca è in grado di soddisfare il suo desiderio ed è proprio per questo che continua a cercare la felicità altrove: sempre in cerca e sempre insoddisfatto perché il suo cuore è destinato all’Infinito.

Questa esperienza che ogni uomo prova è la stessa nella quale si è imbattuto Dante. A un certo punto della sua vita egli sentiva di avere raggiunto la felicità nel suo amore per Beatrice. Come ha scritto nel sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, Beatrice è “venuta da cielo in terra a miracol mostrare”, cioè è come un riverbero sulla terra dello splendore divino.

Beatrice però all’età di 24 anni si spegne: per il Poeta è un colpo durissimo. Dante inizia a cercare consolazione nella letteratura. Come è possibile che quella donna, quasi un ponte fra l’umano e l’infinito, abbia cessato di vivere? Perché dopo la sua morte, Dante si è rifugiato in altro, pur avendo provato per lei il massimo dell’amore possibile?

Sono domande che si pongono in maniera forte in Dante, che il poeta affronta alla luce della propria fede e che lo portano a scrivere la Divina Commedia, un vero e proprio percorso di purificazione attraverso l’esercizio letterario che lo porterà a “vedere Dio”, l’unico in grado di saziare in modo definitivo la fame di infinito che abita nel cuore dell’uomo.

Nembrini rilegge in chiave umana l’opera di Dante e questo permette a chi legge i suoi volumi di immedesimarsi nel poeta e di sentirlo vicino, quasi come un compagno di strada. Le forme letterarie della Divina Commedia diventano allora mezzi espressivi che servono al poeta per esprimere i suoi sentimenti: al centro di tutto c’è l’uomo, la sua esistenza, il suo porsi delle domande davanti al proprio destino e una tale lettura non può che essere affascinante.

Non mancano nei volumi di Nembrini raffronti con altri grandi della letteratura, in particolare Leopardi che nella sua produzione artistica canta le stesse esigenze del cuore di Dante, pur non arrivando alle stesse conclusioni.

La Divina Commedia, scritta da un uomo di fede, è commentata da un altro uomo di fede che svolge quella che possiamo definire una “lettura credente”. Questa operazione è quantomai necessaria ai nostri giorni se vogliamo restituire splendore a gran parte della letteratura che è stata elaborata in un contesto di fede e che non può essere letta nella sua pienezza se non attraverso uno sguardo cristiano.

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Queste e tante altre curiosità si trovano nel bel libro Mangiare da Dio scritto a quattro mani da don Andrea Ciucci e da don Paolo Sartor. I due preti buongustai giungono così al terzo volume dedicato al rapporto religione-cibo dopo A tavola con Abramo (2012) e In cucina con i Santi (2013).

Mangiare da Dio, come suggerisce il sottotitolo 50 ricette da San Paolo a Papa Francesco, racconta la Storia della Chiesa sotto la prospettiva culinaria. Gli autori, seguendo la tradizionale suddivisione della Storia della Chiesa (antica, medioevale, moderna e contemporanea), hanno diviso il libro in quattro parti, proponendo ricette ad hoc.

Se per qualche animo puritano l’accostamento della religione al cibo può sembrare azzardato, è necessario ricordare, come qualcuno ha già detto, che Gesù le cose più belle le ha fatte a tavola! Ed è davvero così: basta pensare al miracolo dell’acqua trasformata in vino a Cana, ai pasti consumati assieme ai peccatori, per arrivare al dono di sé attraverso i segni del pane e del vino durante l’Ultima Cena.

È impossibile non soffermarsi sulla modalità che Gesù ha scelto di comunicarsi a noi attraverso la via del cibo e questo può destare meraviglia, stupore e addirittura scandalo, come ci racconta Giovanni nel suo vangelo (cfr. Gv 6). Egli ha anche parlato di se stesso come “il pane vivo sceso dal cielo”. Perché Gesù, fra tante vie, ha scelto proprio questa?

Innanzitutto il cibo, come è ovvio, ci nutre e ci fa vivere, quindi, è come se egli ci volesse dire: “Voi avete bisogno di me come il cibo che mangiare, sono indispensabile per la vostra vita”. In secondo luogo il cibo crea livelli di prossimità: pensiamo a tutte quelle volte in cui andiamo a mangiare una pizza con gli amici, oppure quando, per corteggiare una donna la invitiamo a cena: il cibo crea unione e familiarità fra coloro che si siedono a tavola. Per questo, quando partecipiamo all’Eucaristia, noi ci cibiamo del suo corpo e del suo sangue per diventare tutti una cosa sola con lui.

Il volume mostra come, nel corso dei secoli, anche i discepoli di Gesù abbiano dato molta importanza al cibo. Basta pensare alle ricette dispensate da Benedetto da Norcia per i suoi monaci che consumavano i pasti ascoltando brani della scrittura sulla scia delle parole di Gesù “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Ma pensiamo anche al cibo frugale che accompagnava e sosteneva i pellegrini diretti verso Santiago, Roma o Gerusalemme.

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Dopo Nascere. Il Natale nell’arte (2012) e Dio storia dell’uomo. Dalla parola all’immagine (2013) il gesuita Andrea dall’Asta continua a riflettere sull’impatto che l’evento Cristo ha avuto sul mondo dell’arte col suo ultimo La croce e il volto. Percorsi di arte, cinema e teologia, un volume dedicato alla rappresentazione del mistero della croce.

Seguendo il metodo adottato nei precedenti volumi, l’autore mostra come il crocefisso sia stato raffigurato nel corso dei secoli nei modi più diversi, sotto l’influsso delle varie sensibilità religiose e teologiche. Il pregio di queste opere è quello di non essere dei semplici manuali di storia dell’arte, ma delle letture iconologiche, verrebbe quasi da dire delle meditazioni, delle opere d’arte proposte.

Infatti i vari capolavori degli artisti vengono analizzati non solo da un punto di vista estetico, ma da quello umano e religioso. Se pensiamo che essi sono in gran parte soggetti di arte sacra, cioè collocati negli spazi liturgici delle chiese per favorire il culto e la pietà, questa particolare lettura diventa indispensabile per comprendere fino in fondo il senso di tali opere.

L’autore spiega dunque come si sia passati dalla rappresentazione del Christus Triumphans dei primi secoli al Christus Patiens del XIII secolo: se all’inizio della storia del cristianesimo la croce è glorioso simbolo del Cristo e il Signore Gesù viene rappresentato sul patibolo come un sovrano sul suo trono, a partire dal XIII secolo, sotto l’influsso della spiritualità francescana, il Figlio di Dio viene raffigurato come dolente, come colui che in modo umano subisce il dramma della morte.

Alla luce di ciò possiamo comprendere anche alcuni dettagli dell’iconografia del crocifisso, come il particolare degli occhi: se in un primo momento il Cristo ha sempre gli occhi aperti, come segno della vittoria sulla morte, come nel Crocifisso di San Damiano (p. 45), in seguito, nell’arte medioevale, ha gli occhi chiusi poiché si è addormentato nel sonno della morte, come rappresentato da Giunta Pisano (p. 50).

Ma la riflessione artistica sulla morte di Gesù non si esaurisce nel Medioevo o nel Rinascimento. Forse spesso siamo abituati ad identificare l’arte sacra con le espressioni artistiche del passato ignorando come nell’epoca contemporanea il dramma della croce abbia continuato a scuotere gli artisti. Dall’Asta, che è un grande studioso dell’arte contemporanea, ci propone così una riflessione sulla produzione artistica di Georges Rouault, di Marc Chagall, di Pablo Picasso, di Giacomo Manzù, Nicola De Maria e molti altri.

Rispetto ai precedenti lavori già citati, Dall’Asta si sofferma anche sulla rappresentazione della morte di Gesù nel cinema. Per il gesuita, anche se non tutte le opere cinematografiche che si occupano in qualche modo della morte di Gesù riesconono a scuotere nel profondo l’animo dello spettatore, è comunque indubbio che fanno “emergere come la figura di Gesù sia stata e sia tuttora uno degli archetipi più riconoscibili nel mondo moderno” (p. 178).

Il testo di Dall’Asta può essere un utile strumento per tutti coloro si sono recati in pellegrinaggio a Torino per l’ostensione della Sindone e vogliono continuare a meditare sulla Passione di Cristo, poiché, come dimostrato da un altro gesuita, il padre Heinrich Pfeiffer, il volto sindonico, assieme a quello di Manoppello, costituisce l’archetipo di tutte le rappresentazioni di Cristo.

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ROMA – Mercoledì 13 maggio alle ore 19.00 presso la parrocchia San Roberto Bellarmino è stato presentato il volume La Parola secondo Giovanni. Riflessioni sul lessico del quarto Vangelo del Prof. Tito Pasqualetti, prima docente di lettere classiche presso il Liceo Classico Leopardi e poi preside del Liceo Scientifico di San Benedetto del Tronto.

Si è confrontato col l’autore don Enrico Ghezzi, noto biblista e insigne studioso dell’opera giovannea. L’incontro è stato moderato dal Prof. Sergio Ventura, docente di Religione Cattolica presso il Liceo Classico Tasso.

Pasqualetti ha esordito raccontando come sia nato il libro: a seguito del suo pensionamento, ha avuto modo di leggere il Vangelo di Giovanni nell’originale greco. Si è trattato di una seconda lettura, visto che, all’inizio della sua carriera, aveva scelto di far leggere delle pagine di Giovanni ai suoi alunni del ginnasio in un’edizione pubblicata dalla Sei.

Il volume, seguendo la narrazione evangelica, analizza il significato dei termini più importanti usati da Giovanni. Pasqualetti si è avvicinato al testo con un approccio letterario e filologico rilevando come i vocaboli di Giovanni, in molti casi, conservino i significati del greco classico, mentre, in altri, assumono una connotazione originale oppure sono proprio inventati dal quarto evangelista.

Ad esempio, la parola “doxa“, che nel greco classico vuol dire “opinione”, in Giovanni assume il significato di “gloria”. Oppure Giovanni ha inventato il sostantivo “agape” (=amore). Infatti, nel greco classico esiste solo il verbo “agapao”, ma col significato di “salutare”.Si può dunque affermare, senza timore di essere smentiti, che col vangelo nascono una nuova lingua e un nuovo pensiro.

Un tale approccio permette di avvicinare maggiormente la mente dell’autore del quarto vangelo. Il Prof. Pasqualetti ha sottolineato come questo tipo di lavoro consenta una comprensione più profonda e una maggiore aderenza al testo originale. Lo studioso ha portato a titolo d’esempio un episodio personale.

Quando era bambino al catechismo, ascoltando la parabola del figliuol prodigo (nel vangelo di Luca), aveva sentito che il protagonista del racconto si cibava di ghiande. Ha scoperto poi che nell’originale greco si parla invece di carrubbe, un cibo sicuramente molto più gustoso del primo!

Ma passando dalle carrubbe a un nutrimento molto più importante per il cristiano, quello eucaristico, il Prof. Pasqualetti ha sottolineato come nel sesto capitolo ci si imbatta nel verbo “trogo” che propriamente vuol dire “rosicchiare” ed è riferito alla carne che Gesù darà per la salvezza del mondo. Ciò indica lo stile realistico del linguaggio di Giovanni che a volte non disprezza l’uso di parole di uso popolare.

Ha preso poi la parola don Enrico Ghezzi che ha fornito una lettura teologica sottolineando come già dal secondo secolo, con Clemente Alessandrino, il Vangelo di Giovanni sia stato definito spirituale: esso racconta in primo luogo dell’intimità fra Gesù e suo Padre, la stessa intimità che Gesù partecipa ai suoi discepoli. Infine questo amore dei discepoli diventa fonte di evangelizzazione.

Don Ghezzi si è poi soffermato sulla parola Logos, domandandosi come mai Giovanni abbia usato proprio questo termine e non, ad esempio, Sophia (=Sapienza). Il biblista ha sottolineato come questo vocabolo sia una sorta di ponte fra il cristianesimo e la cultura greca diffusa nel Mediterraneo e in particolare nell’area anatolica, dove il vangelo si è formato.

Il Logos infatti era per i greci un principio spirituale immanente al mondo. Nel momento in cui Giovanni afferma che il Logos era presso Dio e che questo stesso Logos si è fatto carne, si compie un’operazione culturale straordinaria e impensabile per il mondo antico.

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GROTTAMMARE – Presso il salone Sacro Cuore della Parrocchia Sant’Agostino si è svolta la presentazione del libro Sulle strade del mondo di Enzo Farinella, collaboratore dell’Ansa e corrispondente di Radio Vaticana in Irlanda.

Il Dott. Farinella, originario della Sicilia, ma da oltre 40 anni residente a Dublino, sta concentrando tutte le sue forze per far conoscere una pagina di storia spesso molto sottovalutata, non solo in Europa, ma nella stessa Irlanda. Attraverso una serie di libri, alcuni già scritti, altri in cantiere, Farinella sta facendo riscoprire il contributo che il monachesimo irlandese ha portato all’intera Europa.

Il vecchio continente infatti, fra il V e l’XI secolo diventò cristiano grazie a tre fattori: la conversione dei re, il monachesimo benedettino e quello irlandese. Caratteristica di quest’ultimo fu la peregrinatio pro Christo: migliaia di monaci lasciarono la loro terra per diffondere il vangelo nel Europa continentale.

Fra questi possiamo ricordare San Colombano che, partito dal monastero di Bangor, attraversò la Francia, la Svizzera per concludere la sua vita a Bobbio, dove ancora riposano i suoi resti mortali. Durante la sua peregrinatio, fondò monasteri che, oltre a essere luoghi di preghiera, divennero importanti centri culturali: basta pensare che Bobbio è stata definita “la Montecassino del Nord”.

È sorprendente notare come i monaci irlandesi, ispirati dai valori del Vangelo, furono antesignani di molti temi che oggi sono al centro del dibattito pubblico. Fra i molti esempi che si potrebbero fare, il Dott. Farinella ha citato quelli di Adamnano e di Cutberto.

Il monaco Adamnano, che fu abate del monastero di Iona, a quel tempo uno fra i più importanti centri culturali e religiosi d’Europa, nel 697 emanò la Lex innocentium che proibiva di colpire donne, bambini e quanti non fossero strettamente coinvolti nelle operazioni militari in caso di guerra. Si tratta della prima forma di quello che oggi chiameremmo diritto umanitario i cui principi sono enunciati nella Convenzione di Ginevra (1949).

Invece il monaco Cutberto di Lindisfarne, ha ricordato ancora Farinella, è noto per aver emanato la prima legge a tutela dell’ambiente. Infatti in un suo scritto del 675 cercò di proteggere l’edredone, un volatile che, proprio in ricordo del nostro monaco, viene chiamato “uccello di Cuddy”. Esso nidifica ancora nei pressi del monastero di Landisfarne ed è diventato il simbolo di tutta la regione britannica.

Non essendo stata colonizzata dai romani, l’Irlanda vide diffondersi il cristianesimo senza il martirio. Quello che i romani non riuscirono a fare con le armi, i cristiani lo fecero con la forza della fede: in pochi anni tutta l’isola fu conquistata a Cristo.

Purtroppo però, ha osservato ancora Farinella, nella storia irlandese non sono mancate vicende molto dolorose, soprattutto a causa dei vicini inglesi che hanno occupato per secoli l’isola. Come è anche descritto nel libro, gli inglesi arrivarono a premiare con cinque sterline chiunque avesse portato la testa di un prete o addirittura con 10 sterline chi fosse riuscito a decollare un vescovo.

A proposito di vescovi, molti di essi furono reclusi nel XVII secolo nella colonia penale di Inisbofin. Il vescovo si Clonfert, Walter Linch, riuscì a fuggire e portò con sé un quadro della Madonna e giunse a Györ, in Ungheria. Questa tela, che ancora oggi si può ammirare nella cattedrale, il 17 marzo 1697, nel pieno della persecuzione contro gli irlandesi, pianse sangue.

Da quanto si è detto, si comprende come un po’ ovunque in Europa sia possibile trovare tracce della presenza dei monaci irlandesi. La riscoperta di questo importante apporto ci farà sicuramente sentire un po’ più europei.

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ROMA – Si è svolta martedì 9 dicembre alle ore 17.30, presso la Sala Marconi della Radio Vaticana, la presentazione del volume “La tomba e la sua memoria. All’interno della Basilica di San Pietro”, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana a firma di monsignor Marco Agostini, officiale nella sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato e cerimoniere pontificio.

L’incontro è stato introdotto da Neria De Giovanni che, nella sua veste di presidente dell’Associazione Internazionale dei Critici Letterari, ha spiegato come il libro parli di bellezza con uno stile bello e piacevole da leggere.

Ha preso poi la parola Sua Eminenza il Card. Raffaele Farina, archivista e bibliotecario emerito di Santa Romana Chiesa, che ha esordito dicendo che nessuno sa quanti libri siano stati scritti sulla basilica, ed è dunque difficile scrivere qualcosa di originale, evitando di copiare qua e là. Il volume di Mons. Agostini è riuscito a fornirci qualcosa di diverso.

L’alto prelato è poi passato a descrivere le caratteristiche deI libro che raccoglie una serie di articoli pubblicati dall’Osservatore Romano insieme a tre nuovi testi inediti. Ogni capitolo si conclude con una riflessione di carattere teologico-liturgica, che ci permette di apprezzare la basilica e le sue numerose opere d’arte alla luce della loro funzione liturgica.

Spesso la calca di turisti impedisce di cogliere la basilica per quello che è, e cioè un luogo dove vengono officiati i sacri riti. Per questo motivo, se si vuole gustare San Pietro nel suo momento più vivo, bisognerebbe visitarla al mattino presto. Ed è proprio in questo orario che l’autore vi si reca per celebrare la santa messa. Ciò rende in un certo senso unico il libro, perché la basilica è raccontata dal particolare punto di vista di chi la abita ogni giorno per adempiere al proprio ministero sacerdotale.

È poi intervenuto Guido Cornini, curatore del Reparto Arti Decorative dei Musei Vaticani, che ha letto un passo del volume dove sono descritti i diversi tipi di visitatori di San Pietro: “C’è il turista più o meno preparato a vedere cose belle, ad osservare cose diverse da quelle che scorge nelle grandi vetrine dei negozi moderni, e che s’accontenta della contemplazione dell’opera in ratione naturae, ossia gli basta ciò che è rappresentato: il fatto, la persona. C’è pellegrino che guarda le opere con una partecipazione che possiamo chiamare emotiva dovuta alla “simpatia” con le stesse cose rappresentate, vede in esse quod naturae modum excedit. Ma c’è anche il visitatore, pellegrino e turista, che insieme agli atteggiamenti testé ricordati, coglie le opere nel loro elemento materiale e tecnico, nel loro fine, nella loro collocazione storica, nella loro dipendenza dalla personalità singolare dell’artista, che osserva il modo estetico con cui sono fissate”.

È in quest’ultimo tipo di visitatore che possiamo scorgere l’identikit del lettore ideale che Mons. Agostini ha in mente. Il dottor Cornini si è poi soffermato sugli aspetti più artistici e tecnici del volume, parlando in particolare dei reliquiari e dei mosaici della basilica di San Pietro, temi trattati nel libro di Mons. Agostini

Infine ha preso la parola l’autore del libro che, dopo aver ringraziato i relatori e i presenti, ha spiegato come la sua passione verso l’arte sia nata a Verona, una città che presenta allo stesso tempo bellezze antiche, medioevali e moderne. In questo contesto è stato facile acquisire un modo di leggere l’arte.

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ROMA – Si è svolta giovedì 4 dicembre presso la prestigiosa sede del “La Civiltà Cattolica” la presentazione del volume “Nel cuore di ogni padre” che raccoglie gli scritti dell’allora padre Bergoglio. Il libro, edito da Rizzoli, contiene un’introduzione di Antonio Spadaro, Direttore della celebre rivista dei gesuiti.

Lo stesso Spadaro ha introdotto l’incontro ricordando come 13 marzo 2013, dopo l’elezione di Bergoglio, non ebbe il tempo di andare a vedere quali volumi di padre Bergoglio fossero presenti nella biblioteca de “La Civiltà Cattolica”. A ciò l’indomani rimediò padre Domenico Ronchitelli, caporedattore della rivista, che portò a padre Spadaro il volume “Meditaciones para religiosos”, la versione originale del libro che ora viene proposto in lingua italiana.

Padre Spadaro ha evidenziato come questo sia l’unico volume, scritto da Bergoglio, citato durante l’intervista che il Papa ha concesso al direttore de “La Civiltà Cattolica”. Il Papa ne ha parlato anche durante l’incontro con i membri del collegio degli scrittori de “La Civiltà Cattolica”. Questo ci fa capire quanto questo scritto stia a cuore al Papa.

Il volume raccoglie una serie di saggi scritti da padre Bergoglio fra il 1976 e il 1982, quando si trovava alla guida della provincia dei gesuiti dell’Argentina e aveva una quarantina di anni. Il futuro pontefice delinea in questi suoi scritti la figura del gesuita che dovrebbe essere una persona dal pensiero incompleto, aperto, che riesca a cogliere, a partire dal frammento, un orizzonte più ampio o, come scrive lo stesso Bergoglio, a “percorrere cortili scorgendo praterie”.

Nelle parole di Bergoglio si può notare come non ci sia nessuna contrapposizione fra dottrina e prassi. Per Bergoglio la chiesa non può essere concepita né come “una bottega di restauro”, né come “un laboratorio di utopia”.

Ha preso poi la parola padre Marco Tasca, generale dei Frati Minori Conventuali che ha individuato quattro parole chiave per leggere il libro. La prima è “cuore”, il centro biologico della vita che in modo dinamico pulsa sangue dal centro alle periferie del corpo. Ma il cuore, nella spiritualità cristiana, è anche sede del sentimento, della coscienza, della volontà ed è sintesi di tutta la persona, perché è il luogo dove si sperimenta la presenza di Gesù. Tuttavia non si tratta di una “comfort zone” poiché, ad esempio, nel libro compare per 70 volte la parola “lotta”. È dal cuore che si dipana il coraggio dell’annuncio e allo stesso tempo la pazienza apostolica che rendono i cristiani non gli estirpatori della zizzania, ma seminatori del grano.

Padre Tasca si è poi soffermato sulla figura del padre che costituisce la cifra del pontificato in quanto il padre armonizza, mette insieme, compone il vecchio e il nuovo. Ma è anche colui che dispensa misericordia. Questa parola, e relativi sinonimi, abbondano nel libro ed è particolarmente significativo che, fra i tanti episodi, padre Bergoglio citi solo quello della vita di San Francesco nel quale il Poverello di Assisi incontra la misericordia di Dio Padre, donando misericordia al lebbroso.

La riflessione di padre Tasca si è poi concentrata sul tema delle radici. Per Bergoglio, riesce a elevarsi solo chi ha radici, solo chi è attaccato a ciò che ci fonda. Questo atteggiamento genera un senso di “appartenenza” e si è qualcuno solo nella misura in cui sia appartiene. Per essere gesuiti è necessario appartenere a un corpo, a una storia. Senza questa appartenenza all’ordine, si corre il rischio di diventare “franchi tiratori” o, al contrario, “pensionati”.

Infine padre Tasca ha sottolineato l’importanza della dimensione spirituale nel pensiero di Bergoglio, un spiritualità che significa ricerca costante del volto di Cristo. A tal proposito, padre Tasca ha citato un’espressione del Card. Maradiaga, secondo il quale, “quando stai con Bergoglio, sembra che conosca Dio Padre personalmente”.

Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes, ha riflettuto sulla leadership di Papa Francesco, tutta centrata sulla sua visione ecclesiologica caratterizzata dalla missionarietà, da una visione non clericale e non autoreferenziale.

Mauro Magatti, sociologo e docente presso l’università del Sacro Cuore, ha legato il successo di Papa Francesco al fatto che egli risponde a interrogativi moderni come quelli sul rapporto fra libertà ed autorità, affermandosi come un leader che guida senza opprimere.

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ROMA – Si è svolta martedì 30 settembre alle ore 17.30 presso la Sala Maggiore dell’Istituto Patristico Augustinianum la presentazione del volume “Atlante storico della carità”, opera di Juan María Laboa. Il libro è edito dalla Libreria Editrice Vaticana In collaborazione con la Jaca Book. L’incontro è stato moderato dal direttore della Lev don Giuseppe Costa.

Sante Bagnoli, editore della Jaca Book, ha sottolineato come il volume possa essere considerato allo stesso tempo un frutto e un seme: frutto perché è il risultato di un lungo interesse dell’autore verso il tema della carità, seme perché si tratta di un’opera quasi unica nel suo genere e che si spera possa costituire un modello per la successiva storiografia cattolica.

Secondo Bagnoli, vedere la storia della carità è entrare nella antropologia cristiana. Non si tratta solo di una lettura di esperienze: avvicinandoci ai santi che si sono dedicati ai più bisognosi, veniamo a conoscere un pensiero, una visione non meno importanti di quelle teologiche.

L’editore della Jaca Book ha poi evidenziato come il presente volume, a differenza di uno precedente dell’autore sullo stesso tema, sia ampiamente corredato da immagini, rendendolo anche più economico: le spese per la traduzione di un coffee book sono infatti minori rispetto a quelle per un libro di solo testo. Si può avere dunque in mano un volume pregevole ad un costo contenuto.

Ha preso poi la parola Sua Eccellenza Francesco Montenegro, Arcivescovo di Agrigento e Presidente della Commisione Episcopale della Cei per le migrazioni e già Presidente della Caritas Italiana fino al 2008.

Il prelato, prendendo spunto dal passo giovanneo nel quale si afferma che solo chi ama conosce Dio, ha messo in luce come il libro ripercorra la storia di chi si è messo alla sequela di quel Dio che che nel Nuovo Testamento si rivela come Carità. Come suggerito dal titolo, il volume descrive la storia e la geografia della carità, mostrando che, nonostante tutti i peccati le contraddizioni, c’è un filo rosso che tiene unita la bimillenaria storia della Chiesa: la carità.

Secondo il Monsignore, ci sono molte vie per arrivare alla dimostrazione di Dio, come quelle celebri di San Tommaso. Tuttavia l’amore costituisce un’epifania chiara ed indiscutibile di Dio. La carità non ci indica Dio, ma ce lo fa vedere all’opera. Essa non è solo fatta di gesti, di affetti, ma è vita divina. Ogni gesto di carità che mettiamo in atto è sacramentale e ci mostra Dio.

L’Arcivescovo ha infine concluso il suo intervento notando che il libro nasconde una domanda di fondo: “Chi fa la storia?”. I veri protagonisti della storia – ha osservato – sono i poveri e coloro che li amano. La logica del vangelo risulta così capovolta rispetto a quella del mondo: coloro che sono marginali per gli uomini sono al centro per Dio e in fin dei conti, come ricordava Chiara Lubic, la dottrina sociale della chiesa è nata il giorno in cui Maria ha cantato il Magnificat.

È stata poi la volta dell’intervento dell’onorevole Mario Marazziti, Portavoce della Comunità Sant’Egidio. Secondo l’onorevole, la carità è stata sotto attacco negli anni ’60 e ’70 ed è stata screditata come assistenzialismo. Per molti anni, a causa del linguaggio aggressivo di certa politica, ci si è dovuti scusare per non sembrare buonisti. Al contrario oggi, grazie al contributo di Papa Francesco, il tema della carità è di nuovo tornato centrale, come dimostra anche il volume presentato che non è un libro sdolcinato, che non nasconde le difficoltà della storia, ma che vuole ricordare la peculiarità del cristianesimo.

Infine ha preso la parola l’autore Juan María Laboa, che per 40 anni ha insegnato Storia della Chiesa all’università. L’illustre docente sentiva la mancanza di un volume di Storia della Chiesa incentrato sulla vita della grazia della gente. Poteva infatti spiegare molto bene la vita istituzionale della Chiesa, le vicende più importanti ad essa legata, ma cosa avrebbe saputo raccontare della vita cristiana? Questo libro costituisce la risposta a questa domanda e mette al centro il tema della carità perché parte dalla consapevolezza che tutti siamo feriti e abbiamo bisogno dell’amore di Dio. La Chiesa dunque è presentata non tanto come una scuola di dottrina, ma come luogo dove si manifesta la carità.

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