Nicola Rosetti
ROMA – Juan Carlos Scannone, gesuita ottantaduenne, è stato uno dei professori dell’attuale pontefice. Il Prof. Scannone, infatti, nel 1957 è stato docente di greco e letteratura presso il seminario di Villa Devoto dove Jorge Mario Bergoglio mosse i suoi primi passi verso il sacerdozio. Scannone è il più grande esponente in vita della “teologia del popolo”, una particolare scuola di pensiero religioso sviluppatasi soprattutto in Argentina, distintasi per aver rivalutato i temi dell’inculturazione e della pietà popolare all’interno della riflessione teologica. Dalla metà di aprile vive presso il collegio degli scrittori de “La Civiltà Cattolica” dove lo abbiamo incontrato.
Che tipo di studente era Jorge Mario Bergoglio? Che approccio aveva con lo studio?
Era un bravo studente. Io gli ho insegnato sia greco che letteratura prima che diventasse gesuita, quando ancora era un seminarista. Era diligente, non era il più bravo della classe, ma, sicuramente, era uno dei migliori!
Si applicava, ma non ricordo nessun fatto nello specifico. Logicamente, in quel periodo, non sapevo che sarebbe diventato né gesuita, né Papa! Ricordo che in quel periodo si ammalò gravemente. Infatti, un semplice raffreddore si trasformò in una polmonite e lo dovettero addirittura operare e superò questa prova con molta forza.
Si aspettava l’elezione del Card. Bergoglio a Papa?
No, sinceramente, non me lo aspettavo. Sapevo che aveva ricevuto molti voti quando venne eletto Benedetto XVI nel conclave del 2005, ma pensavo che, dopo la rinuncia di Papa Ratzinger, i cardinali avrebbero eletto un Papa molto più giovane. Quindi no, non me lo aspettavo, principalmente a causa dell’età.
La provvidenza ha dato alla Chiesa il primo Papa latino-americano. Cosa comporta ciò per la chiesa universale?
L’America Latina, un continente per la maggioranza cattolico e povero, ha una certa e speciale sensibilità evangelica verso l’opzione preferenziale per i poveri. Ciò che già venne reso esplicito durante la Conferenza di Medellìn, divenne ancora più importante durante quella di Puebla per culminare poi in quella di Aparecida, in Brasile, nel 2007. Tutti gli ultimi Papi hanno seguito questa linea.
Quando, Giovanni Paolo II andò a Puebla, lui fece dell’amore per i poveri uno dei capisaldi del suo pontificato. Lo espresse chiaramente nell’enciclica “Sollicitudo rei socialis”. E quando Benedetto XVI andò nel 2007 ad Aparecida, in Brasile, per inaugurare la conferenza, confermò che le radici di questa opzione sono cristologiche. Perché fu Cristo per primo ad avere un’opzione preferenziale verso i poveri.
Le parole di Papa Francesco nei riguardi degli ultimi e dei più poveri sono state spesso ritenute espressioni vicine alla “teologia della liberazione”, lei invece ha più volte ribadito che sono ascrivibili alla “teologia del popolo”. Può tornare su questo argomento, chiarendo quali sono le differenze fra queste due correnti teologiche dell’America Latina?
Ricordo che nel 1982, un padre della gregoriana, il padre Neufeld, mi chiese un articolo riguardante la teologia della liberazione per il libro “Problemi e prospettiva dell’ideologia dogmatica”. Questo mio contributo venne inizialmente pubblicato in italiano, poi tradotto anche in tedesco e quindi spagnolo.
Nell’articolo, facevo la distinzione tra 4 correnti ed una di queste era ciò che oggi è chiamata la Teologia del Popolo. In quel periodo, io rappresentavo una delle correnti della teologia della liberazione.
Due anni dopo, nel 1984, la Congregazione per la Dottrina della Fede, presentò il primo documento su alcuni aspetti della teologia e liberazione, la “Libertatis nuntius”. Antonio Quarracino, che sarebbe poi diventato Arcivescovo di Buenos Aires e che in quel periodo era segretario della Celam, ribadì l’esistenza di queste 4 correnti. Quindi, si può dire, che furono riconosciute come una linea all’interno della teologia della liberazione. Gustavo Guitierrez conferma, in maniera esplicita, che è una corrente dalla caratteristica propria.
La caratteristica principale della teologia del popolo è che non si è mai utilizzato né il metodo, né le categorie dell’analisi marxista della realtà, ma, senza negare la radice sociale, si è preferita un’analisi storico-culturale. L’aspetto storico-culturale prende il sopravvento, senza togliere importanza a quello storico-politico. Inoltre, viene rivalorizzata fortemente la pietà popolare e si arriva addirittura a parlare di “spiritualità e mistica popolare”.
Papa Francesco, nell’Evangelii Gaudium, dà molta importanza al tema della spiritualità popolare e tratta il tema due volte, per l’importanza che l’inculturizzazione ha nella cultura latino-americana. La cultura popolare evangelizza se stessa e va evangelizzando le prossime generazioni.
Lei, in qualità di massimo esponente della teologia del popolo, cosa pensa della religiosità italiana, ancora così impregnata di devozione? Trova delle assonanze fra la religiosità popolare italiana e quella argentina?
Per prima cosa…. Non sono il massimo esponente! Non conosco sufficientemente la religiosità italiana, perché non ho vissuto a lungo in Italia, ma credo che, quando c’è una vera devozione e spiritualità popolare, è la fede che si incarna e si rende operativa attraverso la carità. Una caratteristica della pietà popolare è che non si tratta di una spiritualità individualista, ma aperta verso chi soffre, verso i peccatori e, se è così, è realmente evangelica.
Nel 1975 ci fu una riunione a Roma e venne fatto un lavoro, dividendosi per continenti, ed uno dei temi era quello della valorizzazione della saggezza popolare, che è un elemento della pietà popolare. Questo tema emerse specialmente in tre gruppi: più fortemente in quello latino-americano, poi in quello africano ed anche in quello dell’Europa Meridionale (costituito quindi da italiani logicamente, ma anche da spagnoli e da portoghesi).
In Italia, anche se sono passati parecchi anni ed io non ho un’esperienza diretta, credo che si sia conservata una vera e propria spiritualità popolare che bisogna saper valorizzare, per evangelizzare una secolarizzazione che non sia secolarista.
In Argentina, a Buenos Aires, dove il Papa era Vescovo, ci sono devozioni che discendono dall’Italia, anche se poi magari lì, diventarono ancora più forti che in Italia. Ad esempio, ogni 7 agosto si celebra San Gaetano, patrono del pane e del lavoro, e ci sono milioni di persone che visitano la chiesa del Santo e toccano la sua statua, per “prenderne la grazia”, così come ho visto fare con la statua della Vergine dallo stesso Papa. Glielo ho visto fare il giorno della canonizzazione. La stessa cosa succede con la Vergine di Pompei, il santuario mariano più importante dentro la città di Buenos Aires.
Che rapporto c’é oggi fra lei e il suo ex alunno?
Molto buono. Io sono venuto a lavorare a “La Civiltà Cattolica”, proprio per collaborare con la rivista nella comprensione del pensiero, del carisma e dell’azione del Papa. Ho scritto, da poco, un articolo su Papa Francesco e la teologia del popolo e ne sto scrivendo un altro.
Sto scrivendo altri articoli e sono stato con lui in due occasioni. Sono stato con lui a Santa Marta e dopo mi ha invitato a fare colazione con lui ed abbiamo proseguito la conversazione. Grazie a Dio si tratta di un rapporto molto buono.
DIOCESI– Continua la serie di interviste a personaggi di primo piano nel panorama dell’informazione religiosa. Oggi vi proponiamo l’intervista a don Antonio Sciortino, dal 1999 direttore di “Famiglia Cristiana”, una delle riviste religiose più diffuse in Italia.
Don Antonio, qual è secondo lei il punto di forza della testata che ormai da tanti anni dirige? Cosa continua ad attrarre i lettori verso un settimanale così longevo?
I giornali durano nel tempo se hanno un’anima e un legame molto stretto con i propri lettori, che sono la principale ricchezza e risorsa. Da più di ottant’anni, i lettori sono cresciuti assieme a Famiglia Cristiana, ma anche la rivista è cresciuta con loro. Questo duplice legame è la nostra forza. I lettori si fidano di noi perché ci percepiscono dalla loro parte, a loro servizio. Ci reputano credibili e coerenti con i valori del Vangelo cui ci ispiriamo. E anche quando ci criticano, com’è giusto che facciano, non mettono mai in dubbio la nostra buona fede. Si fidano, sanno che non li potremmo mai ingannare.
Spesso all’interno dei giornali diocesani si anima un vivace dibattito tra chi vorrebbe un’informazione di tipo esclusivamente religioso e chi, invece, vorrebbe trattare solo di argomenti di attualità. La soluzione alla diatriba si potrebbe trovare nelle parole del Beato Giacomo Alberione che, a proposito della rivista che aveva fondato, disse: “Famiglia Cristiana non dovrà parlare di religione cristiana, ma di tutto cristianamente”. Quanto questo insegnamento è ancora valido oggi?
La dimensione religiosa è parte di un’esistenza più ampia. Guai a chiudersi in una nicchia o nei sacri recinti. Giustamente papa Francesco ci invita a “uscire” e andare per le vie del mondo, anche a costo di correre qualche rischio, piuttosto che ammalarsi di “autoreferenzialità”, la malattia di cui sono affetti molti media di ispirazione cristiana. “Parlare di tutto cristianamente” vuol dire saper leggere la realtà, anche quella più triste e disperata, alla luce del Vangelo, con un briciolo di speranza. Missione difficile, è come “passare tra goccia e goccia senza bagnarsi”, come diceva don Alberione parlando dell’apostolato paolino.
Nel nome della testata che dirige c’è la parola “famiglia”. In che modo oggi un giornale d’ispirazione cattolica dovrebbe proporre ai suoi lettori i temi legati alla famiglia?
Tutti oggi parlano di famiglia, spesso anche in modo astratto o ideale, pochi invece danno la parola alla famiglia, riconoscendole il ruolo di protagonista nella vita sociale ed ecclesiale. La famiglia è la chiave di lettura che ci permette di affrontare e inquadrare tutti i problemi che la riguardano, dalla scuola al lavoro, dalla disoccupazione giovanile al futuro del Paese.
Al tradizionale formato cartaceo si è affiancato quello on line. Quale sarà, secondo il suo punto di vista, il futuro dell’informazione religiosa? Queste due forme coesisteranno o la versione web prenderà il sopravvento?
Nessun mezzo di informazione ha mai soppiantato quelli precedenti. Li ha messi in crisi, ma li ha anche costretti a rinnovarsi e adeguarsi ai cambiamenti del tempo e della tecnica. Lo stesso sta avvenendo anche oggi con Internet, i new media e i social network. La carta stampata non morirà Il futuro è nell’integrazione, che valorizzi al meglio le potenzialità di ogni singolo mezzo. Avremo, quindi, un futuro multimediale e crossmediale.
In preparazione del primo meeting dei giornali cattolici on line che si terrà a Grottammare (AP) dal 12 al 14 giugno, stiamo intervistando personalità di spicco del mondo cattolico che si occupano di informazione. Oggi è la volta di Elisabetta Lo Iacono, docente di giornalismo presso la Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura” Seraphicum di Roma, socia fondatrice e presidente dell’Associazione Culturale “Giuseppe De Carli – Per l’informazione religiosa”, istituita nel gennaio del 2012 per onorare la memoria del celebre vaticanista, scomparso prematuramente all’età di 58 anni l’anno precedente.
Professoressa, da diversi anni lei si occupa del rapporto tra comunicazione e religione. Qual è secondo lei la “chiave del successo” di tanti programmi che trattano esplicitamente i temi religiosi?
Le componenti di questo fenomeno sono diverse e possono essere riconducibili, principalmente, a tre fattori: innanzitutto la necessità, assai diffusa, di ricerca del sacro, di approdo a una dimensione “altra” che rappresenta peraltro un’atavica esigenza dell’uomo alla quale la modernità non consente di sottrarsi.
Nonostante i tanti surrogati di benessere, l’individuo aspira a una dimensione capace di proporre risposte alla ricerca di senso, di offrire quella misericordia di cui abbiamo bisogno – come ci ricorda ripetutamente papa Francesco – di darci tenerezza nell’oggi e speranza sul futuro.
La seconda componente è da ricondurre al rapido sviluppo dei mezzi di comunicazione che permettono ormai di far conoscere il Magistero del pontefice e le tante iniziative della Chiesa nei più reconditi angoli del mondo, incrementando così l’attenzione su queste tematiche.
Infine c’è il volano rappresentato dalla capacità e dalla volontà dei pontefici di utilizzare appieno le nuove tecnologie, ponendosi essi stessi come validi comunicatori. Solo per restare agli ultimi pontificati, che hanno coinciso con un deciso sviluppo dei media, pensiamo a san Giovanni Paolo II e alle sue straordinarie doti comunicative, all’attenzione di papa Benedetto verso le nuove opportunità relazionali con la felice intuizione- tra le altre cose – di portare il pontefice su Twitter e, oggi, al rapporto diretto di papa Francesco con i mezzi di informazione.
L’associazione della quale lei è presidente è dedicata a “Giuseppe De Carli”. Quali sono i tratti umani e professionali di questo illustre giornalista che indicherebbe come modelli per le tante persone che si occupano di informazione religiosa e in particolare a quelle che interverranno al meeting?
Umiltà e serietà sono stati i due tratti principali di Giuseppe De Carli, sia come uomo sia come professionista. Giuseppe aveva l’umiltà dei grandi che significa non porsi mai con supponenza e pre-giudizio dinanzi a persone e fatti, ma con la piena disponibilità a conoscerli in ogni risvolto, anche attraverso una straordinaria capacità di lasciarsi sorprendere.
De Carli raccontava la Chiesa con quell’entusiasmo proprio di chi vede qualcosa per la prima volta, ma con la preparazione culturale e teologica di chi vi dedica ogni risorsa, concependo questa professione con profondo spirito di servizio.
Il giornalismo è una professione entusiasmante e difficile, ancor più nell’ambito religioso dove si è chiamati a raccontare questioni terrene, ma anche spirituali.
E bisogna farlo, oltre che con un buon bagaglio di conoscenze, con il massimo equilibrio, pensando sempre che stiamo parlando anche a coloro che non sono credenti o che professano altre fedi.
L’evangelizzazione non può essere fatta di strattoni e arroganza, bensì deve accompagnare con spirito di servizio e amore sui percorsi della conoscenza e della Verità.
Lei ha conosciuto personalmente De Carli? Ci può raccontare qualche episodio della sua vita legato a Giovanni Paolo II o a Benedetto XVI?
Ho conosciuto De Carli nel 2007, lo intervistai in fase di realizzazione di un mio libro sulla metodologia comunicativa di Giovanni Paolo II. Quando uscii dal suo studio a Borgo Pio, dove si trova Rai Vaticano, ebbi subito la piena convinzione che oltre ad avere raccolto una bella intervista, quel giorno avevo incontrato una persona straordinaria. Non sapevo ancora che, proprio quell’incontro, avrebbe contribuito a indirizzare le mie future scelte professionali.
Mantengo, in particolare, un vivo ricordo sullo speciale “Ti ricordiamo così Karol”, l’ultimo lavoro di De Carli trasmesso da Rai Due nel maggio del 2010 e dedicato a papa Wojtyla, al quale ebbi la grazia di partecipare.
Una mattina andai nel suo ufficio, lo ricordo ancora con quei fogli sui quali stava tracciando la scaletta del programma. Quello che mi colpì fu l’entusiasmo con il quale componeva ogni singolo tassello e lo spirito di verità che animava il suo lavoro. De Carli amava la Chiesa e quindi tutti i successori di Pietro, senza faziosità di sorta, con la capacità di valorizzare ogni loro peculiarità, ma senza mai cadere nella trappola delle scorciatoie mediatiche, avendo ben presente che la vera notizia è e rimane sempre la Parola di Dio.
De Carli si è occupato soprattutto di informazione televisiva, ma oggi la comunicazione religiosa passa anche attraverso il web. Il meeting “Pellegrini nel cyberspazio” si occuperà in particolare proprio della presenza dei cattolici in rete. Secondo lei, il mondo cattolico è pronto a raccogliere le sfide che provengono dal mondo della rete?
Certamente c’è la piena coscienza che la rete sia una sfida rivolta non solo all’informazione, ma anche all’ambiente relazionale e sociale. La consapevolezza delle potenzialità e dei limiti della rete è ormai un punto fermo dal quale muovere per utilizzare in modo responsabile e fruttuoso gli strumenti a disposizione.
In fin dei conti, con lo sviluppo di questo tipo di comunicazione, la Chiesa è sempre stata sollecita a mettere in guardia dai rischi ma, al contempo, a incoraggiarne l’utilizzo.
La rete è una dimensione ormai irrinunciabile, anche per il mondo cattolico, che richiede di spendersi in prima persona: se riusciremo a essere testimoni di un sistema relazionale positivo, potremo contribuire a mettere la comunicazione al servizio di un’autentica cultura dell’incontro, come recita il messaggio di quest’anno di papa Francesco per la Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali che sarà celebrata il prossimo 1° giugno.
Proprio per tutti questi motivi, il meeting “Pellegrini nel cyberspazio” rappresenta un momento molto importante di confronto e di sensibilizzazione per essere fruitori e protagonisti di una comunicazione e di una informazione più responsabile e più vera.
ROMA – Sonia Di Santo è una dei cento adulti che la notte di Pasqua di quest’anno a Roma ha ricevuto il Battesimo. È nata il 23 Dicembre 1980 a Roma ed è un’attrice doppiatrice . L’abbiamo contattata per conoscere meglio il suo percorso che la portata ad abbracciare la fede cristiana.
Sonia, nonostante la nostra società sia sempre più plurale e multietnica, per tanti di noi che hanno ricevuto il Battesimo da piccoli, può ancora sembrare strano che qualcuno riceva questo sacramento da adulto. Puoi spiegare ai nostri lettori il contesto dal quale provieni? La mia famiglia era Testimone di Geova, io stessa lo diventai, quindi non ricevetti il battesimo cristiano. Ho avuto molte brutte esperienze all’interno dell’organizzazione dei Testimoni di Geova, una volta sono stata sottoposta ad una sorta di comitato giudiziario per fatti che erano legati alla mia vita privata.
Sette uomini adulti mi chiesero cosa avevo fatto e mi fecero mettere tutto per iscritto. In tutto ciò notai la totale mancanza di amore e misericordia: davvero Dio non poteva volere tutto ciò!
Mi allontanai e smisi di cercare Dio. Ebbi molti problemi a scuola, mi ammalai di bulimia ed ebbi vari disturbi dell’alimentazione. Cominciai anche a fare uso di droghe. Mi sentivo libera e volevo recuperare tutto il tempo perduto! Poi conobbi il buddismo e lo praticai per 9 anni fino a quando…
Quale circostanza della vita ti ha poi condotto ad abbracciare la fede cristiana? Nel Giugno 2012 morì Chiara Corbella Petrillo e, tramite una mia collega di lavoro, venni a conoscenza di questa donna che tenne in grembo 2 figli malformati e li fece nascere ed infine morì di tumore dopo la nascita del terzo figlio. Attaccavo su tutti i blog questa ragazza, per me era una pazza, un’integralista.
Poi lessi che stava compiendo dei miracoli. Non so perché, ma la pregai, sfidandola , per rimanere incinta. Dopo 10 giorni lo ero! Dopo un mese persi il bambino ed ero distrutta . Pregai allora il Signore dopo tanto tempo e gli chiesi di farmi capire se esisteva. Il giorno dopo mi arrivò tramite facebook un invito per il “corso zero” dai frati francescani di Assisi! Arrivai nella città di San Francesco e nei 4 giorni di catechesi incontrai Dio.
Ci puoi raccontare il percorso che hai intrapreso per prepararti al sacramento del Battesimo? Mi sono preparata per 2 anni. Ho studiato le scritture con il mio padre spirituale, il biblista Don Pino Pulcinelli. Ho continuato a frequentare i corsi per giovani ad Assisi tenuti dai frati francescani e soprattutto ho iniziato il percorso dei Dieci Comandamenti promosso da Don Fabio Rosini. Per me è stata un’esperienza straordinaria che ha cambiato la mia vita!
Cosa ti affascina maggiormente di Cristo e del suo messaggio? L’Amore. Mi piace pensare che vado bene così come sono, che non devo cambiare o sforzarmi. Non sono io che devo andare da lui, ma è Dio che, come il padre della parabola del figlio perduto, mi viene incontro. Basta lasciarsi incontrare.
Come hanno accolto i tuoi amici la scelta di diventare cristiana? Sono tutti molto contenti. Certo vengo da ambienti compositi : al mio battesimo verranno attori, cantanti, doppiatori, compagni del percorso politico, frati francescani, preti e parroci di altre parrocchie, ex Testimoni di Geova, buddisti, cattolici..insomma un battesimo “ecumenico”!
In quale parrocchia sei stata battezzata e chi ha amministrato il sacramento? A darmi il sacramento non poteva che essere il mio padre spirituale, il carissimo Don Pino Pulcinelli dell’Università Lateranense.
Continuano le nostre interviste a personaggi che interverranno al primo Meeting dei giornali cattolici on line che si terrà dal 12 al 14 giugno presso Grottammare (AP). Oggi abbiamo contattato Giovanni Tridente, Professore Incaricato di “Etica Informativa” ed “Opinione Pubblica” presso la Facoltà di Comunicazione Istituzionale della Pontificia Università della Santa Croce e Coordinatore dell’Ufficio Comunicazione e Stampa presso la medesima università. Il docente è anche autore del recentissimo volume “Teoria e pratica del giornalismo religioso. Come informare sulla Chiesa Cattolica: fonti, logiche, storie e personaggi” edito da Edusc.
Professore, lei opera all’interno di un’istituzione che forma coloro che saranno responsabili delle comunicazioni nelle varie diocesi del mondo. Quali sono i requisiti fondamentali che deve avere una figura professionale di questo tipo? Chi opera negli Uffici di Comunicazione di istituzioni ecclesiastiche deve innanzitutto amare la Chiesa e la propria professione. Ciò lo spingerà inevitabilmente ad un desiderio di formazione costante, sia umana che professionale appunto, che lo porterà a vivere in quasi-simbiosi con l’istituzione per cui opera e a rapportarsi con il mondo dei media in maniera amichevole, in totale spirito di apertura e servizio.
Tra le cose che insegnamo ai nostri studenti, i quali provengono da decine di Diocesi e Paesi di tutto il mondo, c’è proprio questa attitudine a non vivere con paura il rapporto con i giornalisti, anzi a cercare tutte le vie possibili per instaurare con gli stessi un rapporto cosiddetto “win-win”, che è di beneficio sia per l’istituzione che per il mondo dell’informazione.
Un altro aspetto fondamentale riguarda il dire sempre la verità, rifuggendo la tentazione di voler nascondere eventuali fallimenti. Questo atteggiamento, infatti, è deleterio, perché a lungo andare crea soltanto problemi ulteriori.
Legato a ciò, c’è la necessità di imparare ad “anticipare” le possibili crisi mediatiche che potrebbero colpire l’istituzione, studiando proprio nei momenti di tranquillità le soluzioni a problemi che un giorno ci si potrebbe trovare a vivere. Perché, volenti o nolenti, presto o tardi, ciò accadrà e bisognerà risultare preparati.
Come ricordavamo nell’introduzione, lei è autore di un volume che viene a colmare una lacuna nel campo della formazione dei giornalisti che si occupano dell’informazione religiosa. Quali sono i punti forti del suo libro?
Come lei dice, si tratta di un tentativo editoriale, ad oggi, unico nel suo genere, concepito proprio per venire incontro al bisogno di tanti colleghi chiamati a raccontare la Chiesa e il mondo vaticano e che casomai non hanno ricevuto una formazione specifica al riguardo, perché si occupavano ad esempio di tematiche totalmente estranee all’ambito religioso.
Ovviamente, proprio per il taglio teorico-pratico e accademico-esperienziale, è rivolto anche a quei giovani che studiano nelle facoltà di giornalismo e comunicazione, dove spesso non si fa esplicito riferimento al settore della religione e della Chiesa come avviene invece per la politica o lo sport.
Per cui, ciò che il manuale offre agli uni e agli altri è una conoscenza sistematica delle peculiarità della Chiesa e della sua organizzazione, oltre a strumenti necessari per poter “raccontare” adeguatamente questa realtà e rendere un servizio il più possibile fedele alla verità.
È suddiviso in quattro grandi sezioni. La prima, introduttiva, offre uno “sguardo d’insieme” sull’argomento, spiegando perché anche nel settore dell’informazione sulla Chiesa sia giusto parlare di vera e propria teoria e pratica.
La seconda sezione, quella più corposa, segue in linea di massima la medesima impostazione della manualistica classica sul giornalismo, adattando metodi e temi (storia, formazione, fonti, documentazione, retorica, etica, Internet) al campo specifico della religione.
Nella terza parte vengono offerte delle chiavi di lettura per comprendere la dinamica ecclesiale, ossia perché la Chiesa ha un proprio diritto, una propria gerarchia e si serve dell’economia per la sua missione. Infine, vengono spiegate alcune prassi istituzionali, come il ruolo del Papato, il magistero, l’organizzazione della Santa Sede, il Conclave e la Sede Vacante e l’importanza della diplomazia.
Un fiore all’occhiello di tutto il manuale considero che sia comunque il glossario di termini ecclesiastici e cattolici che compare nell’Appendice, dove è spiegato il significato di tanti vocaboli talvolta anche desueti, ma necessari per un “vaticanista”.
Il meeting che si terrà a Grottammare si occuperà in gran parte dei giornali diocesani. In che cosa si deve distinguere un giornale diocesano? Quali devono essere a suo avviso le sue peculiarità? Un giornale diocesano appartiene evidentemente all’Istituzione ecclesiale stessa, che ne è proprietaria, e quindi rappresenta in termini tecnici un “soggetto” di comunicazione istituzionale. Lavorare in un organo che è interno all’istituzione è perciò cosa diversa che lavorare per un mezzo generalista di proprietà altrui.
Fatto salvo il possesso di tutte le caratteristiche professionali tipiche di qualunque giornalista, chi informa per conto della Diocesi cercherà di rendere al meglio la trasmissione di contenuti propri, che mostrano ad esempio la vitalità della Chiesa locale, ricorrendo principalmente a testimonianze, storie, volti…
Si guarderà bene, poi, dal cadere nel rischio tipico che lo studioso spagnolo Bru chiama “riduzionismo tematico” e che si identifica con la concentrazione dell’interesse informativo soltanto sulla vita dell’istituzione (nomine, provvedimenti…), dimenticandosi degli aspetti umani e sociali che comunque caratterizzano la vitalità dell’organismo o del territorio.
Lei parteciperà al meeting. Che cosa l’ha spinta a partecipare e cosa direbbe ad altri giornalisti per invogliarli a partecipare?
Quando ho saputo per puro caso che si stava organizzando una iniziativa di questo genere ho pensato subito che quello sarebbe stato anche il mio posto. Scrivo da quando avevo 16 anni e mi sono sempre interessato delle realtà informative locali e più in generale cattoliche.
Radunarsi per riflettere sulla propria professione, sul risvolto che questo compito ha sulla società è sempre un fatto positivo, dal quale non si possono che trarre insegnamenti utili, condividendo le migliori esperienze.
Sarà questo lo spirito con cui vi parteciperò e credo che sarà una buona occasione anche per altri colleghi per avvicinarsi a questo mondo dell’informazione religiosa che forse non è così pubblicizzato, ma fa davvero tanto per la missione della Chiesa in Italia.
CHIESA – Giovanni Paolo II ha avuto sempre un grande amore per il laicato cattolico e in particolare per i giovani. Questa sua predilezione verso i giovani lo ha spinto a dare vita alle Giornate Mondiali della Gioventù alle quali hanno partecipato nel corso degli anni migliaia di ragazzi. Il sentimento di benevolenza per le giovani generazioni non ha mancato di essere corrisposto. Sono nati così i “Papaboys”. In occasione della canonizzazione di Giovanni Paolo II abbiamo intervistato Daniele Venturi, Presidente Nazionale dei Papaboys
Daniele, vuoi raccontare ai nostri lettori come e quando è nato il movimento dei Papaboys?
Il sito internet www.papaboys.org è nato nel 2001, mentre l’Associazione Nazionale Papaboys è stata fondata nel 2004. I Papaboys però non vogliono essere tanto un movimento, ma sono soprattutto un’associazione al servizio della Chiesa e dei giovani.
Quanti associati raccoglie oggi la vostra associazione e quali sono le più importanti attività che svolgete?
Gli associati attualmente sono circa 15.000. Principalmente noi Papaboys siamo impegnati a sostenere tutte le attività di preghiera proposte dalla Chiesa. Spesso sono proprio i Papaboys ad animare le Adunanze Eucaristiche. A me piace dire che il nostro compito è quello di “apritori di porte delle chiese”: aprire le parrocchie e portarci dentro i fedeli a pregare, con Gesù al centro dell’altare, ed è a Lui che affidiamo tutti le nostre invocazioni.
I papaboys sono nati con Giovanni Paolo II. Quale è stato il rapporto con i suoi successori Benedetto XVI e Francesco?
I Papaboys sono nati con Giovanni Paolo II, cresciuti con Benedetto XVI e continuano a crescere con Francesco. A due mesi dall’elezione di Benedetto XVI, il 28 giugno 2005, partecipammo all’incontro “Tanti cuori attorno al Papa. Messaggero di Pace” presso l’Aula Paolo VI.
Proprio durante la sei giorni di intercessione per la pace che avevamo organizzato a febbraio 2013 arrivò la notizia delle dimissioni di Benedetto XVI; in quell’occasione Benedetto XVI ci fece recapitare dall’arcivescovo Konrad Krajewski, centinaia di corone del Rosario.
Con Francesco il feeling inizia in Terra Santa: noi seguiremo il Santo Padre con tutta una serie di iniziative. Per l’occasione abbiamo anche realizzato il sito www.terrasanctapax.org che conterrà momenti live e di preghiera.
Quale aspetto del carisma di Giovanni Paolo II ti affascina maggiormente?
Ti rispondo evidenziando la principale motivazione che mi ha convinto a mettermi in gioco: la continua conferma della sua credibilità. Giovanni Paolo II predicava il perdono ed ha perdonato; predicava l’amore per i giovani ed i giovani li ha amati… (ci ha amati n.d.r.); predicava il donarsi fino alla fine e fino all’ultimo istante si è donato senza risparmiarsi.
Hai avuto modo di incontrare personalmente Giovanni Paolo II? Cosa ricordi, quali sono state le tue emozioni?
Ho incontrato Giovanni Paolo II in occasione dell’ultimo concerto di Natale in Vaticano, nel 2004. Ho potuto vedere da vicino il volto della sofferenza e, nel suo volto, ho potuto intravvedere il volto di Gesù.
In poche parole gli dissi cosa stavo facendo e mi sono impegnato, in quell’occasione, a continuare anche nel futuro.
Raccontaci della tua partecipazione alle Giornate Mondiali della Gioventù? Quale è stata la tua prima? Quale quella che ti è rimasta più nel cuore?
Alla GMG per il Giubileo del 2000 arrivai soltanto all’ultimo minuto, poi partecipai a Colonia 2005 con Benedetto XVI. Toronto e Rio le ho seguite al servizio dei ragazzi coordinando i vari gruppi. Per Rio avevo anche un biglietto invito, ma nello stile di Papa Francesco ho preferito trasferirlo a chi aveva più merito di me di essere lì.
La GMG che mi è rimasta più nel cuore… sarà quella di Cracovia 2016.
È forse il relatore più laico che parteciperà al primo Meeting dei giornali cattolici on line che si terrà a Grottammare (AP) dal 12 al 14 giugno. Stiamo parlando di Daniele Bellasio, milanese, classe 1974. Dopo essersi laureato in giurisprudenza, ha lavorato per “Il Foglio”, per “Il Borghese”, per il gruppo Class ed è attualmente capo redattore dei commenti e social media editor de “Il Sole 24 ore”. Lo abbiamo abbiamo raggiunto e intervistato.
Lei che lavora per un giornale laico, non confessionale, che si occupa di economia, come ha accolto l’invito a partecipare al primo meeting di giornali che si richiamano espressamente alla visione cattolica? Con fiducia, che poi forse è la versione – lei direbbe – “laica” della fede. Mi sono detto: “Se mi chiamano, significa che ritengono che io possa essere utile. Se posso essere utile, ottimo, ci sarò!”. Ovviamente, come si dice nei profili di twitter, le mie opinioni sono soltanto le mie opinioni. Sinceramente, ho una naturale predisposizione alla curiosità. Il grande Maurizio Milani direbbe: “Sono un curioso fisso”. In questo caso, la curiosità è legata al tipo di dibattito che potrà essere fatto, ai tipi di dubbi e di idee che potranno essere sollevati e, perché no, al tipo di utilità che potrà essere riscontrata o no nel mio contributo.
Lei nel suo blog ha scritto: “Non posso più non dirmi cristiano e credo nel libero mercato e nella libera persona”. Cosa comporta l’essere cristiani in un ambiente di lavoro come il suo? Nel posto di lavoro, e in particolare in un posto di lavoro laico, autorevole e imparziale come il Sole 24 Ore, è bene essere soprattutto professionali. Cerco di fare al meglio il mio mestiere di giornalista. Sono profondamente convinto che essere un buon lavoratore, un buon professionista, tentare di essere un buon lavoratore, un buon professionista, sia un buon modo per essere e/o tentare di essere una brava persona. Io ci provo. Tutto qui. Ovviamente quella citazione vuole essere anche un mio particolare, piccolo e personale tributo a Benedetto Croce.
Lei ha accostato il suo richiamo alla fede cristiana ai temi del mercato e della persona. Qual è secondo il suo punto di vista il nesso fra queste tre realtà? Innanzitutto, vorrei dire che ho fatto quell’accostamento nella mia biografia per il blog che curo. Questa per me è una precisazione importante, perché, tra i compiti che svolgo, c’è anche quello di social media editor. Un blog è uno strumento “personale” di racconto e di esposizione, anche professionale, di idee, storie, notizie. La natura dello strumento “blog” implica la massima sincerità, per quanto lo si possa essere con e su se stessi, sulla descrizione della persona che lo cura. Non si può non dire chi si è, se si vuole avere un blog con un nome e cognome al fianco di un titolo.
La fede, il mercato e la persona sono tre realtà che hanno, ai miei occhi, una splendida e feconda mamma: la libertà. E “una buona mamma non solo accompagna i figli nella crescita, non evitando i problemi, le sfide della vita. Una buona mamma aiuta anche a prendere le decisioni definitive con libertà”. E’ un insegnamento che vale anche per i laici, anche se è di Papa Francesco.
Quale pensa sarà il suo maggior contributo al primo meeting dei giornali cattolici on line? Raccontare la mia esperienza. Nel mondo cosiddetto “on line”, una prateria, una frontiera davanti a noi, è bene soprattutto partire dall’esperienza e condividere le esperienze. Un po’ come nella nostra vita quotidiana, no?
ROMA – Il primo meeting dei giornali cattolici on line si terrà dal 12 al 14 giugno a Grottammare. Per la prima volta le più importanti realtà cattoliche presenti in rete si incontreranno per confrontarsi, scambiare esperienze e individuare strategie comuni.
L’incontro è aperto a tutte le realtà pagine, blog, siti, radio, tv, presenti in rete o diffuse in forma stampata o via etere. Per conoscere più nel dettaglio cosa accadrà durante il meeting, nelle prossime settimane intervisteremo giornalisti, direttori di testate ed altre persone che a vario titolo parteciperanno all’evento. Iniziamo con l’intervista ad Antonio Gaspari, direttore di Zenit, una delle principali realtà che collaborano per la realizzazione di questo importante evento.
Durante la presentazione del meeting, lei ha detto che questo evento è nato durante una passeggiata. Ci può spiegare meglio cosa intendeva?
Eravamo a San Benedetto del Tronto, insieme al capo redattore del giornale diocesano “L’Ancora”, Simone Incicco. Stavamo riflettendo sul perché Papa Francesco avesse così tanto successo dal punto di vista comunicativo. Discutevamo anche di come riuscire a fare comunicazione evitando la tentazione della cattive notizie, degli scandali, delle denuncie, degli attacchi e delle critiche. Ci siamo interrogati se e come era possibile fare un informazione basata sulle buone notizie. Come far crescere un giornalismo di inchiesta che raccontasse di grandi ideali, di storie eroiche, di larghi orizzonti…
Eravamo anche un po’ annoiati dei racconti di un cristianesimo, troppo intellettuale, con una impostazione moralistica e con poca carità. Abbiamo sentito il desiderio di raccontare dell’incontro delle persone con Cristo e dell’amicizia come dono di Dio. Ci siamo chiesti anche come fossero piccoli i nostri progetti di fronte ad una tecnologia telematica che sta assumendo dimensioni galattiche. Abbiamo sentito la necessità di sfidarci e di chiamare a raccolta tutti gli amici che lavorano nella comunicazione, per discutere come favorire e diffondere la cultura dell’incontro proposta da Papa Francesco. Così abbiamo pensato ad un meeting nazionale, invitando però anche ospiti internazionali.
Lei è stato l’ideatore del titolo della prima edizione del meeting “Pellegrini nel cyberspazio”. Cosa l’ha spinta a formulare proprio questo titolo?
Coscienti o no, ogni persona compie una cammino terreno con grandi aspirazioni nel cuore. È vero che ognuno cerca l’infinito. In questo cammino siamo tutti pellegrini che cercano amore, felicità, gioia, senso, amicizia, famiglia, conoscenza, fratellanza, condivisione, buon vivere. Il cyberspazio è la dimensione più vicina ad una forma di comunicazione che non si ferma al sistema solare, ma che ha le potenzialità per comunicare con l’intera galassia. In questo pellegrinaggio ci siamo tutti credenti e non. Mi è sembrata l’immagine più consona all’idea di meeting che avevamo pensato.
Lei fa parte della squadra di Zenit da quando è nata, prima come inviato e poi come direttore editoriale. Alla luce della sua esperienza, quali sono i limiti e le risorse della stampa cattolica?
Le risorse sono enormi, direi senza limite. ZENIT è nata 16 anni fa, con un investimento di appena trentamila dollari. Si trattava di un’unica edizione in spagnolo spedita via mail a circa 400 utenti. Oggi usciamo ogni giorno in sette lingue (italiano, inglese, spagnolo, tedesco, francese, portoghese e arabo).
Pubblichiamo una media giornaliera tra le 75 e le 100 notizie via mail. Sono più di 500mila i sottoscrittori. Spediamo circa 16 milioni di mail al mese. Abbiamo un pubblico che frequenta la nostra pagina WEB (www.zenit.org) e le nostre pagine su Facebook e Twitter. Il venerdì santo della scorsa settimana le visualizzazioni sulle nostre pagine Facebook hanno superato i tre milioni di utenti.
Non sono molto bravo nelle critiche. Se devo pensare ai limiti della stampa cattolica, posso dire che a volte sembra che manchi il coraggio e la convinzione delle grandi visioni. Pur essendo più ardimentosa della stampa che gioca sulla cronaca nera e sugli scandali, l’editoria cattolica dovrebbe osare di più.
La stampa cattolica è più facilmente diffusa fra gli adulti rispetto alle generazioni più giovani. Cosa si può fare secondo lei per raggiungere anche questa importante fascia d’età?
La prima cosa da fare è offrire ai giovani la possibilità di entrare in redazione per raccontare e scrivere delle aspirazioni della nuova generazione. Nella redazione di ZENIT ci sono giovani liceali e universitari ai primi anni che scrivono articoli, fanno interviste, recensiscono libri, film, mostre, concerti.
Non è giusto che persone adulte continuino a scrivere cosa dovrebbero fare i giovani. Va bene proteggerli e sostenerli nella crescita, ma bisogna incoraggiarli e cercare di alimentare in grande libertà la loro sete del vero del buono e del bello.
Nella redazione di ZENIT abbiamo chiesto ai giovani di scrivere e raccontare della loro generazione. Li abbiamo aiutati con amicizia, facendoli sentire parte della compagnia della buona notizia. La collaborazione con i colleghi più esperti li sta facendo crescere spingendoli a volare sempre più in alto.
La tecnologia telematica ci sta aiutando, perché analizzando il pubblico che frequenta le pagine di Facebook per esempio, abbiamo constatato che l’età di chi segue e interviene di più va dai sedici fino ai 32 anni.
ROMA – A margine della presentazione del libro “Le chiese stazionali di Roma. Un itinerario quaresimale” scritto dall’ambasciatrice Hanna Suchocka abbiamo avvicinato Sua Eminenza il Card. Giovanni Battista Re che ha gentilmente risposto a qualche nostra domanda. L’alto prelato è nato a Borno nel 1934. Dal 2000 al 2010 è stato Prefetto della Congregazione per i Vescovi, l’organo della curia romana che si occupa in primo luogo dell’elezione dei nuovi vescovi.
Lei è stato uno dei più stretti collaboratori di Giovanni Paolo II. Con quali parole descriverebbe Karol Woytjla?
Giovanni Paolo II è stato grande sotto ogni aspetto: come uomo, come papa e come santo. Ed è stato grande anche come come amico: veramente voleva bene ai suoi collaboratori e quindi ha sempre avuto grande attenzione per noi. Certo è un Papa che è rimasto nel cuore della gente. Era un mistico, un uomo di grande spiritualità e al medesimo tempo molto attento alle persone e alle situazioni tanto concrete. Questo suo modo di essere ha influito sulla storia. Tutto ciò che ha caratterizzato il suo pontificato è stato ispirato da motivazioni profondamente religiose: egli desiderava far riavvicinare gli uomini a Dio e ridare a Dio la cittadinanza in un mondo che non poche volte lo aveva dimenticato.
Poiché il decano e il vice decano del collegio cardinalizio avevano raggiunto gli 80 anni, lei ha svolto, a norma del diritto canonico, le funzioni del decano, essendo per anzianità il primo dei cardinali vescovi. Quali sono i sentimenti di un cardinale di Santa Romana Chiesa che entra nella Sistina per eleggere il successore di Pietro? Ho partecipato al conclave del marzo 2013 con altri 115 cardinali. Ho sentito molto la responsabilità di fronte a Dio di collaborare con lui per trovare il Papa che andava bene per il nostro tempo. È stato trovato un Papa che va proprio bene per questo tempo: un Papa caratterizzato da grande umanità, ma anche da grande spiritualità, semplicità, sobrietà e direi un Papa che corrisponde alle attese di questo momento difficile della storia del mondo.
Quale aspetto di Papa Francesco la colpisce maggiormente? L’aspetto che si nota di più in lui – e che ha suscitato anche tanto simpatia – è il fatto di essere molto vicino alla gente. Questo Papa ha voluto abolire le distanze ed è molto vicino alla persone, cerca di avvicinarsi ad esse: basta vederlo nelle udienze generali, quando si fa prossimo ai fedeli in Piazza San Pietro abbracciandoli, baciandoli ed accarezzandoli.
La Chiesa si sta preparando a vivere in ottobre il sinodo per la famiglia. Se ne parla molto anche sui media, spesso con grande approssimazione. Come vede questo evento un uomo di Chiesa come lei? L a famiglia e la spiritualità familiare sono peculiari per il futuro del mondo. Per cui è encomiabile l’attenzione del Papa verso le famiglie. È bene che prima di tutto ci si prepari bene alla vita familiare e cioè è necessario aiutare i fidanzati a prepararsi al matrimonio, alla spiritualità del matrimonio e della famiglia, poiché è all’interno della famiglia che avviene la trasmissione della fede. È importante quindi che il Papa abbia messo al centro del prossimo sinodo il tema della famiglia, perché oggi essa è minacciata e ha bisogno di essere difesa secondo il piano di Dio.
ROMA – Si è svolta lunedì 24 marzo alle ore 17.30 presso l’Istituto Patristico Augustinianum la presentazione del volume “Le chiese stazionali di Roma. Un itinerario quaresimale” scritto dal già primo ministro polacco e attuale ambasciatrice Hanna Suchocka, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana. All’incontro, moderato da don Giuseppe Merola, redattore dell’ufficio editoriale LEV, hanno preso parte, oltre all’autrice, varie ed illustri personalità.
Il cardinale Giovanni Battista Re, ha esordito ricordando il carattere straordinario di Roma, unica al mondo per la sua storia, per il suo respiro universale, per essere il centro del cristianesimo e per le sue incomparabili chiese, luoghi prima di tutto di preghiera e di spiritualità, ma anche veri e propri musei che contengono capolavori artistici inestimabili. Per conoscere bene Roma bisogna conoscere anche queste 44 chiese dell’itinerario quaresimale.
Il porporato si è soffermato sul carattere spirituale del percorso proposto dal libro, apprezzando l’intento dell’autrice di rivivere l’esperienza che tanti cristiani hanno vissuto nel corso dei secoli. Il libro è una sorta di diario dei sentimenti vissuti ogni mattina, sostando in queste chiese.
Secondo l’alto prealato, oggi il passaggio dal carnevale alla quaresima è sul calendario, ma non incide realmente nella vita quotidiana, non ha riflesso sul tessuto sociale. Invece nel passato non è stato così.
Infatti il tempo di quaresima è nato già nel II secolo in oriente e si è affermato a Roma a partire dal 313. Alla fine del IV secolo notiamo una precisa organizzazione del tempo quaresimale. Originariamente era un ritrovarsi per ascoltare le parole del Papa.
È stato Gregorio Magno a sistemare le stazioni quaresimali così come oggi le conosciamo. Questa pratica è durata fino al XIV secolo, quando la sede papale si trasferì ad Avignone. Nel XVI secolo San Filippo Neri cercò di riportarla in auge, limitandone le visite alle 7 chiese più importanti.
Ha preso poi la parola Alfons M. Kloss, ambasciatore d’Austria presso la Santa Sede, evidenziando il taglio non accademico del libro. In esso vi si trovano la fede, la storia e l’arte con l’intento di volersi avvicinare all’essenza della nostra fede, all’esperienza dei primi martiri, e riscoprire così il senso profondo della quaresima.
L’ambasiatore si è soffermato sulla propria esperienza, raccontando di come egli viva il Mercoledì delle Ceneri a Santa Sabina, prima stazione quaresimale, e di come questa chiesa gli ricordi, per la presenza dei domenicani, la chiesa frequentata a Vienna. L’austerità della basilica lo introduce nel clima della quaresima.
Il prof. Stanislaw Grygiel, ordinario di Antropologia filosofica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo, ha fatto parte del gruppo composto da docenti, membri del corpo diplomatico e amici che hanno compiuto il pellegrinaggio insieme all’autrice. Tutti questi pellegrini chiedevano a Dio di illuminare il proprio lavoro per il bene comune.
Il docente, citando le parole di Goethe, ha ricordato come l’Europa sia nata dal pellegrinaggio. Pellegrinare attraverso le tappe delle stazioni quaresimali, vuol dire andare in cerca di una sorgente secondo le parole di Giovanni Paolo II nel Trittico Romano: “Sorgente dove sei? Dove sei sorgente?”.
Ed una volta trovata la sorgente è necessario inginocchiarsi per attingere ad essa. Chi non si sa inginocchiare alla sorgente finisce per turbare le acque. Nell’atto del pellegrinaggio continua a nascere l’Europa. Possiamo quindi domandarci: “L’Europa staccata dalla Chiesa, sarà ancora Europa?
Il prof. Marek Inglot SJ, docente presso la Facoltà di Storia e Beni culturali della Chiesa presso la Pontificia Università Gregoriana, ha notato come il testo della Suchocka non sia solo un libro per essere letto, ma che invita ad intraprendere il cammino verso le stazioni quaresimali. Esso inoltre spinge il lettore ad interrogarsi sulla propria fedeltà a quanto hanno vissuto i primi cristiani.
Il docente ha sottolineato, seguendo il pensiero di Giovanni Paolo II rivolto alla Terra Santa, che già solo andare con la mente in questi luoghi, significa ripercorrere i passi del Verbo Incarnato, e mettersi sulle strade di un Dio che ci ha preceduto in questo viaggio.
Infine il religioso ha riscontrato una naturale simpatia dell’autrice verso i segni polacchi presenti a Roma. Ma anche verso i gesuiti. Quest’ultima “simpatia” ha suscitato in sala un sorriso… Essendo il relatore un gesuita! Ma padre Inglot ha specificato di riferirsi ai gesuiti della prima ora, a Sant’Ignazio e ai suoi compagni. Infatti l’autrice nel libro ricorda come a San Paolo Fuori le Mura, il 22 aprile 1541 Sant’Ignazio e i suoi fecero i voti solenni. E ancora come a San Lorenzo in Damaso fu presente San Francesco Saverio.