Nicola Rosetti
Portandoci ora nel transetto destro possiamo ammirare la sontuosa tomba di San Luigi Gonzaga. Quattro colonne tortili ornate da viticci, due a destra e due a sinistra, incorniciano la pala marmorea, opera di Pierre Le Gros, raffigurante il Santo portato in gloria da una moltitudine di angeli. Sotto l’altare si conserva la preziosa tomba di Luigi in oro e lapislazzuli, vegliata da due angeli che hanno in mano dei flagelli, simbolo delle mortificazioni alle quali il Gonzaga si sottoponeva. Si accede all’altare dopo aver varcato una balaustra sopra alla quale sono posizionati due angeli, opera del Ludovisi, che portano in mano dei gigli, simbolo della purezza di San Luigi. La realizzazione dell’intera opera si deve alla generosità del principe Scipione Lancellotti, il cui simbolo ricorre due volte sui basamenti delle colonne.
Sul lato opposto possiamo ammirare un’altra meravigliosa opera, realizzata sempre su disegno di Andrea Pozzo. La pala marmorea, opera di Filippo Valle, rappresenta l’annunciazione. L’Eterno Padre manda la colomba dello Spirito Santo sulla Vergine Maria dopo che questa ha detto il suo “Sì”. Gli angeli sulla balaustra sono opera di Pietro Bracci.
Se ora ci portiamo nuovamente nella navata centrale, possiamo ammirare i dipinti dell’abside. Nella calotta absidale possiamo vedere Sant’Ignazio librarsi mentre con sguardo compassionevole guarda alle umane miserie. Poco sotto a questo dipinto, vediamo un clipeo con la scritta “Ego Romae propitius ero” (=Io a Roma vi sarò propizio). Tale iscrizione si riferisce alla scena sottostante che rappresenta la visione de “La Storta”.
Racconta Ignazio nella sua Autobiografia che, trovandosi in una località a nord-est di Roma, La Storta appunto, Dio Padre gli fece intuire di averlo posto accanto a suo Figlio Gesù nell’opera di evangelizzazione e che a Roma sarebbe stato approvato l’ordine religioso che aveva fondato.
Sulla sinistra invece viene rappresentato Sant’Ignazio che manda Francesco Saverio in missione in Oriente, mentre a destra vediamo l’ingresso di San Francesco Borgia nella Compagnia di Gesù della quale diventerà terzo preposito generale dopo Ignazio e Diego Laìnez.
Se invece volgiamo lo sguardo sulla volta, possiamo vedere Ignazio che viene ferito da una palla di cannone durante l’assedio di Pamplona del 20 maggio 1521. Ignazio vede nel cielo San Pietro, vestito di giallo e di blu, con le chiavi del paradiso in mano: grazie alla sua intercessione guarirà il 29 giugno di quello stesso anno, abbandonerà le armi e diventerà un soldato di Cristo.
Spostiamoci ora nella cappella che si trova alla sinistra dell’altare. Vi troviamo il monumento funebre di Gregorio XV, ex studente del Collegio Romano e zio del Cardinale Ludovico Ludovisi, grazie al quale si deve la realizzazione di questa Chiesa. Anche il cardinale Ludovisi riposa qui. La sontuosa tomba è svelata da due angeli musicanti che lasciano vedere il Papa seduto sul trono in atto benedicente. L’imponente monumento, di scuola berniniana, si deve agli scultori Le Gros e Monnnot.
Camillo Rusconi ha realizzato in stucco le quattro virtù cardinali rappresentate da altrettante figure femminili presenti nelle nicchie. La Prudenza, che con uno specchio si guarda alle spalle, regge un serpente, che richiama il passo del Vangelo di Matteo dove l’evangelista scrive : “Siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe (cfr Mt 16,16). La Temperanza sta mescolando l’acqua col vino. La Fortezza è rappresentata da una donna che ha uno scudo e una lancia e ai suoi piedi un leone. Infine la Giustizia è raffigurata come una donna che regge in mano una bilancia e ha ai suoi piedi un puttino che regge in mano un fascio littorio, simbolo che precedeva i magistrati nell’antica Roma.
Altre opere di Camillo Rusconi si possono ammirare nella cappella a destra dell’altare. Qui possiamo vedere una statua in gesso di Sant’Ignazio di Loyola che doveva fungere da modello per quella marmorea che ora si trova nella navata centrale della basilica di San Pietro. Possiamo inoltre vedere le virtù teologali nelle nicchie. La Speranza con l’ancora ai piedi, la Carità che allatta molti figli, la Fede col calice e la Religione con le tavole della legge, la bibbia e le chiavi del paradiso.
Ci si può domandare come mai siano state realizzate queste imponenti statue delle virtù e la risposta potrebbe essere abbastanza semplice. Uno dei compiti principali di un gesuita è quello di praticare la direzione spirituale invogliando il fedele ad essere virtuoso nella sua vita.
Portandoci ora nel transetto destro possiamo ammirare la sontuosa tomba di San Luigi Gonzaga. Quattro colonne tortili ornate da viticci, due a destra e due a sinistra, incorniciano la pala marmorea, opera di Pierre Le Gros, raffigurante il Santo portato in gloria da una moltitudine di angeli. Sotto l’altare si conserva la preziosa tomba di Luigi in oro e lapislazzuli, vegliata da due angeli che hanno in mano dei flagelli, simbolo delle mortificazioni alle quali il Gonzaga si sottoponeva. Si accede all’altare dopo aver varcato una balaustra sopra alla quale sono posizionati due angeli, opera del Ludovisi, che portano in mano dei gigli, simbolo della purezza di San Luigi. La realizzazione dell’intera opera si deve alla generosità del principe Scipione Lancellotti, il cui simbolo ricorre due volte sui basamenti delle colonne.
Sul lato opposto possiamo ammirare un’altra meravigliosa opera, realizzata sempre su disegno di Andrea Pozzo. La pala marmorea, opera di Filippo Valle, rappresenta l’annunciazione. L’Eterno Padre manda la colomba dello Spirito Santo sulla Vergine Maria dopo che questa ha detto il suo “Sì”. Gli angeli sulla balaustra sono opera di Pietro Bracci.
Se ora ci portiamo nuovamente nella navata centrale, possiamo ammirare i dipinti dell’abside. Nella calotta absidale possiamo vedere Sant’Ignazio librarsi mentre con sguardo compassionevole guarda alle umane miserie. Poco sotto a questo dipinto, vediamo un clipeo con la scritta “Ego Romae propitius ero” (=Io a Roma vi sarò propizio). Tale iscrizione si riferisce alla scena sottostante che rappresenta la visione de “La Storta”.
Racconta Ignazio nella sua Autobiografia che, trovandosi in una località a nord-est di Roma, La Storta appunto, Dio Padre gli fece intuire di averlo posto accanto a suo Figlio Gesù nell’opera di evangelizzazione e che a Roma sarebbe stato approvato l’ordine religioso che aveva fondato.
Sulla sinistra invece viene rappresentato Sant’Ignazio che manda Francesco Saverio in missione in Oriente, mentre a destra vediamo l’ingresso di San Francesco Borgia nella Compagnia di Gesù della quale diventerà terzo preposito generale dopo Ignazio e Diego Laìnez.
Se invece volgiamo lo sguardo sulla volta, possiamo vedere Ignazio che viene ferito da una palla di cannone durante l’assedio di Pamplona del 20 maggio 1521. Ignazio vede nel cielo San Pietro, vestito di giallo e di blu, con le chiavi del paradiso in mano: grazie alla sua intercessione guarirà il 29 giugno di quello stesso anno, abbandonerà le armi e diventerà un soldato di Cristo.
Spostiamoci ora nella cappella che si trova alla sinistra dell’altare. Vi troviamo il monumento funebre di Gregorio XV, ex studente del Collegio Romano e zio del Cardinale Ludovico Ludovisi, grazie al quale si deve la realizzazione di questa Chiesa. Anche il cardinale Ludovisi riposa qui. La sontuosa tomba è svelata da due angeli musicanti che lasciano vedere il Papa seduto sul trono in atto benedicente. L’imponente monumento, di scuola berniniana, si deve agli scultori Le Gros e Monnnot.
Camillo Rusconi ha realizzato in stucco le quattro virtù cardinali rappresentate da altrettante figure femminili presenti nelle nicchie. La Prudenza, che con uno specchio si guarda alle spalle, regge un serpente, che richiama il passo del Vangelo di Matteo dove l’evangelista scrive : “Siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe (cfr Mt 16,16). La Temperanza sta mescolando l’acqua col vino. La Fortezza è rappresentata da una donna che ha uno scudo e una lancia e ai suoi piedi un leone. Infine la Giustizia è raffigurata come una donna che regge in mano una bilancia e ha ai suoi piedi un puttino che regge in mano un fascio littorio, simbolo che precedeva i magistrati nell’antica Roma.
Altre opere di Camillo Rusconi si possono ammirare nella cappella a destra dell’altare. Qui possiamo vedere una statua in gesso di Sant’Ignazio di Loyola che doveva fungere da modello per quella marmorea che ora si trova nella navata centrale della basilica di San Pietro. Possiamo inoltre vedere le virtù teologali nelle nicchie. La Speranza con l’ancora ai piedi, la Carità che allatta molti figli, la Fede col calice e la Religione con le tavole della legge, la bibbia e le chiavi del paradiso.
Ci si può domandare come mai siano state realizzate queste imponenti statue delle virtù e la risposta potrebbe essere abbastanza semplice. Uno dei compiti principali di un gesuita è quello di praticare la direzione spirituale invogliando il fedele ad essere virtuoso nella sua vita.
Il viaggio apostolico di Papa Benedetto XVI nel Regno Unito che si svolse nel settembre 2010 fu preceduto da non poche polemiche, sia nelle piazze che sui media. Per quanto possa essere paradossale, in una cultura che si vanta delle proprie aperture, sembrava non esserci spazio per il capo della Chiesa Cattolica.
In questo contesto, Austen Ivereigh e Jack Valero, due cattolici che operano nel mondo della comunicazione, non si persero d’animo, raggrupparono una trentina di “ordinary catholics”, che in 6 mesi di Media Training trasformarono in capaci comunicatori della propria fede sui temi più scottanti dell’attualità. Fu un successo: le “voci cattoliche”, formate per trasmettere nel modo più efficace il messaggio cristiano attraverso i media, diedero oltre 100 interviste radio/tv, contribuendo a migliorare in modo significativo l’immagine della Chiesa nel Regno Unito.
Nasceva così Catholic Voices che nel corso di questi quattro anni si è estesa in ben 15 paesi. Fra questi, da poco, c’è anche l’Italia. Per conoscere meglio questa realtà abbiamo intervistato Martina Pastorelli, fondatrice di Catholic Voices Italia e curatrice del libro che ne spiega il metodo, intitolato “Come difendere la fede senza alzare la voce” (ed. Lindau).
Perché Catholic Voices Italia?
Tutto nasce da un’esperienza molto personale. Sposata con un non credente e circondata da amici di impronta liberal, mi sono trovata sempre più spesso chiamata in causa per la mia fede, quasi a dover “giustificare” certe posizioni della Chiesa. All’inizio erano confronti animati, da cui uscivo scoraggiata e sentendomi non capita, poi un bel giorno la reazione cambia e mi sento dire: “E’ così che quelli come voi riusciranno a portare dalla vostra parte, su certi temi, quelli come noi”. Cos’era successo? Che nel frattempo mi ero imbattuta in Catholic Voices e ne avevo applicato il metodo, che spiega come il linguaggio e il modo con cui ci si pone facciano la differenza. Si tratti della pausa caffè al bar coi colleghi piuttosto che di un dibattito pubblico, il cattolico del gruppo finisce spesso per dover rendere conto della propria fede. Ecco, in queste circostanze, sapere argomentare il maniera umana, chiara e pacata è essenziale. Papa Francesco, tra l’altro, ce lo dimostra ogni giorno.
Qual è il punto di forza del metodo di Catholic Voices?
Il metodo, chiamato reframing, insegna a individuare in ogni critica mossa alla Chiesa, anche la più ostile, un’intenzione positiva, un valore che è quasi sempre (anche se inconsciamente) cristiano e parte da questo terreno comune per riformulare l’argomento e far riflettere sulla posta in gioco. E’ un metodo che permette di uscire dalla logica del conflitto, a mettere da parte aggressività e vittimismi, a fare appello alla ragione, al buon senso. A entrare in un rapporto prima di tutto umano con l’altro. Crea empatia, che è il presupposto di ogni dialogo.
Possiamo dire che il progetto di Catholic Voices porta avanti una nuova forma apologetica?
Sì, una nuova apologetica, che sa parlare alla società di oggi, anche attraverso i suoi mezzi di comunicazione, così centrali. Si tratta di equipaggiare i cattolici, aiutarli a spiegare nel modo più efficace i valori in cui crediamo e l’impegno autentico della Chiesa per il bene comune. L’obiettivo è riuscire a dialogare con tutti, credenti e non, sui temi che toccano l’intera società, proprio perché è in gioco il bene della società stessa. In questo raccogliamo l’invito di Papa Francesco che ha chiamato i cristiani “a dialogare con quelli che non la pensano come noi, con quelli che hanno un’altra fede o che non hanno fede”. Il Papa ci ha ricordato che possiamo andare incontro a tutti senza paura e senza rinunciare alla nostra appartenenza.
Quali iniziative concrete sta portando avanti Catholic Voice in Italia?
Catholic Voices si articola in corsi di media training per quanti intervengono nel dibattito pubblico (il primo partirà a Roma tra pochi giorni) ma si rivolge anche a un pubblico più vasto con il libro “Come difendere la fede senza alzare la voce”, che applica il metodo del reframing ai temi più controversi e suggerisce i punti chiave da mettere in evidenza per spiegare la posizione della Chiesa, riuscire a vincere i pregiudizi e riavviare il dialogo con umanità e buon senso.
Qual è il rapporto di Catholic Voices con la gerarchia cattolica?
Catholic Voices non parla ufficialmente a nome della Chiesa ma ne ha la benedizione e ne rispetta in toto la leadership e la dottrina. In tutto il mondo ha ricevuto ampi consensi tra i vescovi e i massimi esponenti della Chiesa: penso ad esempio al Cardinale e Arcivescovo di New York, Dolan, grande fan del progetto o all’Arcivescovo di Westminster Nichols, che ha definito “cruciale” il tentativo di CV di mettere insieme fede e ragione nel dibattito pubblico.
La Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola fu costruita per essere la cappella del Collegio Romano, prima scuola gratuita del mondo fondata da Sant’Ignazio nel 1551. La parte architettonica è del gesuita Orazio Grassi, mentre quella decorativa è del gesuita Andrea Pozzo.
Come leggiamo nella trabeazione della facciata, il tempio è dedicato a Sant’Ignazio, fondatore della Compagnia di Gesù, per opera del Card. Ludovico Ludovisi che lo realizzò nel 1626 (S. Ignatio Soc. Iesu Fundatori Lud. Card. Ludovisius S.R.E. Vicecancellar. D.O.M. MDCXXVI).
Entrando dentro, vediamo che la chiesa è croce latina, con un’unica navata centrale e sei cappelle laterali (tre a destra e tre a sinistra) fra loro comunicanti.
Volgiamo ora lo sguardo sul dipinto che fa bella mostra di sé sulla volta della chiesa. Rappresenta la gloria dell’ordine dei gesuiti. Bisogna iniziare a leggere l’opera a partire dal crocifero avvolto in un panno bianco, colore della gloria e della resurrezione.
Dal fianco di Cristo fuoriesce un raggio che va a colpire Sant’Ignazio e da questi si dipana verso i quattro continenti allora conosciuti e raggiunti dall’opera evangelizzatrice dei figli spirituali di Ignazio.
Fra Ignazio e l’Europa notiamo una nuvola sulla quale possiamo scorgere i Santi Luigi Gonzaga (in talare e cotta mentre regge un giglio, simbolo di purezza) e Stanislao Kostka (in abiti liturgici). Invece fra Ignazio e l’Asia vediamo San Francesco Saverio, uno dei primi compagni di Ignazio e grande evangelizzatore dell’estremo oriente.
I quattro continenti sono rappresentati da altrettante figure muliebri con degli elementi caratteristici: l’Europa è raffigurata come una anziana signora (il vecchio continente), l’Asia come una donna che cavalca un cammello, l’Africa come una donna di colore che regge in mano un corno e infine l’America come un’indigena con in mano una lancia. Tutte queste figure femminili sono rappresentate come vincitrici sulle eresie e sul paganesimo.
Alcuni angeli reggono due scudi sui quali è riportato il passo del vangelo di Luca che dice: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra/e come vorrei che fosse già acceso” (ignem veni mittere in terra/et quid volo nisi accendatur. Cfr. Lc 12,42).
Possiamo notare, sparsi qua e là, una serie di angeli con delle fiaccole che stanno incendiando lil mondo con il fuoco della carità. Infine, non può sfuggire l’assonanza fra la parola “fuoco”, in latino “ignis”, e il nome del fondatore dei gesuiti.
Prima di proseguire la nostra visita, sul pavimento della navata centrale troveremo un disco giallo, ponendoci sopra il quale possiamo avere la visione perfetta della finta cupola, opera di Andrea Pozzo. Non era possibile costruire una cupola vera e così il gesuita, esperto di ottica, si ingegnò per dare a suo modo una cupola alla chiesa! Nei pennacchi possiamo vedere Giuditta, Davide, Sansone e Giaele.
Spostandoci ora nella seconda cappella che troviamo alla nostra destra, possiamo osservare il corpo di San Roberto Bellarmino, personaggio di primaria importanza nel contesto della Riforma Cattolica e docente presso il Collegio Romano fra il 1576 e il 1587. Fra i suoi alunni ci fu San Luigi Gonzaga, che proprio in questi spazi, dove prima c’era l’infermeria del Collegio Romano, rese l’anima a Dio, dopo aver contratto la peste nell’aiutare i malati.
La Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola fu costruita per essere la cappella del Collegio Romano, prima scuola gratuita del mondo fondata da Sant’Ignazio nel 1551. La parte architettonica è del gesuita Orazio Grassi, mentre quella decorativa è del gesuita Andrea Pozzo.
Come leggiamo nella trabeazione della facciata, il tempio è dedicato a Sant’Ignazio, fondatore della Compagnia di Gesù, per opera del Card. Ludovico Ludovisi che lo realizzò nel 1626 (S. Ignatio Soc. Iesu Fundatori Lud. Card. Ludovisius S.R.E. Vicecancellar. D.O.M. MDCXXVI).
Entrando dentro, vediamo che la chiesa è croce latina, con un’unica navata centrale e sei cappelle laterali (tre a destra e tre a sinistra) fra loro comunicanti.
Volgiamo ora lo sguardo sul dipinto che fa bella mostra di sé sulla volta della chiesa. Rappresenta la gloria dell’ordine dei gesuiti. Bisogna iniziare a leggere l’opera a partire dal crocifero avvolto in un panno bianco, colore della gloria e della resurrezione.
Dal fianco di Cristo fuoriesce un raggio che va a colpire Sant’Ignazio e da questi si dipana verso i quattro continenti allora conosciuti e raggiunti dall’opera evangelizzatrice dei figli spirituali di Ignazio.
Fra Ignazio e l’Europa notiamo una nuvola sulla quale possiamo scorgere i Santi Luigi Gonzaga (in talare e cotta mentre regge un giglio, simbolo di purezza) e Stanislao Kostka (in abiti liturgici). Invece fra Ignazio e l’Asia vediamo San Francesco Saverio, uno dei primi compagni di Ignazio e grande evangelizzatore dell’estremo oriente.
I quattro continenti sono rappresentati da altrettante figure muliebri con degli elementi caratteristici: l’Europa è raffigurata come una anziana signora (il vecchio continente), l’Asia come una donna che cavalca un cammello, l’Africa come una donna di colore che regge in mano un corno e infine l’America come un’indigena con in mano una lancia. Tutte queste figure femminili sono rappresentate come vincitrici sulle eresie e sul paganesimo.
Alcuni angeli reggono due scudi sui quali è riportato il passo del vangelo di Luca che dice: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra/e come vorrei che fosse già acceso” (ignem veni mittere in terra/et quid volo nisi accendatur. Cfr. Lc 12,42).
Possiamo notare, sparsi qua e là, una serie di angeli con delle fiaccole che stanno incendiando lil mondo con il fuoco della carità. Infine, non può sfuggire l’assonanza fra la parola “fuoco”, in latino “ignis”, e il nome del fondatore dei gesuiti.
Prima di proseguire la nostra visita, sul pavimento della navata centrale troveremo un disco giallo, ponendoci sopra il quale possiamo avere la visione perfetta della finta cupola, opera di Andrea Pozzo. Non era possibile costruire una cupola vera e così il gesuita, esperto di ottica, si ingegnò per dare a suo modo una cupola alla chiesa! Nei pennacchi possiamo vedere Giuditta, Davide, Sansone e Giaele.
Spostandoci ora nella seconda cappella che troviamo alla nostra destra, possiamo osservare il corpo di San Roberto Bellarmino, personaggio di primaria importanza nel contesto della Riforma Cattolica e docente presso il Collegio Romano fra il 1576 e il 1587. Fra i suoi alunni ci fu San Luigi Gonzaga, che proprio in questi spazi, dove prima c’era l’infermeria del Collegio Romano, rese l’anima a Dio, dopo aver contratto la peste nell’aiutare i malati.
CENTOBUCHI – Padre Ruberval Monteiro, monaco benedettino, è l’autore di un bel dipinto che abbellisce una cappella della parrocchia “Regina Pacis” di Centobuchi del quale vorremmo dare una lettura teologica.
L’opera si compone di due parti: in basso, nella zona dove è posto il tabernacolo, vediamo la scena dell’Annunciazione, mentre in alto possiamo ammirare un dipinto dell’Ultima Cena, affiancato dalla rappresentazione del peccato originale.
Partiamo dall’Annunciazione. Sulla sinistra vediamo l’angelo Gabriele, vestito di bianco e con le ali variopinte. Sulla sinistra la Vergine Maria, vestita di rosso e di blu, sta filando. I due sono separati da un clipeo, all’interno del quale si trova il tabernacolo vero e proprio, sormontato dalla colomba, segno dello Spirito Santo.
Il vangelo canonico di Luca non ci dice cosa stesse facendo la Madonna quando le apparve l’angelo. A questa curiosità, che i primi cristiani avranno sicuramente avuto, risponde l’apocrifo Protovangelo di Giacomo: Maria sta tessendo, per volontà del Sommo Sacerdote, il velo del Tempio, quel velo che si squarcerà in due alla morte di Gesù (cfr. Mc 15,38; Mt 27,51 e Lc 23,45) e che per l’autore della Lettera agli Ebrei è la carne stessa di Cristo (cfr. Eb 10,20).
Ci si potrebbe domandare come mai sia stata scelta la scena dell’Annunciazione per adornare il tabernacolo. A primo acchito fra l’Annunciazione e l’Eucaristia sembra non esserci nessun collegamento. A una lettura più approfondita però, possiamo notare che, come nell’Annunciazione il Verbo (= Parola) di Dio, per la potenza dello Spirito Santo, si è unito alla natura umana, dando luogo al Mistero dell’Incarnazione, così, durante la consacrazione, sempre per mezzo dello Spirito Santo, le parole del sacerdote raggiungono il pane e lo fanno diventare Corpo di Cristo, rendendo nuovamente presente il Figlio di Dio in mezzo agli uomini, come lo fu nel grembo della Vergine Maria dopo il suo “Sì”.
Tanto in Maria, quanto durante la messa, la dinamica parola-materia rende presente il Figlio di Dio in mezzo a noi secondo l’insegnamento di Sant’Agostino: Accedit verbum ad elementum, et fit sacramentum (=Il verbo accede alla cosa e la fa diventare sacramento).
Spostiamo ora la nostra attenzione sulla parte superiore del dipinto. A sinistra notiamo Adamo ed Eva che coprono le loro nudità, dopo aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Essi sono stati ingannati dal serpente, che possiamo vedere mentre si avvolge attorno all’albero. Se ci facciamo caso, accanto all’albero della conoscenza del bene e del male c’é quello della vita. È proprio da quest’ultimo che Cristo prende l’ostia da dare in cibo agli apostoli.
Il significato teologico è molto denso: come a causa del cibo (il frutto proibito) sono entrati nel mondo il peccato e la morte, così per mezzo di un altro cibo (l’Eucaristia) l’uomo ha riacquistato la vita e la grazia (cfr. Gregorio di Nissa, La grande catechesi 37,2-3).
ROMA – Si è svolta martedì 30 settembre alle ore 17.30 presso la Sala Maggiore dell’Istituto Patristico Augustinianum la presentazione del volume “Atlante storico della carità”, opera di Juan María Laboa. Il libro è edito dalla Libreria Editrice Vaticana In collaborazione con la Jaca Book. L’incontro è stato moderato dal direttore della Lev don Giuseppe Costa.
Sante Bagnoli, editore della Jaca Book, ha sottolineato come il volume possa essere considerato allo stesso tempo un frutto e un seme: frutto perché è il risultato di un lungo interesse dell’autore verso il tema della carità, seme perché si tratta di un’opera quasi unica nel suo genere e che si spera possa costituire un modello per la successiva storiografia cattolica.
Secondo Bagnoli, vedere la storia della carità è entrare nella antropologia cristiana. Non si tratta solo di una lettura di esperienze: avvicinandoci ai santi che si sono dedicati ai più bisognosi, veniamo a conoscere un pensiero, una visione non meno importanti di quelle teologiche.
L’editore della Jaca Book ha poi evidenziato come il presente volume, a differenza di uno precedente dell’autore sullo stesso tema, sia ampiamente corredato da immagini, rendendolo anche più economico: le spese per la traduzione di un coffee book sono infatti minori rispetto a quelle per un libro di solo testo. Si può avere dunque in mano un volume pregevole ad un costo contenuto.
Ha preso poi la parola Sua Eccellenza Francesco Montenegro, Arcivescovo di Agrigento e Presidente della Commisione Episcopale della Cei per le migrazioni e già Presidente della Caritas Italiana fino al 2008.
Il prelato, prendendo spunto dal passo giovanneo nel quale si afferma che solo chi ama conosce Dio, ha messo in luce come il libro ripercorra la storia di chi si è messo alla sequela di quel Dio che che nel Nuovo Testamento si rivela come Carità. Come suggerito dal titolo, il volume descrive la storia e la geografia della carità, mostrando che, nonostante tutti i peccati le contraddizioni, c’è un filo rosso che tiene unita la bimillenaria storia della Chiesa: la carità.
Secondo il Monsignore, ci sono molte vie per arrivare alla dimostrazione di Dio, come quelle celebri di San Tommaso. Tuttavia l’amore costituisce un’epifania chiara ed indiscutibile di Dio. La carità non ci indica Dio, ma ce lo fa vedere all’opera. Essa non è solo fatta di gesti, di affetti, ma è vita divina. Ogni gesto di carità che mettiamo in atto è sacramentale e ci mostra Dio.
L’Arcivescovo ha infine concluso il suo intervento notando che il libro nasconde una domanda di fondo: “Chi fa la storia?”. I veri protagonisti della storia – ha osservato – sono i poveri e coloro che li amano. La logica del vangelo risulta così capovolta rispetto a quella del mondo: coloro che sono marginali per gli uomini sono al centro per Dio e in fin dei conti, come ricordava Chiara Lubic, la dottrina sociale della chiesa è nata il giorno in cui Maria ha cantato il Magnificat.
È stata poi la volta dell’intervento dell’onorevole Mario Marazziti, Portavoce della Comunità Sant’Egidio. Secondo l’onorevole, la carità è stata sotto attacco negli anni ’60 e ’70 ed è stata screditata come assistenzialismo. Per molti anni, a causa del linguaggio aggressivo di certa politica, ci si è dovuti scusare per non sembrare buonisti. Al contrario oggi, grazie al contributo di Papa Francesco, il tema della carità è di nuovo tornato centrale, come dimostra anche il volume presentato che non è un libro sdolcinato, che non nasconde le difficoltà della storia, ma che vuole ricordare la peculiarità del cristianesimo.
Infine ha preso la parola l’autore Juan María Laboa, che per 40 anni ha insegnato Storia della Chiesa all’università. L’illustre docente sentiva la mancanza di un volume di Storia della Chiesa incentrato sulla vita della grazia della gente. Poteva infatti spiegare molto bene la vita istituzionale della Chiesa, le vicende più importanti ad essa legata, ma cosa avrebbe saputo raccontare della vita cristiana? Questo libro costituisce la risposta a questa domanda e mette al centro il tema della carità perché parte dalla consapevolezza che tutti siamo feriti e abbiamo bisogno dell’amore di Dio. La Chiesa dunque è presentata non tanto come una scuola di dottrina, ma come luogo dove si manifesta la carità.
ROMA – Angelo Curzi, romano, sposato e padre di tre ragazzi, frequenta da moltissimi anni nei mesi estivi la Riviera delle Palme. Pochi giorni fa, insieme ad altri fedeli della parrocchia Nostra Signora di Guadalupe a Monte Mario di Roma e al parroco don Franco Mammoli, ha partecipato alla messa celebrata da Papa Francesco in Santa Marta e ha assistito il Santo Padre durante il sacro rito. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare questa sua esperienza.
Come ha saputo che avrebbe assistito il Papa durante la messa?
La sera precedente don Franco, il nostro Parroco, mi ha telefonato chiedendomi se volevo fare da chierichetto insieme ad un altro parrocchiano. La prima risposta, influenzata da un certo timore e rispetto verso il Santo Padre, è stata no. Ho servito messa da ragazzo, ma qui la cosa era molto diversa. Poi Don Franco mi ha spiegato che non dovevamo officiare in maniera tradizionale ma semplicemente portare i calici e le ampolle durante l’offertorio e assistere Papa Francesco fino al lavaggio delle mani.
Le omelie che il Papa tiene a Santa Marta costituiscono ormai una peculiarità del pontificato di Bergoglio. Quale passaggio le è maggiormente rimasto impresso?
Il Papa in quell’occasione si è soffermato principalmente e ripetutamente sul fatto che, solo chi porta i suoi peccati e li unisce al Sangue di Cristo potrà ambire alla vita eterna. Non ci saranno agevolazioni per chi pensa che la sua sapienza lo porterà ad una scorciatoia. Solo i veri penitenti, anche se ultimi nella scala sociale avranno la pace eterna. Tutti noi peccatori dovremmo chiedere al Signore la grazia del perdono.
Ha avuto modo di avvicinare il Santo Padre e di scambiare con lui qualche parola al termine della messa?
Ho avuto questa opportunità, come tutti gli altri presenti in Santa Marta. Mi ha fatto piacere che il mio breve pensiero, abbia indotto il Santo Padre a guardarmi negli occhi e stringermi più forte, entrambe le mani
Quali sono le emozioni che si provano stando accanto a un Papa e in particolare a questo Papa?
Le emozioni sono tante. La prima sensazione, più che un’emozione, è stata di preoccupazione per la sua salute. Erano le sette del mattino quando il Papa si è apprestato a celebrare la messa con il suo passo deciso, ma con il viso stanco e la voce affannata.
È stato toccante per me verificare l’altissima spiritualità e l’estrema umanità in ogni suo gesto accompagnato da un linguaggio che entra e rimane nel cuore di ognuno, lasciando una traccia indelebile. L’ho potuto constatare specialmente quando ha ringraziato noi chierichetti durante la messa guardandoci negli occhi, come se avessimo fatto un qualcosa di speciale per lui. Ero io in cuor mio a volerlo ringraziare, ma lui, il Papa, con la sua semplicità mi aveva anticipato.
Infine mi ha colpito scoprire che ogni mattina il Papa si mette a disposizione della comunità, già alle sette del mattino. Sì perché, come ho detto, alla fine della messa, dopo un periodo di meditazione e silenzio che lui fa con i fedeli stando seduto tra loro, saluta tutti uno ad uno ed è stato davvero emozionante vedere il Successore di Pietro ultimo tra gli ultimi.
VASTO – I coniugi Gioacchino Bruni e Claudia Zappasodi, che da 18 anni fanno parte dell’Associazione Papa Giovanni XXIII, gestiscono la “Casa famiglia Manuela” che, dopo diversi anni di attività nella diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto, dal luglio 2009 opera nella città di Vasto.
I coniugi Bruni, vivendo il carisma dell’associazione fondata da don Oreste Benzi, sono da sempre attententi ai bisogni degli ultimi. Oltre alla vicinanza e all’assistenza offerta a quanti sono accolti nella struttura della casa famiglia, sono spesso promotori di iniziative di solidarietà.
Quest’anno hanno dato vita ad un originale campo estivo che ha avuto come tema “Insieme per fare ciò che diversamente non faremmo” e che si è svolto dal 17 al 19 luglio presso la fattoria sociale “Il recinto di Michea”. Per capire meglio di cosa si tratta, abbiamo fatto qualche domanda alla signora Bruni.
Cosa ha di particolare il campo estivo che avete organizzato quest’anno?
Questa iniziativa ha fatto convivere per alcuni giorni, gli uni accanto agli altri, dei minorenni con ragazzi portatori di handicap. È stato un esperimento per capire come avrebbero accolto l’iniziativa i ragazzi e le loro famiglie.
Come è nata l’idea?
Non è una mia idea. La Comunità Papa Giovanni XXIII propone da sempre campi di condivisione. Don Oreste iniziò quasi 40 anni fa a Canazei e ci raccontava sempre che all’epoca non li volevano, perché il disabile era brutto da vedersi e rovinava l’immagine turistica della città. Addirittura il sindaco in persona andava a raccomandarsi affinché andassero via.
Oggi, grazie a Dio le cose sono cambiate, ma la diversità fa ancora paura. Noi però ci crediamo che “insieme si può”: lo sperimentiamo quotidianamente nella nostra casa famiglia e sappiamo che è una ricchezza, per questo abbiamo provato a proporlo anche ad altri.
Ne parlai qualche mese fa con il nostro vescovo Bruno Forte, che rimase entusiasta dell’idea, mi diede la sua benedizione e io cominciai a bussare alle porte dei gruppi e delle parrocchie della città, ma non riuscii a concudere niente!
Poi, un giorno, parlando in macchina con una amica, pensammo di provare. Ne parlai un po’ in giro e in poco più di un mese è nato il campo. Quando i tempi di Dio sono giusti, tutto si realizza in un batter d’occhio e questo mi dà pace e mi fa fare le cose con maggiore serenità.
Quante persone hanno partecipato e come hanno risposto alla vostra iniziativa?
Eravamo in 25 tra ragazzi disabili e normodotati. La risposta è stata subito positiva, gli animatori sono stati molto bravi a coinvolgere i ragazzi. Il secondo giorno del campo una bimba, mi ha detto: “Ma Claudia, non avevi detto che c’ erano anche i disabili? Ma quando vengono?” Da due giorni
stavamo insieme e non si era accorta della diversità, tanto stavano bene insieme!
Lo scopo era stato raggiunto: non eravamo più tra bisognosi e aiutanti, ma eravamo tutti uguali, ognuno con le sue capacità e i suoi tempi. Diceva don Oreste: “Verranno cieli e terre nuovi, dove il passo sarà tenuto dallo storpio, dalla donna incinta e dalla partoriente!”. Stavamo realizzando questo!
Quali sono le tue impressioni dopo questa esperienza?
Alla festa del venerdì sera con i genitori, la gioia era grande e la festa è stata proprio coinvolgente. Diverse mamme hanno riferito che i figli tornati a casa hanno detto loro di aver capito che siamo tutti uguali!
Ora dopo il successo dell’iniziativa dobbiamo fare in modo che questo fiore appena nato non appassisca. I giovani di oggi sono il futuro della società e se li facciamo crescere abituandoli a questi valori, allora potremo sperare che le cose andranno meglio!
ROMA – Abbiamo intervistato Alessando Giosotti. Il Dottor Gisotti lavora da 14 anni presso la Radio Vaticana e da due anni ricopre il ruolo di vice-caporedattore. Insieme ai suoi colleghi, ogni giorno fa conoscere ai fedeli le parole che Papa Francesco pronuncia durante le omelie a Santa Marta.
Cosa si prova quando si partecipa ad una messa in Santa Marta?
Ho potuto partecipare ad una messa di Francesco a Santa Marta con i colleghi della Radio Vaticana e tra questi c’erano anche quelli che si occupano quotidianamente di redigere un servizio sull’omelia di Francesco.
Papa Francesco, come lui dice, è un pastore in mezzo alla gente e mi ha colpito perché la cappella di casa Santa Marta, che io conoscevo già, è molto piccola e quindi si crea fra il Pontefice e i fedeli un clima molto familiare.
Mi ha colpito anche il fatto che, alla fine della messa, Francesco vada a sedersi tra i fedeli per avere un momento di preghiera e di meditazione insieme a loro. Non si potrebbe mai capire Bergoglio senza questa dimensione di essere con il suo gregge.
Come avviene concretamente il vostro quotidiano lavoro che permette ai vostri ascoltatori di conoscere le omelie del Papa?
Mi fa molto piacere rispondere a questa domanda perché l’ascoltatore o il lettore del sito vede il nome Alessandro Gisotti, Alessandro De Carlolis e Sergio Centofanti, ormai sono anche in qualche modo abituati a questi redattori della Radio Vaticana che fanno questo lavoro, ma dietro questi nomi c’è un grandissimo lavoro di equipe.
In realtà, i miei colleghi ed io non siamo materialmente presenti alla messa della mattina a Santa Marta. Un tecnico registra materialmente l’omelia che il Papa pronuncia. Questa poi viene trascritta dalla segreteria di redazione. Infine quella trascrizione viene utilizzata per il servizio che ogni giorno coloro che sono affezionati a Radio Vaticana leggono o ascoltano.
Fra le tante omelie di Papa Francesco che hai ascoltato, quale ti ha maggiormente impressionato ed è rimasta impressa nella tua mente e nel tuo cuore?
Diciamo che è molto difficile rispondere a questa domanda, perché è come dire qual è il tuo passo del Vangelo preferito: sì, ce ne può essere uno, ma è anche vero che uno vede il Vangelo nella sua interezza.
Se proprio dovessi scegliere, direi che mi ha colpito quella in cui il Papa parla dei trafficanti d’armi che festeggiano nei saloni delle feste, mentre i bambini sono schiavizzati dalla guerra, oppure costretti a vagare nei campi profughi. Francesco ha dato un’immagine fortissima di quello che è la guerra: anche senza vederla, la vedevamo.
Nel post concilio alcuni settori della Chiesa, maggiormente legati alla tradizione e al conservatorismo, si sono lamentati della sempre più scarsa menzione del diavolo nelle catechesi e nelle omelie. Papa Francesco parla spesso del maligno, più dei suoi predecessori messi insieme, eppure curiosamente questi stessi settori oggi lo criticano. Puoi fare una riflessione su questo?
Sicuramente Francesco è un uomo che, già prima di essere il successore di Pietro, se uno va a vedere quale è stato il suo ministero come vescovo a Buenos Aires, ha sempre parlato in modo molto chiaro. Mi vengono in mente le parole di Karol Wojtyla che diceva che Cristo è misericordioso ed esigente allo stesso tempo, perché nomina il bene e il male per nome. È quello che fa Francesco: questo forse a volte è destabilizzante, perché davvero non ha delle mediazioni.
Per lui il demonio è una presenza, molto reale, molto presente nelle guerre, nelle crisi, nei conflitti, nelle chiacchiere. Francesco è un pastore e come tale mette in guardia il gregge dai vari pericoli che provengono dal maligno.
Secondo me Francesco sfugge alle categorie di “conservatore” e “progressista”: è un Papa estremamente originale, fin dal nome che ha scelto. Ciò richiede a noi credenti, a noi cattolici, una maggiore attenzione a quello che fa e a quello che dice prima di incasellarlo in categorie che poi vengono buttate all’aria ogni giorno.