Nicola Rosetti
Nel video che proponiamo, Don Gianluca Busi presenta al pubblico la mostra Tradizione dello splendore. Icone italiane contemporanee dedicata alle opere d’arte realizzate da 16 iconografi italiani contemporanei che possono essere ammirate presso il museo Magi di Pieve di Cento (Bo) fino al 1 marzo 2015.
L’arte iconografica si sta sempre più affermando nel nostro paese. Per rendersene conto basta citare alcuni dati. Una quarantina di iconografi si dedicano a tempo pieno alla scrittura di icone, mentre un altro centinaio lo fa svolgendo anche altre attività lavorative. Ogni anno si tengono più di 100 corsi di iconografia nei quali sono coinvolti mediamente otto allievi. Ciò significa che si producono in Italia dalle dieci alle quindicimila icone.
Nel video Don Gianluca spiega come gli iconografi contemporanei si rifanno a “4 filoni” iconografici: c’è chi è legato alla tradizione rappresentativa della “Chiesa indivisa” (Fabio Nones, Paolo Orlando, Paola Zuddas), chi invece è più vicino all’iconografia italiana altomedioevale (Giovanni Raffa e Laura Renzi, Fabrizio Diomedi, Giuseppe Bottione), chi ancora si ispira alle icone romane (Ivan Polverari) e infine chi impronta la sua produzione sul modello della Scuola di Mosca (Giovanni Mezzalira, Giancarlo Pellegrini, Antonio de Benedictis, Luisanna Garau e lo stesso Don Gianluca Busi).
Diciamo che tutto è partito da esigenze pratiche, ma queste mi hanno aperto la strada ad una riflessione più approfondita che mi ha portato a parlare di una “necessaria didattica per immagini” quando si parla di religione.
Infatti, se si va a scavare a fondo, si noterà come il legame fra parola e immagine è un elemento costitutivo del cristianesimo. Basta pensare a due passi biblici. Il primo tratto dal prologo del Vangelo di Giovanni, l’altro dalla lettera di Paolo ai Colossesi.
San Giovanni scrive “Il Verbo si è fatto carne” (Gv 1,14). Con queste parole l’evangelista esprime il cuore della fede cristiana, secondo la quale l’infinito si è fatto conoscere nel limite della condizione umana, ciò che per sua natura è incontenibile ha preso una forma, ciò che non era visibile ha accettato di farsi vedere ai nostri occhi.
Che dire poi di quanto affermato da Paolo nella lettera ai Colossesi? L’apostolo delle genti scrive infatti che Cristo “è l’immagine del Dio invisibile” (Col 1,15).
Se il binomio parola-immagine è un elemento fondamentale nella rivelazione cristiana, esso non può essere trascurato in tutte quelle attività come la catechesi o l’irc, che, a diverso titolo, si adoperano a fare conoscere questa rivelazione.
Immergendosi nell’universo dell’arte sacra, si può avere quasi l’impressione che il fine della religione sia quello di promuovere le belle arti. Ovviamente le cose non stanno così, in quanto il compito della religione è quello di far entrare l’uomo in comunione con Dio, però è come se la religione, in preda ad un eccesso di bene, traboccasse e producesse frutti anche in campi che non sono totalmente suoi.
Credo che se volessimo sintetizzare quello che abbiamo detto con un’opera d’arte, non potremmo che scegliere il San Luca di El Greco. L’evangelista, vestito di verde, regge con una mano il libro dei vangeli, aperto verso di noi, sul quale possiamo vedere una pagina scritta a sinistra e una dipinta a destra. Il santo, con la mano destra, ci porge una penna, quasi invitandoci a continuare l’opera di scrittura del Vangelo. Sì, perché l’arte, tanto quanto la scrittura, ci interroga e ci provoca sul senso della nostra esistenza.
Don Gianluca Busi, iconografo e membro della commissione di arte sacra della Diocesi di Bologna, spiega in questo video la simbologia dei magi nel corso dei secoli. Scopriamo così che la più antica raffigurazione dei magi la troviamo nelle Catacombe di Priscilla a Roma.
Don Gianluca illustra come l’immagine dei magi venga riproposta più volte nell’arte funeraria, come ad esempio nell’epitaffio di Severo o nel sarcofago di IV secolo esposto al Museo Ambrosiano. Il sacerdote infatti spiega che c’é un forte parallelismo fra il defunto che offre la propria anima a Cristo e i magi che portano i propri doni a Gesù Bambino.
Ma troviamo il tema dei magi rappresentato anche sugli altari, in un contesto eucaristico, come quello dell’altare del Duca di Ratchis, conservato nel Museo Cristiano di Cividale del Friuli. In questo caso, secondo don Gianluca, come i magi donano l’oro, l’incenso e la mirra ricevendo a loro volta in dono Gesù Bambino dalla Vergine Maria, così, durante la celebrazione eucaristica, offriamo il pane e il vino per avere in cambio Cristo col suo corpo e col Suo Sangue.
Troviamo ancora i magi che guidano una processione di vergini nei mosaici della chiesa di San’Apollinare Nuovo Ravenna risalente al VI secolo: come i magi offrono i propri doni, così le vergini offrono tutta la propria vita a Cristo.
L’affascinante viaggio alla scoperta delle più belle raffigurazioni dei magi termina con la spiegazione dell’icona della natività di Andrej Rublev. Don Gianluca fa notare come i magi siano osservati con invidia dagli angeli, sia perché l’uomo, con la sua natura umana, sperimenta il dramma della libertà, sia perché essi vedono il Verbo di Dio che si fa uomo e non angelo.
ROMA – Si è svolta martedì 9 dicembre alle ore 17.30, presso la Sala Marconi della Radio Vaticana, la presentazione del volume “La tomba e la sua memoria. All’interno della Basilica di San Pietro”, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana a firma di monsignor Marco Agostini, officiale nella sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato e cerimoniere pontificio.
L’incontro è stato introdotto da Neria De Giovanni che, nella sua veste di presidente dell’Associazione Internazionale dei Critici Letterari, ha spiegato come il libro parli di bellezza con uno stile bello e piacevole da leggere.
Ha preso poi la parola Sua Eminenza il Card. Raffaele Farina, archivista e bibliotecario emerito di Santa Romana Chiesa, che ha esordito dicendo che nessuno sa quanti libri siano stati scritti sulla basilica, ed è dunque difficile scrivere qualcosa di originale, evitando di copiare qua e là. Il volume di Mons. Agostini è riuscito a fornirci qualcosa di diverso.
L’alto prelato è poi passato a descrivere le caratteristiche deI libro che raccoglie una serie di articoli pubblicati dall’Osservatore Romano insieme a tre nuovi testi inediti. Ogni capitolo si conclude con una riflessione di carattere teologico-liturgica, che ci permette di apprezzare la basilica e le sue numerose opere d’arte alla luce della loro funzione liturgica.
Spesso la calca di turisti impedisce di cogliere la basilica per quello che è, e cioè un luogo dove vengono officiati i sacri riti. Per questo motivo, se si vuole gustare San Pietro nel suo momento più vivo, bisognerebbe visitarla al mattino presto. Ed è proprio in questo orario che l’autore vi si reca per celebrare la santa messa. Ciò rende in un certo senso unico il libro, perché la basilica è raccontata dal particolare punto di vista di chi la abita ogni giorno per adempiere al proprio ministero sacerdotale.
È poi intervenuto Guido Cornini, curatore del Reparto Arti Decorative dei Musei Vaticani, che ha letto un passo del volume dove sono descritti i diversi tipi di visitatori di San Pietro: “C’è il turista più o meno preparato a vedere cose belle, ad osservare cose diverse da quelle che scorge nelle grandi vetrine dei negozi moderni, e che s’accontenta della contemplazione dell’opera in ratione naturae, ossia gli basta ciò che è rappresentato: il fatto, la persona. C’è pellegrino che guarda le opere con una partecipazione che possiamo chiamare emotiva dovuta alla “simpatia” con le stesse cose rappresentate, vede in esse quod naturae modum excedit. Ma c’è anche il visitatore, pellegrino e turista, che insieme agli atteggiamenti testé ricordati, coglie le opere nel loro elemento materiale e tecnico, nel loro fine, nella loro collocazione storica, nella loro dipendenza dalla personalità singolare dell’artista, che osserva il modo estetico con cui sono fissate”.
È in quest’ultimo tipo di visitatore che possiamo scorgere l’identikit del lettore ideale che Mons. Agostini ha in mente. Il dottor Cornini si è poi soffermato sugli aspetti più artistici e tecnici del volume, parlando in particolare dei reliquiari e dei mosaici della basilica di San Pietro, temi trattati nel libro di Mons. Agostini
Infine ha preso la parola l’autore del libro che, dopo aver ringraziato i relatori e i presenti, ha spiegato come la sua passione verso l’arte sia nata a Verona, una città che presenta allo stesso tempo bellezze antiche, medioevali e moderne. In questo contesto è stato facile acquisire un modo di leggere l’arte.
In occasione dell’imminente Solennità dell’Immacolata Concezione, proponiamo questo video nel quale don Gianluca Busi, iconografo e membro della commissione per l’arte della Diocesi di Bologna, presenta gli schemi iconografici mariani più diffusi. I primi tre appartengono alla tradizione orientale, mentre gli altri tre a quella occidentale.
Don Gianluca parte dall’immagine di Maria detta “Odighitria”, cioè “colei che ci mostra la strada”: la madre indica il figlio, via verità e vita, e allo stesso tempo il figlio indica la madre, capolavoro della creazione.
Don Gianluca prosegue illustrando le caratteristiche della “Eleusa”, ovvero “Madre di Dio della tenerezza”. A un primo sguardo potremmo pensare che si tratti della tenerezza fra una madre e il suo bambino, ma a una lettura più attenta possiamo notare come lo sguardo della Madonna sia triste. In realtà ella sta provando tenerezza per l’umanità peccatrice verso la quale volge gli occhi.
Infine il sacerdote volge la sua attenzione al modello della “Madre di Dio del Segno”, che nella sua tipologia deriva probabilmente da un’immagine femminile pagana legata ai misteri eleusini. Questa donna cerca il divino attraversi un’estasi, che la porterà in fuga fuori dal suo mondo. Al contrario, Maria, rivolta verso Dio, genera Gesù.
Passando alla tradizione occidentale, don Gianluca si sofferma sulla scena dell’annunciazione nel suo legame con l’eucaristia, analizzando, fra le altre, quella dipinta nella Cappella degli Scrovegni a Padova.
Il sacerdote propone poi una riflessione sul tema dell’addolorata attraverso il dipinto di Piero della Francesca per il cimitero di Monterchi e quello di Rogier van der Weyden, custodito oggi nel Museo del Prado.
ROMA – Si è svolta giovedì 4 dicembre presso la prestigiosa sede del “La Civiltà Cattolica” la presentazione del volume “Nel cuore di ogni padre” che raccoglie gli scritti dell’allora padre Bergoglio. Il libro, edito da Rizzoli, contiene un’introduzione di Antonio Spadaro, Direttore della celebre rivista dei gesuiti.
Lo stesso Spadaro ha introdotto l’incontro ricordando come 13 marzo 2013, dopo l’elezione di Bergoglio, non ebbe il tempo di andare a vedere quali volumi di padre Bergoglio fossero presenti nella biblioteca de “La Civiltà Cattolica”. A ciò l’indomani rimediò padre Domenico Ronchitelli, caporedattore della rivista, che portò a padre Spadaro il volume “Meditaciones para religiosos”, la versione originale del libro che ora viene proposto in lingua italiana.
Padre Spadaro ha evidenziato come questo sia l’unico volume, scritto da Bergoglio, citato durante l’intervista che il Papa ha concesso al direttore de “La Civiltà Cattolica”. Il Papa ne ha parlato anche durante l’incontro con i membri del collegio degli scrittori de “La Civiltà Cattolica”. Questo ci fa capire quanto questo scritto stia a cuore al Papa.
Il volume raccoglie una serie di saggi scritti da padre Bergoglio fra il 1976 e il 1982, quando si trovava alla guida della provincia dei gesuiti dell’Argentina e aveva una quarantina di anni. Il futuro pontefice delinea in questi suoi scritti la figura del gesuita che dovrebbe essere una persona dal pensiero incompleto, aperto, che riesca a cogliere, a partire dal frammento, un orizzonte più ampio o, come scrive lo stesso Bergoglio, a “percorrere cortili scorgendo praterie”.
Nelle parole di Bergoglio si può notare come non ci sia nessuna contrapposizione fra dottrina e prassi. Per Bergoglio la chiesa non può essere concepita né come “una bottega di restauro”, né come “un laboratorio di utopia”.
Ha preso poi la parola padre Marco Tasca, generale dei Frati Minori Conventuali che ha individuato quattro parole chiave per leggere il libro. La prima è “cuore”, il centro biologico della vita che in modo dinamico pulsa sangue dal centro alle periferie del corpo. Ma il cuore, nella spiritualità cristiana, è anche sede del sentimento, della coscienza, della volontà ed è sintesi di tutta la persona, perché è il luogo dove si sperimenta la presenza di Gesù. Tuttavia non si tratta di una “comfort zone” poiché, ad esempio, nel libro compare per 70 volte la parola “lotta”. È dal cuore che si dipana il coraggio dell’annuncio e allo stesso tempo la pazienza apostolica che rendono i cristiani non gli estirpatori della zizzania, ma seminatori del grano.
Padre Tasca si è poi soffermato sulla figura del padre che costituisce la cifra del pontificato in quanto il padre armonizza, mette insieme, compone il vecchio e il nuovo. Ma è anche colui che dispensa misericordia. Questa parola, e relativi sinonimi, abbondano nel libro ed è particolarmente significativo che, fra i tanti episodi, padre Bergoglio citi solo quello della vita di San Francesco nel quale il Poverello di Assisi incontra la misericordia di Dio Padre, donando misericordia al lebbroso.
La riflessione di padre Tasca si è poi concentrata sul tema delle radici. Per Bergoglio, riesce a elevarsi solo chi ha radici, solo chi è attaccato a ciò che ci fonda. Questo atteggiamento genera un senso di “appartenenza” e si è qualcuno solo nella misura in cui sia appartiene. Per essere gesuiti è necessario appartenere a un corpo, a una storia. Senza questa appartenenza all’ordine, si corre il rischio di diventare “franchi tiratori” o, al contrario, “pensionati”.
Infine padre Tasca ha sottolineato l’importanza della dimensione spirituale nel pensiero di Bergoglio, un spiritualità che significa ricerca costante del volto di Cristo. A tal proposito, padre Tasca ha citato un’espressione del Card. Maradiaga, secondo il quale, “quando stai con Bergoglio, sembra che conosca Dio Padre personalmente”.
Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes, ha riflettuto sulla leadership di Papa Francesco, tutta centrata sulla sua visione ecclesiologica caratterizzata dalla missionarietà, da una visione non clericale e non autoreferenziale.
Mauro Magatti, sociologo e docente presso l’università del Sacro Cuore, ha legato il successo di Papa Francesco al fatto che egli risponde a interrogativi moderni come quelli sul rapporto fra libertà ed autorità, affermandosi come un leader che guida senza opprimere.
Nel transetto di sinistra riposano le spoglie mortali di Ignazio di Loyola. Esse giacciono in un’urna realizzata da Alessandro Algardi. La tomba è inserita in un contesto monumentale realizzato dal gesuita Andrea Pozzo fra il 1695 e il 1699. In alto vediamo il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo che vegliano sul mondo, una grande sfera marmorea interamente ricoperta di lapislazzuli.
Poco sotto possiamo vedere due angeli che sorreggono lo scudo con lo stemma dei gesuiti. La grande nicchia contiene la statua in oro e argento di Sant’Ignazio, rivestito da una preziosa pianeta. La statua è “nascosta” da una tela del Pozzo che raffigura Gesù Cristo nell’atto di donare a Sant’Ignazio il vessillo della Compagnia. Un angelo mostra il libro dei vangeli a quattro personaggi, che rappresentano altrettanti continenti raggiunti dall’opera di evangelizzazione dei gesuiti.
Tutti i giorni alle ore 17.00 è possibile essere spettatori di uno straordinario “gioco” : la pala, attraverso un particolare meccanismo, viene fatta scendere e mostra la statua del santo che viene illuminata, insieme a tutto il resto della chiesa.
Sulla sinistra osserviamo un gruppo scultoreo che simboleggia il trionfo della fede sull’idolatria, opera di G. B. Théodon. La Fede, rappresentata come una donna con il calice e l’ostia, sovrasta un re pagano, al seguito del quale c’è l’idolatria. Sulla destra invece, un altro gruppo scultoreo mostra la fede, una donna con la croce in mano, che sconfigge l’eresia, opera di Pierre Le Gros.
Sia la tela del Pozzo che i due gruppi scultorei mettono in mostra la spiritualità militante di Ignazio e dei suoi figli spirituali che concepiscono la vita come una battaglia, ovviamente combattuta senza armi, per rendere maggior gloria a Dio.
Sopra la composizione del Théodon possiamo vedere una pala marmorea raffigurante l’approvazione della Compagnia di Gesù da parte di Papa Paolo III, mentre sopra quella di Le Gros, un’altra pala marmorea rappresenta Gregorio XV che canonizza Ignazio e Francesco Saverio.
Nel transetto di destra troviamo un’altra opera monumentale, realizzata su disegno di Pietro da Cortona, che accoglie la reliquia del braccio di San Francesco Saverio, collocata proprio sopra l’altare. Il grande quadro che sovrasta l’altare, opera di Carlo Maratta, rappresenta la morte di Francesco Saverio. Il Santo è raffigurato ancora nella spezzatura del timpano curvilineo mentre su una nuvola ascende verso il cielo accompagnato da molti angeli.
La parte alta del transetto è decorata da scene della vita di Francesco Saverio come il battesimo di una principessa pagana e l’episodio nel quale un granchio riporta al Santo un crocifisso che aveva perso nel mare.
Fra le cappelle laterali, vorremmo soffermarci su quella della Passione, decorata da Gaspare Celio su disegno del gesuita Giuseppe Valeriani. Essa costituisce una singolare meditazione sulla Passione di Cristo.
All’ingresso della cappella troviamo i profeti Isaia e Zaccaria che ci invitano ad entrare e a contemplare il Mistero della Passione. Sotto al primo profeta leggiamo il passo Is 30,20: “Erunt oculi tui videntes preceptorem tuum” (=i tuoi occhi vedranno il tuo maestro). Con questa frase il fedele è invitato a seguire Gesù. Sotto all’altro profeta leggiamo invece il passo Zc 12,10: “Viderunt in quem transfixerunt” (= volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto).
Nell’intradosso dell’arco che ci introduce alla cappella, possiamo vedere molte scene dell’Antico Testamento che, in un modo o nell’altro, prefigurano la croce. Adamo ed Eva colgono il frutto dall’albero proibito: come per mezzo dell’albero della conoscenza del bene e del male è venuta nel mondo la morte, così per mezzo della croce è venuta la vita.
Segue poi la scena del sacrificio di Isacco: come nell’Antico Testamento Abramo offrì in sacrificio suo figlio, così nel Nuovo Testamento Dio Padre offre suo figlio Gesù sulla croce per la salvezza del mondo. Ancora sul tema del sacrificio si sofferma un’altra immagine che descrive il sacrificio di Noè dopo il diluvio universale.
Infine un episodio dell’esodo prefigura la croce come segno di speranza: si tratta del bastone con un serpente di bronzo che Mosè innalzò nel deserto e donò vita a tutti quelli che si rivolgevano verso di esso. Allo stesso modo oggi chi guarda la croce è salvo.
Nella cappella inizia poi un vero e proprio racconto della Passione di Cristo per immagini. L’agonia di Gesù, raffigurata nella lunetta di destra, inizia nell’orto degli ulivi, dove il Signore prega e suda sangue. Lo viene a confortare un angelo, mentre Pietro, Giacomo e Giovanni si sono addormentati. Nella lunetta di fronte, Gesù viene arrestato dai soldati mentre è baciato da Giuda, il traditore.
Quattro tele ripercorrono ulteriormente le sofferenze e le umiliazioni subite da Gesù. Nella prima il Cristo viene bendato. Sotto possiamo leggere il passo Lc 22,64: “Et velaverunt eum et percutiebant faciem eius” (= lo bendarono e percuotevano il suo volto).
Nella seconda tela il Cristo è pronto per essere flagellato alla colonna. Sotto possiamo leggere il passo Gv 19,1. “Tunc ergo apprehendit Pilatus Iesum et flagellavit” (= dunque Pilato prese Gesù e lo fece flagellare).
Nella terza tela il Cristo è vestito con una tunica rossa. Sotto possiamo leggere il passo Mt 27,28: “Clamidem coccineam circumdederunt ei” (= gli misero addosso un manto scarlatto).
Nella quarta tela vediamo Gesù vestito di bianco. Sotto possiamo leggere il passo Lc 23,11. “Sprevit autem illum Herodes et illusit indutum veste alba” (= allora Erode lo insultò e lo schernì, poi lo rivestì con una splendida veste bianca).
Due grandi affreschi descrivono poi le ultime ore di vita di Gesù: a sinistra possiamo vedere la salita di Gesù verso il Calvario, mentre a destra Gesù viene crocifisso. Sulla pala dell’altare possiamo ammirare la scena della deposizione: il corpo esanime di Gesù viene tolto dalla croce.
Nella volta della cappella possiamo infine vedere gli strumenti che sono stati adoperati per uccidere Gesù portati in gloria da una moltitudine di angeli: la croce, la lancia, la canna con la spugna, i tre chiodi e la corona di spine.
Dopo averla intervistata la settimana scorsa, torniamo a parlare con la Dott.ssa Martina Pastorelli, fondatrice di Catholic Voice Italia e curatrice del volume “Come difendere la fede senza alzare la voce”. Questa volta tratteremo con lei alcuni temi specifici del libro, in particolare quello del ruolo pubblico della Chiesa.
“Ah va bene, tu la pensi così perché sei cattolico”. Quante volte ce lo siamo sentiti dire, come se fossimo cittadini di serie B o, mi passi l’espressione, dei “minus habens”! Quali sono secondo lei le radici “culturali” di questo snobbismo verso le posizioni dei cattolici?
Le ragioni di questo atteggiamento sono molteplici: forse la più recente è legata alla tendenza di confinare la religione a un qualcosa di meramente privato, soggettivo, il che porta a non riconoscere, come bene per me, il sentimento dell’altro.
Poi gioca certamente il fatto che l’unica forma di sapienza accettata sembra essere quella derivante dal pensiero scientifico, per cui tutto viene ridotto a fattore matematico e nulla si può dire su valori come l’amore, la giustizia, la rettitudine, ecc.
Causa non ultima è la grande misconoscenza delle verità della fede cattolica, che contribuisce notevolmente all’indifferenza e al sospetto verso la Chiesa e i suoi insegnamenti.
Per questo un lavoro di reframing – come quello proposto da Catholic Voices – per vincere i pregiudizi comunicando la bellezza autentica del messaggio cristiano, è indispensabile per riaprire il canale di ascolto da parte dell’altro.
Il punto è che la democrazia moderna deve essere aperta all’universalità di quei contributi che la possano aiutare a creare una società dove la ricchezza del singolo possa essere espressa per il bene di tutta la comunità. Ecco perchè il cattolico può reclamare molto serenamente un ruolo di primo piano nel dibattito politico pubblico.
A pag. 23 leggiamo: “la gente è contraria a una interferenza della Chiesa su ciò che preferirebbe venisse tralasciato, e a favore di una interferenza della Chiesa su ciò che invece vorrebbe venisse affrontato”. Secondo lei cosa si può fare per evitare queste critiche di comodo, e a corrente alternata, in modo tale che la voce dei cattolici ritrovi piena cittadinanza nel dibattito pubblico?
Invitiamo a riflettere su come la Chiesa sia regolarmente accusata di essere ora troppo di sinistra, addirittura progressista (quando difende poveri e immigrati, ad esempio) ora troppo di destra, reazionaria e conservatrice (quando promuove la famiglia naturale o si oppone all’aborto).
Richiamare l’attenzione su questa contraddizione evidente aiuta a capire come in realtà stiamo parlando delle nostre aspettative, anzichè di una effettiva interferenza della Chiesa.
Quanto a far sentire la voce dei cattolici, si tratta di fare appello – molto semplicemente – alla libertà di espressione, ricordando che la Chiesa vuole tenere ben distinte – seppure in dialogo – la sfera religiosa da quella politica.
Qui non si tratta di voler imporre una visione religiosa nella vita pubblica, ma di bilanciare le libertà in una moderna società pluralista, garantendo ai cattolici il diritto di manifestare le proprie convinzioni ed il proprio credo.
Portiamo le persone a chiedersi: una società che vi si appella così spesso, non vorrà mica, in nome della tolleranza, abolire la tolleranza stessa?
A mio avviso un altro spunto molto interessante si trova a pagina 25 dove si può leggere: “La non negoziabilità di certi principi non deriva perciò dalla incapacità dei cattolici al dialogo democratico, ma dal fatto che, negoziandoli, il bene comune si trasformerebbe nel minor male comune”. Può commentare questa affermazione?
Ciò che va fatto notare è che negoziare certi principi equivale di fatto a negoziare la persona, che viene “consegnata” nelle mani di altri, che ne disporranno.
Quei principi chiamati non negoziabili sono le garanzie che non permettono alla società di disumanizzarsi: difendendoli non si nega il dialogo democratico ma lo si eleva, mostrando che essi sono l’unica vera difesa dellla dignità della persona da ogni forma di potere arrogante.
La loro negazione impedisce il progresso morale di una nazione, che si vedrà continuamente costretta a legiferare per limitare i danni e i mali derivanti dall’aver negoziato su quei principi. E ciò che sta già avvenendo, tra l’altro.
A pag. 31 viene citato il bel libro di G. Rusconi “L’impegno” nel quale l’autore dà un’analisi dettagliata di come la Chiesa accompagni la società nella vita di ogni giorno. Secondo lei, quanto è importante far entrare nel dibattito pubblico il concreto contributo che la Chiesa offre?
La Chiesa cattolica è la seconda struttura internazionale di pianificazione e sviluppo dopo le Nazioni Unite, e la seconda agenzia umanitaria dopo la Croce Rossa: è bene ricordarlo a chi chiede di relegare la religione ad un fatto privato o a chi parla della Chiesa come di un corpo estraneo alla dinamica della società, distante dai problemi reali e concreti.
Al contrario, anche in Italia, il contributo pubblico offerto della Chiesa è diventato imprescindibile, specialmente in momenti di crisi economica come quello che stiamo vivendo, basti pensare al punto di riferimento rappresentato dalle mense ecclesiali (persino nelle città più “ricche” della penisola) o all’impegno nella lotta alle nuove povertà con iniziative di vario tipo (empori solidali, erogazione di micro-crediti, fondi di solidarietà). Questa è una presenza concreta e preziosissima, che è sotto gli occhi di tutti.
Anche qui, secondo me, è importante fare appello al buon senso e alla giusta misura: conviene davvero impuntarsi per un’esenzione – penso all’IMU – di cui peraltro beneficia tutto il mondo no profit, o vogliamo guardare a tutti i campi in cui la Chiesa supplisce concretamente alle carenze dello Stato sociale?
Far notare questo non è irrilevante, perchè dal riconoscimento del suo contributo pratico e morale alla società, scaturisce anche il diritto della Chiesa di far sentire la sua voce nel Paese in occasione delle grandi battaglie politiche per il bene comune.
La chiesa del Gesù si trova nel pieno centro di Roma e rappresenta a livello architettonico il cuore della spiritualità gesuita. Il tempio infatti fu voluto dallo stesso fondatore della Compagnia di Gesù, Ignazio di Loyola, che nel fra la fine del 1550 e l’inizio del 1551 vide la posa della prima pietra. Vari architetti misero mano al progetto, ma gli interventi più importanti si devono al Vignola e a Giacomo della Porta.
La struttura della chiesa è quella tipica degli edifici religiosi costruiti nel periodo della Riforma Cattolica: la chiesa ha una pianta a croce latina; un’unica navata, tale da favorire il raccoglimento e la concentrazione durante le sacre funzioni; sei cappelle laterali, tre a destra e tre a sinistra; e una cupola.
Si accede alla chiesa per mezzo di tre porte. Sopra quella centrale è possibile vedere il simbolo della Compagnia di Gesù, che è composto dalle lettere JHS (le prime lettere del nome di Gesù in greco), da una croce sopra la H e dai tre chiodi della croce sotto di essa. Sopra le porte laterali troviamo invece le statue di Sant’Ignazio, a sinistra, e di San Francesco Saverio, a destra.
Sulla trabeazione leggiamo la scritta “Alexander Cardinalis Farnesius S.R.E. vicecanc fecit MDLXXV (=Il Cardinale Alessandro Farnese, vicecancelliere di Santa Romana Chiesa, fece costruire nell’anno 1575). Il Card. Farnese infatti fu munifico donatore verso la Chiesa del Gesù.
Portandoci all’interno della chiesa, possiamo subito ammirare uno dei massimi capolavori di Giovan Battista Gaulli: il trionfo del nome di Gesù. Il monogramma di Gesù (JHS) è adorato da una moltitudine di angeli e di santi. Fra questi possiamo notare Ignazio con i paramenti liturgici, sulla destra, e i magi, sulla sinistra.
Tutta la composizione è ispirata al verso paolino “perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (cfr. Fil 2,10-11) che è possibile leggere su un cartiglio tenuto da alcuni angeli. Infatti le figure, disposte dentro la cornice, su di essa e fuori, rispecchiano proprio la tripartizione del citato passo biblico.
I Gesuiti volevano che la loro chiesa rispondesse a criteri di funzionalità e per questo dotarono la navata di un pulpito. Avrebbero anche voluto un soffitto piatto, in modo tale da poter propagare meglio la voce del predicatore, ma in questo non furono assecondati dal pur generoso cardinale Farnese il quale preferiva una volta a botte, come quella che appunto oggi possiamo ammirare.
Spostando ora la nostra attenzione verso il presbiterio, possiamo concentrarci sulla pala dell’altare maggiore. Essa è opera del pittore romano Alessandro Capalti che ha raffigurato l’episidio della circoncisione di Gesù. Come sappiamo, durante questo rito, che avveniva otto giorni dopo la nascita, veniva dato anche il nome, in questo caso “il nome di Gesù” al quale è dedicata la chiesa. La tela, attraverso un ingegnoso meccanismo, si può abbassare e mostrare la statua del Sacro Cuore.