Nicola Rosetti
È stata da poco celebrata la LIII Giornata delle Comunicazioni Sociali. Abbiamo parlato del tema della comunicazione con Paolo Ruffini, Prefetto del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede.
Quale parte del messaggio che il Santo Padre ha scritto per questa occasione l’ha colpita maggiormente?
Ci deve colpire ciò che il Papa scrive nel titolo del messaggio, cioè Siamo membra gli uni degli altri che è un richiamo all’unità che ci contraddistingue come genere umano e come Chiesa. Questo titolo vuol dire che se la rete, anziché unirci ci divide; se l’identità costruita in rete, anziché portarci alla comprensione ci porta a identità costruite sulla negazione dell’altro; anziché creare occasioni di incontro, ci porta alla solitudine; ci fa perdere il senso di quello che siamo, bisogna avere un sovrappiù di responsabilità. Bisogna sentisi chiamati a riportare gli uomini e le donne del nostro tempo a incontrarsi in carne ed ossa, a riscoprire il valore della condivisione e della comunità.
Dal punto di vista del suo ruolo di Prefetto del Dicastero per la Comunicazione, come vede la realtà dell’informazione nelle diocesi? Riescono i mezzi di comunicazione delle 226 diocesi italiane a raccogliere la sfida della comunicazione?
Si tratta sempre di un cammino: guai a pensare di essere arrivati! Penso che nelle diocesi si stia facendo proprio questo cammino, fondato sull’incontro delle persone. La parte più interessante, appunto, è quella di riuscire ad offrire insieme un servizio, un luogo d’incontro e un luogo di testimonianza della verità e dell’essere cristiani. Quando la rete riesce a essere questo, cioè a non costruire un mondo a parte, ma ad essere parte reale del nostro mondo, quando la parola disincarnata della rete, prende forma in uomini in carne ed ossa che si incontrano, allora la sua efficacia è reale. È questo quello che ci viene richiesto e mi pare che il lavoro che si fa nelle diocesi sia tutto in questa direzione.
Ci può fare un esempio concreto di quello che ha appena affermato?
Si può vedere ciò nell’accompagnamento di chi per età padroneggia con scioltezza i mezzi di comunicazione più moderni e che può insegnarne l’uso a chi non è un nativo digitale e deve essere pertanto aiutato in questo mondo. Allo stesso tempo sono gli anziani che devono insegnare ai più giovani a capire i contenuti. Insomma è necessario essere presenti nella rete e far sì che la connessione sia una comunione e non soltanto un collegamento sterile.
Da quello che si apprende dai mezzi di informazione, la riforma della Curia farà sì che questa sia sempre di più a servizio di tutte le diocesi è non solo in modo esclusivo del Papa. Il Dicastero delle Comunicazioni sarà coinvolto in questo tipo di processo?
Al di là della riforma della Curia in corso, io credo che il Dicastero della Comunicazione nel suo essere a servizio del Papa è anche a servizio delle Chiese locali e a servizio dei cristiani che parlano diverse lingue e così rende evidente questo legame che ci unisce, questo nostro essere una comunità che, attraverso la comunicazione, condivide la ricerca della verità e la testimonianza della fede
Se nel nostro territorio diocesano sono numerosi gli edifici riaperti al culto grazie agli interventi di restauro resi necessari dopo gli eventi sismici del 2016, non si può dire la stessa cosa per l’intera regione Marche. È quello che emerge da quanto ci ha detto Mons. Stefano Russo, Segretario Generale della Cei e fino al mese scorso Vescovo della diocesi di Fabriano-Matelica.
In che condizioni sono i beni culturali di pertinenza ecclesiastica colpiti dal terremoto? Come procede la loro ricostruzione?
Tutte le diocesi si sono date da fare per collaborare affinché si arrivasse a un piano condiviso di intervento. Pertanto è stato fatto un lavoro straordinario da parte delle diocesi di inventariazione e catalogazione del patrimonio devastato, in collaborazione anche con gli enti e le istituzioni pubbliche. Adesso siamo bloccati rispetto alla ricostruzione delle chiese che stenta ad avviarsi: sono stati fatti dei lavori di messa in sicurezza, ma la ricostruzione vera e propria non ha avuto ancora inizio. Speriamo che la situazione si sblocchi e che non sia necessario aspettare ancora tanto tempo, perché comunque parliamo di oltre 2000 edifici di culto resi inagibili a causa degli eventi sismici che si sono verificati nel 2016.
Quale è stata la reazione della popolazione dei territori colpiti dal sisma in particolare rispetto ai beni artistici della propria terra?
La gente che abita questi territori è fortemente appassionata: ce lo dimostrano le tante storie di persone che, nonostante abbiano avuto il proprio paese devastato, sono rimaste lì vicino ai loro luoghi. Questo attaccamento alla propria terra deve comunque essere accompagnato da azioni di ricostruzione, soprattutto nei luoghi più significativamente colpiti, affinché le persone possano tornare lì e non trovare soltanto una casa, ma delle forme e dei motivi di sussistenza. Si tratta di un lavoro in parte iniziato, ma che deve essere necessariamente accelerato.
C’è qualche edificio interessato dal terremoto che le sta particolarmente a cuore?
Anche se sono amministratore di Fabriano-Matelica, dove abbiamo comunque avuto diversi danni, sono originario del Piceno, un territorio che ha avuto paesi rasi a terra. Ci sono edifici che sono stati messi in sicurezza come la Madonna del Sole a Capodacqua e che certamente costituisce un bene che è stato salvaguardato. Ci sono invece edifici in cui non è stato possibile fare ciò, come ad esempio Santa Maria in Pantano, in località Montegallo: questa chiesa che aveva un grandissimo valore da un punto di vista storico, artistico e paesaggistico, perché è inserita proprio in mezzo alle montagne, praticamente non c’è più.
Martedì 21 maggio presso la chiesa di Sant’Andrea delle Fratte, luogo di culto a pochi passi da Piazza di Spagna, è stato presentato il volume Salvare l’Europa. Il mistero delle dodici stelle scritto dal vaticanista del Tg2 Enzo Romeo. Sono intervenuti Matteo Truffelli, presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana, Ernesto Preziosi, storico del Movimento Cattolico. L’incontro è stato moderato dal giornalista Mimmo Sacco e ha visto la presenza di Andrea Monda, direttore de L’Osservatore Romano, e Mons. Giuseppe Fiorini Morosini, Arcivescovo di Reggio Calabria – Bova. Per conoscere meglio la genesi e il significato di questo libro, L’Ancora ha intervistato l’autore.
Quali sono le circostanze che l’hanno portata a scrivere questo libro?
Ci stiamo avvicinando a un appuntamento molto importante e delicato, quello delle elezioni per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo discutendo con gli amici della casa editrice Ave (che è l’editrice dell’Azione Cattolica Italiana, ndr) abbiamo pensato che offrire un’occasione di riflessione sull’Europa partendo anche da un dato di appartenenza cristiana fosse utile. Io avevo nel cassetto da tanti anni del materiale che avevo recuperato a Strasburgo presso gli archivi del Consiglio d’Europa che mi permettevano appunto di ricostruire la storia della bandiera europea, quella che tutti conosciamo e che ha 12 stelle su sfondo azzurro. Da questi documenti emerge un dato che pochi conoscono e cioè che questo simbolismo si richiama alla devozione mariana dell’Immacolata Concezione.
In questa ricerca che lei ha svolto, c’è qualche particolare che l’ha colpita maggiormente?
La storia è costruita da tante casualità che però in una chiave di credenti diventano segni della Provvidenza. A me ha colpito molto che per una serie di moltissime circostanze la bandiera fu adottata l’8 dicembre 1955, proprio nel giorno in cui la Chiesa celebra la festa dell’Immacolata Concezione. Nessuno lo aveva preventivato e nessuno tra coloro che erano incaricati di votare l’adozione della bandiera aveva in mente questa cosa, eppure avvenne così. Scovando le carte e leggendo lo scambio di lettere, si capisce che alcuni che avevano lavorato per l’adozione di questa bandiera in cuor suo sperava che questo avvenisse. Non ci fu mai un’esplicitazione di questo perché non si voleva dare una coloritura confessionale.
Che valore ha il suo libro nell’attuale dibattito culturale nel quale c’è un vivace confronto fra i sostenitori dell’identità e quelli dell’accoglienza?
È indispensabile che noi non neghiamo quelle che sono le radici cristiane, anzi, dobbiamo valorizzarle. Però bisogna capirsi su un fatto: cosa vuol dire recuperare la propria identità cristiana? Vuol dire sguainare una spada per colpire qualcuno, un presunto avversario, un nemico, un concorrente oppure significa essere più inclusivi, più accoglienti e quindi costruire un’Europa più ispirata all’insegnamento del Vangelo?
Da protagonista del mondo dell’informazione, secondo lei in questa campagna elettorale si è veramente parlato di Europa oppure il dibattito si è appiattito su questioni nazionali?
Si è parlato di Europa però partendo sempre dai propri problemi e in un certo senso è anche giusto così, però io segnalo questa contraddizione: da una parte si accusa l’Europa di essere una grande ed inutile macchina burocratica che non solo non ci aiuta a risolvere i problemi, ma che vuol farci i conti, ci toglie sovranità, respiro dall’altra però è all’Europa che si chiede la soluzione dei problemi che ci angosciano. Come fare a mettere insieme queste due cose? L’ho notato durante la campagna elettorale, ma lo noto anche in quello che è l’umore delle persone. Probabilmente sono le grandi paure di questo momento che spingono ad avere questa visione. Si capisce poi che senza una visione alta di approccio comunitario ai problemi, questi problemi sono irrisolvibili nella società globalizzata nella quale viviamo
Qual è oggi la posta in gioco sul tema dell’immigrazione?
Prima di qualsiasi analisi, riflessione, proposta, anche prima di qualsiasi denuncia, bisogna sempre tenere a mente che si tratta di esseri umani. Alle volte si parla delle persone come fossero delle cose. Già nel nostro lessico stabiliamo delle separazioni. E questo ci riguarda tutti. Ogni volta che parliamo di noi stessi come di “consumatori”, solo per fare un esempio, stiamo spersonalizzzando. In questa ottica, le persone vengono misurate secondo la loro “funzionalità” e chiunque non sia in qualche modo “conveniente” diventa per forze di cose un peso. I migranti non fanno eccezione ed anzi diventano il parafulmine di paure e frustrazioni. Paura per la nostra sicurezza, timori per la nostra già precaria condizione economica, con il risultato di generare tensioni spesso irrazionali che possono fare breccia soprattutto nei soggetti meno controllabili, come è avvenuto proprio a Macerata con la mancata strage di migranti.
La formula “Aiutiamoli a casa loro” adottata in modo trasversale da più di un politico può essere valida in qualche modo?
Dipende da cosa si intende per “aiutare” e per “casa loro”. Io direi prima di tutto “ascoltiamoli”. Siamo davvero sicuri di conoscerli, di interpretarne i bisogni, le risorse, le potenzialità, tanto nelle loro terre d’origine che qui “a casa nostra”? Se guardo a come si espande il traffico internazionale di armi, i conflitti per il controllo delle risorse energetiche (come in Libia), la cosiddetta “esportazione della democrazia” avvenuta a colpi di aggressioni militari, la delocalizzazione di tante aziende (anche molte italiane) al solo scopo di produrre di più spendendo di meno, ecco tutto questo deve interrogarci sul nostro modello di sviluppo e su come questo influenza direttamente anche i flussi migratori.
Ultimamente il dramma dell’immigrazione è stato accostato a quello della Shoah. Secondo lei queste due tragedie sono assimilabili?
Le Nazioni Unite ci dicono che il numero complessivo di profughi di guerra registrati nel mondo nel nostro tempo è superiore a quanti se ne contarono durante il Secondo conflitto mondiale. E nell’ottica della “Terza guerra mondiale combattuta a pezzi”, secondo la definizione che ne ha dato Papa Francesco, vi sono ovunque dei lager in forme che facciamo fatica ad accettare come tali. Non sono forse “campi di concentramento” le miniere di cobalto nelle quali vengono mandati a morte bambini anche piccolissimi e dei quali pochissimo sappiamo? Non sono forse dei lager i campi di prigionia dei trafficanti di esseri umani libici che schiavizzano, stuprano uccidono? E che dire del Sahara, diventato un immenso cimitero nel quale ogni giorno muoiono migranti abbandonati dai trafficanti? La Shoah è stata certo un Olocausto e gli accostamenti rischiano d’essere sempre fuori luogo o fuorvianti, ma resta un monito perché mai più, in nessuna forma, si possa ripetere l’eliminazione sistematica di migliaia e migliaia di persone solo perché “diverse” da come le vorremmo.
C’è il rischio concreto in Italia di tornare a qualcosa di simile alle leggi razziali?
Non credo che l’Italia sia un Paese razzista. Ma ciò non vuol dire che non vi siano dei razzisti. Il punto non è il rischio di riproporre norme come le leggi razziali, ma permettere, tollerare, in qualche modo chiudere un occhio davanti a forme più o meno plateali di discriminazione. Quello che la Storia ci insegna è che una volta avviata la macchina dell’odio, diventa poi difficile fermarla per tempo. In nome della giusta richiesta di sicurezza, di stabilità economica, in altre parole di benessere, non possiamo dilapidare un patrimonio di valori e testimonianze. La vera sfida è quella di restare fedeli ai propri principi senza diventare, questo sì, schiavi della paura e di chi lucra grazie ad essa.
Martedì 19 luglio, presso la Palazzina Azzurra di San Benedetto del Tronto, nell’ambito della manifestazione Piceno d’Autore si è svolta la presentazione del volume Il nome di Dio è Misericordia del vaticanista Andrea Tornielli.
Il giornalista, sollecitato dalle domande del Prof. Fernando Palestini, direttore dell’Ufficio Diocesano per le Comunicazioni Sociali, ha illustrato quello che può essere considerato il leitmotiv del pontificato di Papa Francesco. All’incontro era presente fra il pubblico anche il Vescovo di San Benedetto del Tronto, Mons. Carlo Bresciani.
Tornielli ha spiegato come l’idea di intervistare il Papa sul tema della Misericordia gli sia venuta dopo che il Pontefice ha annunciato il desiderio di voler celebrare il Giubileo straordinario della Misericordia. Poiché Tornielli aveva intervistato già due volte Papa Francesco su temi di attualità e aveva avuto più volte la fortuna di accompagnare il Santo Padre nei viaggi apostolici insieme ad altri giornalisti, egli aveva in un certo senso esaurito le domande di taglio giornalistico e così, dopo il viaggio in Equador, Bolivia e Paraguay ha proposto al Papa l’idea di un libro-intervista nel quale si affrontasse in modo specifico il tema della misericordia.
Tornielli conosceva Bergoglio già da parecchio tempo ed era rimasto affascinato da quella sua paternità spirituale e da quel suo modo di fare dal quale traspare il volto della misericordia di Dio. Su questo tema, secondo Tornielli, c’è stato un crescendo di interesse da parte dei Papi a partire da Giovanni XXIII: non che prima del “Papa buono” il tema della Misericordia fosse sconosciuto, ci mancherebbe, ma è stato necessario ribadirlo, poiché negli ultimi decenni si è assistito a un profondo cambiamento della società che si è lentamente allontanata da un modo di vivere e di pensare se stessa in termini cristiani.
Davanti al tema della misericordia, secondo Tornielli, ci sono due possibili atteggiamenti, prima ancora umani che cristiani: da una parte c’è chi in modo umile si lascia interrogare dalla vita e dall’altra chi si erge su un piedistallo per giudicare. Si tratta di prospettive che si sono ben cristallizzate nei vangeli e che vedono l’azione di Gesù contrapposta a quella dei farisei. Sono atteggiamenti mentali che continuano a sopravvivere anche al tempo di oggi. Secondo il giornalista è certo che se ognuno di noi guardasse con onestà se stesso, non si potrebbe fare a meno di riconoscersi bisognosi della misericordia di Dio.
E proprio sul tema della misericordia, il Papa incontra delle resistenze, anche all’interno del mondo ecclesiale. Secondo Tornielli, un certo tipo di resistenze al Papa sono “fisiologiche”, poiché rientrano nella natura delle cose, essendoci parecchie divergenze fra persona e persona. Anche Papi come Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno dovuto fare i conti, se così si può dire, con il fronte interno e pertanto sarebbero da evitare certe semplificazioni giornalistiche che tendono a presentare Papa Francesco quasi come fosse il primo Papa della storia che si imbatte in tali dinamiche. Quello che però colpisce nel caso di Papa Francesco è che coloro che storcono il naso davanti al suo ministero e alla sua azione pastorale replicano in un certo senso le incomprensioni e le ostilità degli oppositori di Gesù.
Si potrebbero fare numerosi esempi a tal proposito. Nel libro si riporta quello di una donna, madre di due figli che, non riuscendo a lavorare in maniera continuativa, e impossibilitata a garantire ai suoi figli di che vivere, si era avviata sulla strada della prostituzione. Bergoglio, che allora era un semplice prete, conoscendo la sua situazione, aveva cercato di aiutarla materialmente fornendole dei pacchi di cibo. Un giorno, questa donna si presentò al futuro Papa, ringraziandolo non solo per l’aiuto offerto, ma perché in tutto quel tempo non aveva mai smesso di chiamarla “Signora”, non facendole mai mancare la sua dignità di essere umano.
Tornielli si è poi soffermato su altri temi che ritornano spesso nelle parole di Papa Francesco come quello della distinzione fra peccato e corruzione. Il vaticanista ha sottolineato come la parola corruzione nel pensiero del Pontefice non si riferisca al denaro, alla gravità del peccato o alla sua frequenza, ma alla realtà di chi, non riconoscendosi peccatore bisognoso della misericordia di Dio, eleva il proprio peccato a sistema
Infine, il giornalista si è domandato come il cristiano non possa avere uno sguardo di compassione verso il forestiero e l’immigrato, visto che il suo Dio ha fatto entrambe le esperienze, poiché Gesù a causa dell’egoismo è nato in una stalla e a causa della cattiveria di Erode è dovuto emigrare in Egitto, che per fortuna non aveva eretto i muri come alcuni paesi cristiani dell’Europa dell’Est. Non si tratta di fare considerazioni di carattere politico, ma di attingere dalla sapienza del Vangelo. In tal senso, misericordia e perdono hanno una valenza politica e sociale.
Fotografia Silvio VenieriSAN BENEDETTO DEL TRONTO – L’associazione culturale I Luoghi della Scrittura ha organizzato per il settimo anno consecutivo Piceno d’Autore. All’interno dell’evento, nella sezione L’uomo, il divino, il sacro insigni personaggi rifletteranno su varie tematiche religiose. Già il 12 luglio, il filosofo Massimo Cacciari ha riflettuto sul concetto di sacro. Fra gli altri segnaliamo Vito Mancuso, che il 18 luglio presenterà Dio e il suo destino; il vaticanista Andrea Tornielli che presenterà il 19 luglio il libro-intervista a Papa Francesco Il nome di Dio è Misericordia; il genetista Edoardo Boncinelli che presenterà il suo volume Contro il Sacro. Perché le fedi ci rendono stupidi. Per conoscere meglio finalità e obiettivi del ciclo L’uomo, il divino, il sacro, abbiamo intervistato l’Avv. Silvio Venieri, Segretario de I Luoghi della Scrittura.
Come mai la vostra associazione ha scelto di proporre quest’anno un tema così impegnativo in piena estate?
L’atteggiamento rilassato che è permesso vivere durante la stagione estiva può costituire una condizione propizia per dedicarsi all’approfondimento di temi impegnativi, che rischiano di essere trascurati a causa degli affanni quotidiani. Ritengo che non sia concepibile definire un’antropologia dell’uomo senza considerare la dimensione del divino e del sacro, con una valenza pregna di implicanze anche nella nostra contemporaneità; allora, si potrebbe ribaltare la domanda: perché mai non occuparsi del rapporto che l’uomo vive con il concetto del divino e del sacro ?
La prima serata che ha visto come protagonista il Prof. Cacciari è stato un assoluto successo con una straordinaria partecipazione di pubblico. Secondo lei è stato un nome così importante a richiamare così tante persone o c’è un reale interesse verso il tema del sacro e della religiosità?
Sicuramente il Prof. Massimo Cacciari costituisce una personalità di grande richiamo, ma, a parte la folta partecipazione di pubblico, quello che più conta in termini di soddisfazione per noi organizzatori dell’Associazione I Luoghi della Scrittura è aver riscontrato un clima di grande attenzione e concentrazione nell’uditorio. Raccogliendo le impressioni dei presenti, mi ha colpito la capacità di penetrazione che hanno avuto soprattutto le considerazioni svolte in riferimento alla figura di Gesù, trattata dal prof. Cacciari partendo dall’ottica storico-filologica e non su presupposti di fede, come ha spiegato lo stesso.
Scorrendo i nomi degli invitati sembra che ci sarà sul tema una polifonia di voci…
Abbiamo riscontrato che gli autori in questione, di sicuro spessore e con una fama già diffusa, avevano avuto modo nei loro ultimi lavori di trattare argomenti collegabili al tema della rassegna, non solo Mancuso, Tornielli, Boncinelli, con i loro saggi, ma anche Paolo Di Paolo, che, con la sua opera di narrativa Una storia quasi solo d’amore, ha modo di delineare la figura di una donna, co-protagonista del romanzo, che vive la sua esperienza di fede all’interno della Chiesa Cattolica all’epoca di Papa Francesco. Lo stesso scrittore ha riconosciuto che il tema prescelto si attagliava benissimo alla storia narrata nel suo libro.
Si parla di Sacro, ma non c’è una figura religiosa. Si tratta di una scelta mirata?
Il nome di Dio è Misericordia di Andrea Tornielli, come è noto, è un intervista a Papa Francesco sulla misericordia, per cui l’opera si dipana intorno al pensiero del Sommo Pontefice.
Non può disconoscersi che la teoria e la pratica della religione non possano ritenersi monopolio esclusivo dei religiosi appartenenti agli ordini ecclesiastici, ma che siano sicuramente patrimonio anche del cosiddetto “mondo laico”. Così come non si può negare che vi sia una religiosità popolare che bordeggia tra il sacro e il profano, come ci spiegherà, in relazione alle esperienze che fanno capo al nostro territorio, la prof.ssa Benedetta Trevisan in un altro incontro previsto in programma.
Venerdì 27 maggio, presso il centro Biancazzurro si è svolta la presentazione del libro L’Amore che guarisce, di Giulia Ciriaci e Ascenza Mancini che hanno presentato al numeroso e variegato pubblico l’esperienza di vita e di fede di Francesco Vittorio Massetti, sacerdote sambenedettese tanto grande quanto purtroppo sconosciuto. Le autrici hanno così tratteggiato la figura di don Vittorio, un vero profeta che ha anticipato con la sua vita e le sue opere quanto sarebbe poi sbocciato col Concilio Vaticano II: basti pensare al tema della chiamata universale alla santità, all’importanza data ai laici e in particolar modo alle donne, alla proposta di vita comunitaria per i sacerdoti. Queste intuizioni hanno preso consistenza a partire dal binomio che più ha connotato la sua esistenza: l’affidamento alla Provvidenza e la gratuità dell’azione svolta a favore degli ultimi.
L’incontro è stato impreziosito dalla presenza di don Gianni Anelli, canonico penitenziere della Cattedrale di San Benedetto del Tronto, che ha conosciuto don Vittorio ed è rimasto influenzato dal suo carisma. Durante il suo intervento, don Gianni ha espresso tutta la sua gratitudine alle autrici per questo volume che restituisce alla Chiesa la figura di don Vittorio nella sua interezza. Don Gianni è stato la fonte alla quale le autrici hanno attinto per riportare alla luce la figura di don Vittorio e l’anziano sacerdote si è prestato a questo lavoro sentendolo come una sorta di debito verso don Vittorio.
Al prof. Giancarlo Brandimarte e a Giuseppe Gregori sono stati affidate le letture di alcuni brani che hanno consentito ai partecipanti una più diretta introduzione nel vissuto di questo sacerdote chiamato “Vitto” dai sambenedettesi, “Franz” dagli studenti del collegio Augustinianum della Cattolica a Milano di cui è stato direttore, nome quest’ultimo che gli era stato dato dal Beato Piergiorgio Frassati, suo compagno di studi universitari.
Ma la figura di don Vittorio, così come è tratteggiata nel libro, ha da dire ancora qualcosa alla gente di oggi oppure quella delle autrici è una semplice rievocazione storica? Questa è la domanda che Giulia Ciriaci e Ascenza Mancini hanno fatto all’inizio dell’incontro e che ha accompagnato l’intera presentazione. Alla fine la risposta è venuta da sola: la vita dell’uomo, prima ancora che del sacerdote, è stata tutta poggiata su Cristo e pertanto essa risulta vera, autentica e capace dunque di valicare i limiti del tempo.
Al termine della serata ha preso la parola il vescovo Mons. Carlo Bresciani che ha detto come la storia narrata nel libro gli abbia consentito di ripercorrere alcuni momenti della sua vita e di poterli ricollegare alla figura di don Vittorio. Infatti, don Vittorio, che sotto il pontificato di Pio XII era stato condannato dal Sant’Uffizio, recuperò la pienezza del sacerdozio sotto Paolo VI, ma preferì trasferirsi a Brescia presso l’amico don Re, prete che l’allora giovane sacerdote Carlo Bresciani frequentava. Ora, improvvisamente, Mons. Bresciani è riuscito a dare un nome a quel sacerdote anziano e spesso silenzioso che gli vedeva accanto: si trattava proprio di don Francesco Vittorio Massetti! Infine, il vescovo ha sottolineato come tra le tante cose realizzate da don Vittorio, la più grande sia stata quella di rimanere fedele alla Chiesa durante tutta la persecuzione subita.
L’Atlante Storico del Concilio Vaticano II, diretto da Alberto Melloni e curato da Enrico Galavotti e da Federico Ruozzi, tutti docenti di Storia del Cristianesimo, è edito dalla Jaca Book e costituisce quasi il sesto volume della monumentale opera Storia del Concilio Vaticano II, curata da Giuseppe Alberigo. Come Alberigo si era ispirato alla Storia del Concilio di Trento di Jedin per realizzare la sua più importante opera sul Vaticano II, così Alberto Melloni ha tratto spunto dallo stesso storico tedesco e dal suo Atlante di Storia della Chiesa per realizzare l’opera che presentiamo. Il volume è un indispensabile strumento non solo per gli specialisti, ma per chiunque voglia accostarsi allo studio di quello che, giustamente, è stato definito l’evento storico religioso più importante del XX secolo.
L’atlante si sviluppa su un duplice asse spazio-temporale. Da una parte ripercorre l’intera storia del Concilio Vaticano II, dall’annuncio dato da Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959, alla sua chiusura, ad opera di Paolo VI, l’8 dicembre 1965. Il lettore è così guidato per l’intero arco temporale delle 4 sessioni in cui il Concilio si è svolto. Dall’altra si mostrano i luoghi e gli spazi nei quali il Concilio si svolse: mentre alcune planimetrie (p. 80 e p. 88) ci mostrano la conformazione dell’aula conciliare e come i padri vi erano disposti, altre addirittura ci offrono la possibilità di capire presso quali istituti erano alloggiati i vescovi (p. 149) o dove avevano sede le avarie commissioni, conferenze episcopali e gruppi. Per comprendere le modalità di svolgimento e attuazione dei vari periodi del Concilio, sono utili le infografiche relative alle frasi antepreparatoria e preparatoria (p.51) e ai regolamenti procedurali (pp. 100-101).
Per quanto riguarda coloro che presero parte ai lavori conciliari, una tavola, oltre a fornire tutti i nomi dei partecipanti, in ordine alfabetico, illustra anche a quali sessioni hanno presenziato (pp. 265-277). Al fine della ricerca, risultano anche molto utili le tavole che indicano i componenti degli organi direttivi del Concilio e delle Commissioni (pp.126-133). Un ottimo apparato fotografico consente di dare un volto a molti dei protagonisti dell’assise ecumenica e la scelta di arricchire l’opera con un abbondante numero di foto dell’epoca, tutte in altissima definizione, mette in evidenza la volontà degli autori di raccontare un Concilio che non è costituito solo da documenti, ma soprattutto da quelle persone che, provenendo da ogni parte del mondo, hanno contribuito a scrivere questa importante pagina della storia della Chiesa. Questa operazione, che restituisce viva plasticità al Concilio, è facilitata anche da un buon numero di grafici, istogrammi “a torta” e cartine geografiche (pp.84-87) che ci illustrano la composizione dei padri conciliari per provenienza.
Non mancano cifre e curiosità come ad esempio quelle che riguardano i costi per la realizzazione del Concilio, calcolati in 4.562.007.733 di lire o quelle inerenti i momenti di relax per i padri conciliari, per i quali all’interno della Basilica Vaticana vennero istituiti due punti di ristoro dai nomi biblici “Bar-Jona” e “Bar-Abba” (p. 147)!
ROMA – Martedì 17 maggio, alle ore 17.00, presso la Sala Guglielmo Marconi di Radio Vaticana è stato presentato il volume La diplomazia pontificia. Aspetti Ecclesiastico-canonici di Matteo Cantori, giovanissimo autore osimano al suo esordio. Hanno relazionato sul tema Mons. Giovanni Tonucci, Delegato Pontificio per la Basilica della Santa Casa e già Nunzio Apostolico in Bolivia, Kenia, Svezia, Danimarca, Finlandia, Islanda e Norvegia e Pierre-Yves Fux, Ambasciatore della Confederazione Elvetica presso la Santa Sede. Ha fatto gli onori di casa il Dott. Fabio Colagrande, redattore di Radio Vaticana.
Introducendo l’incontro, il Dott. Colagrande ha esordito dicendo che il volume di Matteo Cantori va a colmare un vuoto che era avvertito anche dagli operatori del mondo della comunicazione. Il lavoro, rigoroso e scientifico e allo stesso tempo divulgativo, ha un taglio storico e aiuta a comprendere il compito di un nunzio pontificio che può essere definito un “ambasciatore sui generis” poiché unisce alle tradizionali funzioni diplomatiche quelle pastorali. Proprio giovedì scorso il Papa, in visita alla Pontificia Accademia Ecclesiastica, l’istituzione che ha il compito di formare i diplomatici della Santa Sede, ha detto che l’opera del nunzio apostolico deve essere ispirata a intelligenza, arte e carità. Possiamo dire che sotto il pontificato di Papa Francesco i nunzi saranno chiamati a disegnare una geopolitica della misericordia attraverso una diplomazia della tenerezza.
Mons. Tonucci ha affermato che il lavoro che si svolge nelle nunziatura, come quello nelle ambasciate, è poco conosciuto e questo non permette di rendersi conto di quanto le ambasciate siano strumenti di dialogo sincero, aperto e schietto. Facendo una battuta, il prelato ha affermato che i politici combinano i guai e i diplomatici li risolvono! Nel suo servizio, un nunzio apostolico è chiamato a gestire i rapporti fra la Santa Sede e gli stati, proprio come farebbe qualsiasi altro diplomatico. Inoltre egli si interessa dei cattolici che vivono nello stato nel quale è accreditato. La sua attività è molto più sbilanciata su questo versante. In particolare, suo gravissimo compito è quello di aiutare il Papa nella scelta di chi può essere vescovo. Nella sua attività di ambasciatore del Papa, il nunzio non crea interferenze o sovrapposizioni con l’episcopato locale, poiché egli può intervenire direttamente nella vita della Chiesa locale solo se espressamente richiesto dalla Santa Sede. Il testo di Matteo Cantori aiuta ad addentrarsi in queste dinamiche e, come già detto, colma un vuoto, poiché testi autorevoli come quello di Mons. Cardinale e di Mons. Oliveri non sono più in commercio.
Ha preso poi la parola Sua Eccellenza Pierre-Yves Fux che ha ricordato come una volta, durante un viaggio in treno, un abate gli abbia chiesto come mai la Santa Sede non si decida a chiudere le nunziature. L’episodio denota ancora una volta come il lavoro delle nunziature sia sconosciuto e sottovalutato. La lettura del volume di Matteo Cantori avrebbe potuto dare a quell’abate una esauriente risposta! Il nunzio è un po’ come il decano del corpo diplomatico ed è in questo ambiente una figura più stabile rispetto a quella degli ambasciatori che cambiano sede diplomatica ogni 4 anni. Inoltre, il nunzio, quando scoppia una guerra e le ambasciate hanno l’obbligo di essere evacuate, è sempre l’ultimo ad abbandonare il suo ufficio. Per queste caratteristiche è diventato un importante punto di riferimento nel mondo delle relazioni internazionali. Per quanto riguarda l’attività diplomatica della Confederazione Svizzera e della Santa Sede si possono notare alcune affinità: sia la Svizzera che la Città del Vaticano sono stati neutrali, entrambe hanno una naturale vocazione nella promozione del diritto umanitario. Non bisogna poi dimenticare che fra gli svizzeri vengono reclutati gli uomini che difendono la vita del Papa. Nell’attuale contesto storico, oltre alla diplomazia degli stati, si rivela particolarmente preziosa quella delle religioni, portata avanti proprio dai nunzi.
imageLa Madonna Sistina è un’opera di Raffaello, dipinta fra il 1513 e il 1514, ovvero pochi anni prima dell’inizio della riforma protestante, che sarebbe scaturita nel 1517 con l’affissione delle 95 tesi di Lutero sul portone della cattedrale di Wittenberg. Raffaello morì nel 1520, l’anno in cui Lutero scrisse tre opuscoli con i quali ruppe definitivamente con la Chiesa cattolica.
Alla luce di questi dati cronologici, è evidente che fra il dipinto di Raffaello e la riforma protestante non ci possa essere nessun tipo di collegamento, eppure la Madonna Sistina sembra offrire in anticipo delle risposte a quelle che saranno le concezioni luterane sulla salvezza e sulla chiesa.
Nella visione protestante, la salvezza è offerta esclusivamente da Gesù Cristo, unico mediatore fra Dio e gli uomini. Qui invece Raffaello sembra esporre in immagini quella che è la visione cattolica: Gesù, principale mediatore fra Dio e gli uomini, è offerto ai fedeli-spettatori per il tramite di altri mediatori che in qualche modo cooperano all’opera di salvezza: sua madre, una santa e un papa.
Raffaello ha dipinto Maria nel gesto di donarci Gesù. Nella Madre che ci offre il Figlio, sta tutto il paradosso di un Dio che viene a salvarci attraverso una sua creatura: la nostra redenzione inizia con la mediazione di Maria.
Un ulteriore ruolo di mediazione è svolto dai santi. Questa azione di intercessione è rappresentata da Santa Barbara, riconoscibile dalla torre alle sue spalle. La Santa, inginocchiata alla sinistra della Madonna, rivolge il suo sguardo compassionevole verso l’umanità peccatrice.
Anche la Chiesa svolge una mediazione fra Dio e gli uomini. Questa sua funzione è rappresentata da Papa Sisto che possiamo vedere, anch’egli inginocchiato, alla destra di Maria. Il Pontefice rivolge lo sguardo verso verso Maria e Gesù, mentre con la mano destra mostra loro gli uomini.
Nella visione Luterana, la Chiesa è costituita dai santi che solo Dio conosce e dunque è una realtà esclusivamente spirituale. Per i cattolici invece, la chiesa è una realtà ben riconoscibile e visibile sintetizzata nel dipinto di Raffello dalla Madonna (da sempre icona della Chiesa), da Papa Sisto (aspetto istituzionale) e da Santa Barbara (aspetto carismatico).
Questa “triade” nel dipinto sovrasta due angioletti pensosi e che richiamano quella che nella storia dell’arte è il tema dell’invidia degli angeli. Nelle antiche icone della Natività gli angeli osservavano con una certa perplessità la nascita di Gesù, perché si stavano rendendo conto che la salvezza sarebbe venuta dal Verbo incarnato e non da una creatura puramente spirituale come loro.
Allo stesso modo, in questo dipinto l’idea di una chiesa visibile sembra trionfare su una realtà meramente spirituale. È la glorificazione del terreno, del materiale e del visibile in una logica che ricorda il motto “Caro cardi salutis” (= la carne è il cardi e della salvezza) di Tertulliano.