Nicola Rosetti
ROMA – Nell’Aula della Conciliazione del Palazzo del Laterano, la stessa dove l’11 febbraio vennero firmati i Patti Lateranensi, si è svolto giovedì 24 gennaio un incontro di riflessione sulla Dei Verbum al termine del quale abbiamo intervistato, insieme alla collega di Radio Vaticana Marina Tomarro, Sua Eccellenza Mons. Rino Fisichella, Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione.
Qual è il modo migliore di comunicare il vangelo oggi?
Innanzitutto bisogna conoscere, non c’è comunicazione vera se non c’è una conoscenza diretta. Qui però stiamo parlando della Parola di Dio e quindi ci vuole una frequentazione quotidiana. Ci vuole soprattutto l’ascolto: è necessario che sia la parola di Dio a provocare la mia mente e il mio cuore. Spesso ci si dimentica della dimensione del silenzio, mentre sono convinto che la prima forma, la prima fonte della comunicazione sia il silenzio. La comunicazione deve essere soprattutto quella interpersonale. Nel momento in cui siamo dinnanzi ad una nuova cultura mediatica e, quindi, a tanti strumenti che si moltiplicano velocemente, per la trasmissione della fede ritengo che l’orizzonte privilegiato e fondamentale sia quello dell’incontro personale. Debbono sempre esserci 2 persone che si incontrano, si guardano nel volto. Uno annuncia e l’altro comprende se c’è veramente questa dimensione di grande spiritualità e di credibilità
Nella sua relazione lei ha detto che la fede non può fare a meno della scienza. Cosa vuol dire?
Significa che se non abbiamo un pensiero forte anche la fede conseguentemente è debole. La fede ha bisogno del pensiero, ha bisogno anche della ricerca scientifica. Per quanto riguarda una comprensione più diretta della Parola di Dio e quindi del testo sacro, la scienza ci consente, attraverso l’ermeneutica attraverso le diverse scienze che entrano nel linguaggio ma anche attraverso l’archeologia a riscoprire quelle che sono gli elementi storici che sono presenti nella Sacra Scrittura. Ma direi anche che tutti quei progressi del campo scientifico che ci consentano di conoscere meglio la nostra storia ci permettono anche di arricchire sempre di più il nostro patrimonio culturale
Perché oggi, in questo contesto di crisi, c’è questo grande desiderio di riscoprire la Sacra Scrittura?
Perché l’uomo da sempre è alla ricerca del senso della propria vita e nella Sacra Scrittura Dio ci fa comprendere quanto importante sia rientrare in noi stessi. E possiamo conoscere pienamente noi stessi se conosciamo Lui in un rapporto costante e dinamico. Se ho desiderio di conoscere in profondità me stesso e di comprendere l’enigmaticità della mia esistenza e ho bisogno di porre la mia vita alla luce del Mistero di Cristo. Ecco perché la Sacra Scrittura è importante, perché passo dopo passo mi consente di compiere un cammino con la mia stessa esistenza personale. Non c’è pagina della Sacra Scrittura che sia distante, che sia lontana da me. Ogni pagina è una provocazione, un invito a conoscermi meglio e a capire qual è il mio futuro e il mio fine ultimo da raggiungere
Anche Sua Eminanza il Cardinale Agostino Vallini, Vicario Generale di Sua Santità per la Diocesi di Roma, ha gentilmente risposto alle nostre domande e l’intervista sarà pubblicata domani
ROMA – Nel prestigioso e centralissimo Collegio Urbano di Propaganda Fide abbiamo intervistato in esclusiva per l’Ancora Sua Eccellenza Gerhard Ludwig Müller, Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, la stessa presieduta da Benedetto XVI prima di diventare Papa. L’attuale custode dell’ortodossia cattolica è nato il 31 dicembre 1947 a Finthen in Germania. L’11 febbraio 1978 è diventato sacerdote della diocesi di Magonza. Dal 2002 al 2012 è stato alla guida della Diocesi di Ratisbona. Dal 2 luglio 2012, per volere del Santo Padre, è stato nominato Prefetto della suddetta Congregazione.
Eccellenza, Lei oggi occupa il posto che fu dell’allora Cardinale Ratzinger. Quali sono i suoi sentimenti nei confronti del Santo Padre che l’ha scelta per un ruolo così importante e delicato e con quale spirito lei intende svolgere questo servizio per la Chiesa?
La scelta della mia persona chiaramente mi ha commosso, perché il Santo Padre, già quando era Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ed ora che è Papa, ha dimostrato di essere un grande modello sia sul piano intellettuale, che su quello spirituale, dotato di una grande conoscenza della filosofia moderna e della vita intellettuale di oggi. Conosciamo tutti le sfide del mondo odierno che riguardo la pace fra i popoli, la vita sociale, la vita morale. Oggi molti dicono che la Chiesa si debba impegnare solo per la carità, debba essere una Chiesa della carità e della misericordia, perché la verità è una realtà soggettiva, personale; non esiste la verità come tale, ma solo una sola verità a livello individuale. Ma senza la base della verità non ci può essere una vita autentica per gli uomini. La carità, senza la verità, sarebbe solo un sentimento senza fondamento. C’è dunque una unità tra la verità e la carità. La chiesa cattolica è quasi l’unica comunità cristiana che dice espressamente questa verità per la vita di oggi, per la società, non solo per il presente ma anche per il futuro. Sono convinto che i politici, gli economisti non bastano per risolvere i problemi dell’umanità di oggi. Solo la verità di Dio può salvare in modo compiuto gli uomini e la Chiesa è il sacramento della presenza salvifica di Dio. La Chiesa è l’avanguardia del futuro, anche se molti mass media e parte dell’opinione pubblica, troppo spesso non riconoscono ciò. Solo riportando al centro la verità possiamo risolvere dal profondo i problemi dell’uomo.
Pensa che la Chiesa sia rimasta quasi sola nel difendere la verità o può godere della buona compagnia della società o almeno di una larga parte di essa?
La Chiesa ha il compito di annunciare il Vangelo a tutti gli uomini di buona volontà e ne esistono molti. La Chiesa poi non è un qualsiasi partito dentro la storia, la filosofia o la morale, ma è la presenza sacramentale della verità di Dio che è apparso in Gesù Cristo che si è fatto carne ed è presente fra di noi.
Lei ha curato l’Opera Omnia del teologo Joseph Ratzinzer. A quale opera si sente maggiormente legato e per quale motivo?
Mi sento legato a diverse opere importanti. Ovviamente sono particolarmente attento agli scritti più prettamente teologici, per esempio il volume su San Bonaventura che il giovane teologo Ratzinger scrisse per l’abilitazione all’insegnamento in Germania. In tale opera egli presenta la sua concezione classica della rivelazione che non è solo una informazione da parte di Dio, ma quasi una comunicazione di lui all’uomo. La fede degli uomini, non del singolo uomo, ma di tutta la comunità dei credenti, per mezzo della professione di fede, fa giungere la Rivelazione fino a noi.
Fra qualche giorno, in occasione della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, ci uniremo con i nostri fratelli separati per invocare da Dio il dono dell’unità. Il Santo Padre ha fatto dei grandi passi con i fratelli anglicani. La Chiesa sta pensando di percorrere una via simile con i fratelli luterani?
Il mondo luterano è un po’ diverso da quello anglicano, perché fra gli anglicani c’è sempre stata un’ala più vicina al cattolicesimo. Molte persone di questa corrente sono vicine alla chiesa cattolica, scontenti anche di alcuni sviluppi della comunità anglicana. Mi riferisco per esempio all’accettazione dell’ordinazione delle donne come diaconi, presbiteri o vescovi. Perciò questi anglicani si sono messi in cammino e sono entrati nella chiesa cattolica. Per i Luterani è un po’ diverso, ma anche qui ci sono alcuni movimenti che vogliono avere la comunione completa con la Chiesa Cattolica perché dicono che Lutero, per esempio, non voleva la separazione e la divisione dei cristiani, ma intendeva solo riformare la Chiesa. Dicono inoltre che oggi, dopo il Concilio Vaticano II, tutte queste esigenze della riforma protestante, come per esempio, la partecipazione dei laici alla vita della chiesa e della liturgia, si sono compiute e realizzate nella Chiesa Cattolica. Per questo motivo vogliono farsi cattolici in piena comunione con la chiesa e noi dobbiamo essere preparati ad accettare, quando vorranno essere membri della chiesa cattolica, affinché possano entrare in essa, anche conservando le legittime tradizioni che hanno sviluppato. Per esempio in Germania, la terra dalla quale io provengo, i protestanti non sono solo una contrapposizione al cattolicesimo, perché hanno conservato molte tradizioni cattoliche.
Come Prefetto per la Congregazione della Dottrina della Fede, qual è il frutto che più si auspica per questo Anno della Fede?
Mi auguro che i cristiani riscoprano quanto è grande la dignità della loro vocazione e che non diano retta a quei falsi profeti che dicono che il mondo di oggi non ha bisogno di Dio, di un senso della vita. Spero che tutti noi che siamo cristiani possiamo prendere coscienza e conoscenza della vocazione divina che abbiamo ricevuto essendo stati creati secondo l’immagine di Dio e chiamati da Gesù Cristo a essere figli di un unico Padre.
MONTEPRANDONE – Poco prima della sua esibizione, avvenuta mercoledì 2 gennaio nella chiesa di San Giacomo della Marca di Monteprandone, abbiamo conosciuto e intervistato Fra Alessandro da Assisi che attraverso il canto si propone di fare un’opera di nuova evangelizzazione. Ci ha colpito per la sua gioiosità e semplicità tipicamente francescane e per il modo in cui ci ha spiegato il ruolo che la musica ha nel panorama della missione evangelizzatrice della Chiesa oggi. Frate Alessandro ci ha anche detto che è venuto a Monteprandone con grande piacere, quasi in pellegrinaggio nella chiesa di San Giacomo, poiché il suo nome da religioso è proprio “Giacomo”.
Ci puoi descrivere le tappe salienti della tua formazione artistica che ti hanno portato da Perugia, città dove sei nato, a Londra, dove hai inciso, negli stessi studi dove si sono esibiti i Beatles, l’album “Voices from Assisi”? È venuta prima la vocazione religiosa o quella per la musica?
È venuta prima la vocazione per la musica, o meglio, si è palesata prima, perché in realtà sono nate insieme. Il Signore ha sempre un progetto nella persona e scrive la storia con la persona mano a mano che va avanti nel cammino. Dio poi ti lascia libero, dialoga con te, vede quello che accade nella tua vita, nella tua storia e a mano a mano ti porta sempre avanti, fino ad arrivare alla missione compiuta. Ho cominciato a studiare musica quando avevo nove anni. Ho cominciato col solfeggio per due anni. Per un bambino è piuttosto duro a fare solo solfeggio senza suonare, e così suonavo anche di nascosto! Poi quando ho avuto 15 anni mi sono iscritto al corso di organo al conservatorio perché volevo fare l’organista. La passione per la musica è nata seguendo quelli che per me sono due grandi maestri: Bach e Michael Jackson . Ascoltavo la loro musica e allora volevo fare l’organista. A livello musicale mi sarebbe piaciuto di più diventare organista piuttosto che compositore di musica pop, comunque capivo anche che per fare musica pop c’era bisogno di una base classica. Così ho cominciato il corso, poi ho portato avanti la sperimentazione musicale magistrale dove ho imparato molto di musica e poi ho cominciato canto quando avevo 18 anni, un po’ per scherzo, un po’ per gioco. Nel frattempo quando avevo 16 anni, ho avuto un momento molto molto grande di conversione che mi ha aiutato ad andare avanti e ad uscire fuori da una crisi profonda di tensione spirituale. Poi subito dopo ho desiderato di dare tutta la mia vita a Dio perché dicevo che se Dio si è dato tutto anche io volevo dare tutto e questa cosa è andata avanti nel silenzio e nel mio cuore, perché avevo paura. Non avevo detto niente a nessuno, era una cosa che non sapevo quanto veramente volessi , era forte, ma allo stesso tempo mi spaventava, tutto quello che un ragazzo di 16 anni può provare. A 19 anni ho deciso di tagliare la testa al toro e mi sono fatto dare una mano andando ad Assisi dove ho chiesto aiuto ad un frate che mi ha seguito per due anni. All’inizio di questo cammino ho voluto fare un gesto che era quello dell’abbandonare lo studio dell’organo, come per dire: “Ecco adesso penso solo a Te, caro mio Dio”. Non so quanto ho fatto veramente bene, ma posso sicuramente dire che mi è stato utile per capire a cosa veramente tenevo. Dopo sono entrato in convento, ho continuo a seguire il canto anche se all’inizio non andava molto bene. Poi ho iniziato anche a seguire i frati nel canto. La mia talent scout è stata Caterina Sharp, una cantante di Perugia che non conoscevo, ma che mi ha sentito cantare in uno dei piccoli concerti che organizzavo e lei ha insistito perché facessi un’audizione, anche se io mi rifiutavo perché non era quello che cercavo, finché lei mi ha organizzato l’audizione dicendomi di andare a casa sua perché era già tutto organizzato. Lì c’era un manager che era pronto ad ascoltarmi. Sono andato a casa sua, ho fatto una prima audizione, poi questo manager mi ha chiesto un’altra audizione con la Decca e al termine mi hanno proposto di fare il CD. Io non cercavo questo, ma mi ci sono trovato e ho pensato che questa potesse essere un’occasione di evangelizzazione
Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno insistito sulla “via pulchretudinis”, la via della bellezza. In che modo secondo te la musica può avvicinare a Dio?
La musica è la voce di Dio per cui avvicina a lui, perché tocca direttamente il cuore, entra dentro tocca e ricrea, perché se la voce di Dio ha creato il mondo, quando Dio torna a parlare con la musica ricrea di nuovo. La musica congiunge a Dio in modo connaturale, chiunque fa esperienza di musica fa un’esperienza di Dio, chiunque fa esperienza di bellezza fa esperienza di Dio, perché Dio è bellezza. È diretta, è immediata, non c’è bisogno di ragionarci, è semplice!
Il Cristianesimo è stato determinante per lo sviluppo della musica. Basta pensare all’invenzione delle note ad opera del monaco benedettino Guido d’Arezzo. Quale compositore secondo te si è avvicinato maggiormente con la sua produzione artistica al divino?
Bach e Palestrina sono gli autori che secondo me maggiormente si sono avvicinati al mistero di Dio. Palestrina perché dietro a tutta la sua produzione c’è una naturalità della melodia. Lui ha seguito la natura, tu senti le sue melodie e capisci che non poteva essere diversamente. Se ascolti un mottetto palestriniano dici che non poteva essere diversamente, non c’è una soluzione migliore di quella del “Sicut cervus” . Bach perché ha reso la sua musica un simbolo. La sua produzione è tutta simbolica e questo significa che parla lo stesso linguaggio di Dio che è simbolico, la bellezza è simbolica.
Ci hai già detto che fra gli autori profani provi particolare ammirazione per Michael Jackson . Cosa ti piace di lui?
Michael Jackson mi ha sempre affascinato per la sua musica e soprattutto per la sua testimonianza: lui riconosceva nella sua musica un’origine divina, come anche nella sua danza. In tutta l’arte che faceva, lui ha sempre detto “Non è roba mia, è roba che viene da Dio e non è per me, io sono solo un tramite”. Detto da uno che non cristiano è particolarmente interessante
Tornando alla musica sacra, quale è il pezzo che maggiormente ti piace proporre al pubblico, quello che ti emoziona di più, quello che quando esegui di fa vibrare?
A me piace molto l’Ave Maria di Mascagni. Per me è molto profondo e mi commuove tantissimo ogni volta che lo interpreto
Qual è il tuo giudizio sul canto sacro che si è sviluppato dopo il Concilio Vaticano II? A volte ascoltiamo durante la liturgia brani non sempre all’altezza del mistero che si sta celebrando…
È una questione semplicemente di ordine. C è musica per la liturgia, musica sacra e musica di evangelizzazione. Io credo che il problema sia la confusione che si faccia fra queste due realtà. Faccio un esempio: molti canti dei movimenti , come quelli del Rinnovamento o del Gen, sono ben fatti, per cui capisci che sono bei canti, che riescono a commuovere, a convertire. Ma questo non basta per farli entrare nella liturgia perché è la Chiesa stessa che ci chiede e ci dà i criteri per far sì che possano entrare nella liturgia e il criterio fondamentale è la santità, intesa come distinzione dal profano. Se una canzone assomiglia ad un brano pop, per quanto possa essere utile per la conversione, non è utile per la liturgia.. Per cui basta seguire queste indicazioni e tutto prende ordine da sé. Non partirei col dire “Questo va bene, questo è quello giusto, questo invece è sbagliato”. Bisogna partire da un ordine, quando c’è un moto, un qualcosa che ti ispira, anche un brano di musica rock cristiana può andare bene, non è un male, basta dargli il giusto posto. Nella liturgia in brano del genere non può entrare, però perché non fare ad esempio dei concerti di evangelizzazione ? lo fanno i protestanti, potremmo farlo anche noi cattolici.
Francisco Goya nel 1814 al termine della guerra d’indipendenza spagnola dall’invasore francese dipinse la celebre tela “3 maggio 1808″ conservata oggi al Museo del Prado di Madrid. Ho potuto ammirare personalmente quest’opera e devo dire che fra tutti i capolavori che, un po’ per passione, un po’ per lavoro, ho avuto la possibilità di osservare, questa è quella che senza dubbio mi ha suscitato una particolare emozione.
Il dipinto rappresenta una drammatica esecuzione. Le milizie francesi stanno fucilando alcuni popolani madrileni. Di questi ultimi, al contrario dei primi, scorgiamo i volti pieni di terrore. Alle uniformi dei soldati si contrappongono gli abiti semplici e variegati dei civili che sono già stati uccisi o che stanno per morire. Fra essi si scorge anche un frate. La luce di una lanterna, parzialmente coperta dalle figure dei soldati, illumina invece a giorno le vittime e fra queste in particolare l’uomo che attende il colpo fatale spalancando le braccia verso il cielo, quel cielo buio che ammanta la città dalla quale sono stati prelevati.
Si può parlare di un’opera d’arte solo quando l’artista riesce a toccare il cuore dello spettatore indirizzandolo verso qualcosa di più grande e credo che Goya sia riuscito in questo rappresentando magistralmente il dramma dell’uomo contemporaneo, quello del 1808 come quello del 2012.
La cultura dei lumi voleva staccare l’uomo dalle sue radici, dalle sue abitudini e dalle sue certezze ed ecco perché l’esecuzione avviene lontano dalla città. Madrid, con le sue case che evocano la vita di tutti i giorni e col suo campanile che ci ricorda la dimensione religiosa della vita, si vede in lontananza, è avvolta dalle tenebre come a significare che per l’esercito invasore la vita degli spagnoli deve uscire dal buio.
Ed ecco allora in primo piano l’esercito francese, venuto a portare la luce, simbolizzata dalla lanterna. Questa luce però è morte per il popolo spagnolo. Il plotone di esecuzione è rigidamente inquadrato e forma una vera e propria macchina di morte. Quegli uomini non hanno nulla di umano ed è per questo che il pittore non ce ne fa scorgere il volto.
Essi stessi coprono quella luce che sono venuti a portare. È come se con un sol colpo Goya avesse messo in mostra tutta la contraddizione di uomini che si proclamano paladini della liberà, dell’uguaglianza e della fraternità.
Vogliono portare la libertà, eppure hanno prelevato con la forza dalle loro case uomini inermi ed ora li stanno trucidando. Fra tutte le libertà esaltano quella di religione, eppure stanno per dare alla chiesa un nuovo martire nella figura del frate. Dicono che vogliono l’uguaglianza, ma le loro uniformi ci parlano solo di una grigia omologazione. Sono a favore della fraternità eppure non esitano a sgominare i loro simili.
Fra tutte le figure dei condannati si staglia quella dell’uomo che spalanca le braccia come un novello Cristo in croce, vittima di un odio cieco e feroce come quello di chi disse: “È meglio che muoia uno solo per il popolo piuttosto che perisca l’intera nazione” (Gv 11,50).
Non vive forse un analogo dramma l’uomo contemporaneo? Ad opera di alcune elites intellettuali, egli è stato allontanato dal suo back-ground culturale e religioso con la (falsa) promessa di un mondo nuovo e trasfigurato e si ritrova invece in una immensa solitudine, amalgamato ad una massa indistinta e oppresso da una schiacciante burocrazia.
È forse ammirando questo quadro che si può trovare la forza e il coraggio di un nuovo sguardo che ci consenta di trovare le risposte ai problemi dell’uomo odierno.
In questi giorni, come ogni anno, nelle nostre case stiamo allestendo il presepe. Può essere allora utile per ognuno di noi rispolverarne la storia e il significato.
Il primo presepe della storia fu “inventato” da San Francesco la notte di Natale del 1223. Egli si trovava a Greccio e, impossibilitato a visitare la terra dove Gesù vide la luce, decise di ricreare la scena della natività in quel piccolo paese. Si deve dunque al Poverello di Assisi il primo presepe vivente.
Alla fine del XIII secolo Nicola IV, nostro conterraneo (era infatti nativo di Lisciano) e primo francescano della storia divenuto Pontefice, sulla scia del Santo di Assisi, commissionò allo scultore Arnolfo di Cambio la realizzazione del primo presepe fatto di statuine.
Questo primo presepe venne per molto tempo conservato nella cappella “Sistina” di Santa Maria Maggiore (da non confondere con la Cappella Sistina dei Musei Vaticani!) in prossimità della tomba di un altro francescano divenuto Papa, anche egli originario delle Marche, e più precisamente di Grottammare. Stiamo ovviamente parlando di Sisto V. Oggi il presepe di Arnolfo di Cambio è ospitato nel Museo di Santa Maria Maggiore.
Veniamo ora all’iconografia e cerchiamo di distinguere gli elementi che ricaviamo dai vangeli da quelli che la tradizione e la pietà hanno successivamente aggiunto. Ricordiamo anche che i vangeli che ci parlano della nascita di Gesù, quello di Matteo e quello di Luca, sono stati scritti dopo la morte e resurrezione del Signore Gesù e che quindi, in un certo senso, questi eventi hanno illuminato gli scrittori sacri mentre componevano i loro testi. Diciamo quindi subito che molte delle cose che Matteo e Luca scrivono, anticipano e prefigurano il destino di Gesù.
Iniziamo dalla grotta. Leggendo il testo del Vangelo di Luca si dice che Maria partorì il bambino, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia. Da quest’ultimo particolare possiamo dedurre che il luogo in cui il Salvatore ha visto la luce fosse proprio una grotta, infatti le grotte erano usate come stalle.
Il particolare della grotta prefigura la morte di Gesù: egli infatti, dopo essere stato tolto dalla croce, venne deposto in un sepolcro. Anche le fasce ci suggeriscono che egli sarà avvolto in teli funebri secondo le usanze ebraiche. È particolarmente significativo l’uso che Luca fa dell’espressione “avvolto in fasce”. Una prima volta egli dice che Maria partorì il bambino, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia. Poi dice che un angelo annuncia a dei pastori la nascita del Messia e che questi dice loro che lo troveranno avvolto in fasce mentre giace nella mangiatoia. La narrazione lucana prosegue dicendo che i partori andarono e trovarono il bambino nella mangiatoia, senza nominare stavolta le fasce. È come se l’evangelista ci volesse indicare che Gesù per due giorni sarà prigioniero della morte e il terzo risorgerà.
Veniamo ora alla mangiatoia. È il luogo dove si poneva il cibo da dare agli animali. Ma anche qui non siamo davanti a qualcosa di casuale. Infatti quel bambino che lì giace, darà il suo corpo come cibo di salvezza per gli uomini. La reliquia della mangiatoia si trova in una zona ipogea sotto l’altare maggiore di Santa Maria Maggiore. E’ molto significativo che la statua del Papa Pio IX, che ha voluto questa sistemazione, sia inginocchiato davanti alla reliquia della mangiatoia ma guardi allo stesso tempo l’altare, dove durante ogni messa si rinnova il mistero dell’incarnazione e Gesù si dona come cibo di salvezza.
E che dire del bue e dell’asinello? Non pochi giornali nelle passate settimane hanno riportato la notizia che Benedetto XVI vorrebbe ridisegnare l’iconografia del presepe abolendo questi due animali. Come ormai troppo spesso accade, il Papa non ha per nulla affermato una cosa del genere e ce ne possiamo accorgere leggendo pagina 83 del suo nuovo libro dedicato all’infanzia di Gesù: “Nessuna raffigurazione del presepe rinuncerà al bue e all’asino”!
Il Papa invece ha ricordato come del bue e dell’asino non si parli nel vangelo di Luca (e neppure in quello di Matteo), ma ha spiegato che la loro presenza è dovuta alla attenta e meditata lettura della Bibbia. Infatti all’inizio del libero del profeta Isaia troviamo la seguente frase: “Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone”. Il bue che conosce il suo proprietario è Israele, il popolo eletto, che conosce Dio, mentre l’asino che conosce la greppia è il simbolo dei pagani che conoscono il mondo fisico. Dunque il bue e l’asino sono il simbolo di tutta l’umanità (ebrei e non ebrei) che veglia su Gesù e lo adora.
Passiamo ora ad elementi riferiti dall’evangelista Matteo. Il 6 gennaio metteremo nel presepe i tre re magi, uno bianco, uno nero e uno giallo e questo è però un dato tradizionale! Infatti se leggiamo attentamente il testo del primo vangelo, ci accorgiamo che esso parla di alcuni (non tre!) magi (non re!) venuti dall’oriente (e non dall’Europa, dall’Africa e dall’Asia come invece suggerisce il colore della loro pelle!). Tradizionali sono anche i loro nomi Gaspare, Melchiorre e Baldassare.
Spesso vengono rappresentati uno imberbe, uno con la barba scura e uno con la barba bianca a voler rappresentare tutto l’arco della vita. Giunsero a Betlemme, ci riferisce sempre Matteo, seguendo una stella, ma non una cometa come quella che mettiamo nel Presepe. Il primo a rappresentare una stella cometa sul luogo della nascita di Gesù fu Giotto.
Angela Pellicciari si è resa nota al pubblico, e in particolare a quello cattolico, per le sue pubblicazioni sul Risorgimento nelle quali ha messo in luce gli aspetti meno noti di questo periodo della storia italiana, dando particolare risalto alle contraddizioni di diversi Padri della Patria.
L’autrice ha sempre portato avanti le sue tesi storiografiche fondandosi su documenti dell’epoca e, se si può essere in disaccordo col suo pensiero, difficilmente la si può accusare di non sostenere i suoi convincimenti su solide basi.
Il Risorgimento è figlio della Rivoluzione Francese che a sua volta affonda le radici nella Rivoluzione Protestante, fenomeno che la Pellicciari ha voluto studiare nella sua ultima fatica intitolata “Martin Lutero”, edita da Cantagalli.
L’autrice è d’accordo con il pensiero di Pio XII che vede un filo rosso che lega la Rivoluzione Protestante, quella Francese e quella Comunista e cita una frase di Papa Pacelli: “Si è partiti col dire Cristo sì, Chiesa no (protestantesimo ndr). Poi Dio sì e Cristo no (illuminismo ndr). Finalmente il grido empio: Dio è morto, anzi, Dio non è mail esistito (comunismo ndr)” (p. 78).
La Chiesa era brutta e cattiva, perseguitava ferocemente chi non era in linea col suo credo ed è per questo che si levò contro di essa la voce del paladino della libertà e della libera opinione Martin Lutero. Questa, in modo molto semplicistico, è la favola che ci hanno spesso insegnato a scuola e che l’autrice smonta partendo sempre dalle fonti, in primo luogo dagli scritti dello stesso Lutero.
Il lettore tuttavia si accosterà al testo ben distinguendo la figura di Lutero dai Luterani di oggi essendo in ciò guidato da quanto affermato dal decreto conciliare Unitatis Redintegratio che al numero 3, fra l’altro, afferma: “Quelli poi che ora nascono e sono istruiti nella fede di Cristo in tali comunità, non possono essere accusati di peccato di separazione, e la Chiesa cattolica li circonda di fraterno rispetto e di amore”.
Inoltre, leggere una pagina di storia, non è come leggere una pagina della Sacra Scrittura. Mentre quest’ultima può essere letta su due livelli, quello del testo in sé (RACCONTO) e quello del testo per me (SIGNIFICATO), una pagina di storia, specialmente quella che racconta fatti accaduti parecchi secoli fa, è chiusa nel passato e nel passato è anche incatenato il giudizio che di quel periodo storico possiamo dare.
Se da una parte è vero che la storia è maestra di vita, dall’altra è anche vero che fra i fatti narrati e valutati dall’autrice e l’uomo di oggi sono trascorsi parecchi secoli nei quali c’è stato uno sviluppo spirituale e culturale. Perciò potremo trarre giovamento dalla lettura di questo testo solo se pienamente contestualizzato.
Fatte queste opportune premesse, vediamo allora alcuni interessanti spunti per la riflessione che emergono dal testo.
rompe con la millenaria tradizione ecclesiastica e porta avanti la sua battaglia a suon di versetti biblici. Il protestantesimo infatti si basa sul principio che può essere oggetto di fede solo ciò che è fondato nella Sacra Scrittura. Non tutto però nella Bibbia soddisfa il pensiero di Lutero e dunque il “riformatore” non esita a definire una “ lettera di paglia” la Lettera di Giacomo che esalta il valore delle opera a scapito del principio della “sola fede” sostenuto da Lutero! (p. 67).
Con ciò l’autrice mette in evidenza l’approccio “ideologico” alla Scrittura di Lutero. Egli non fa parlare la Sacra Pagina, ma espunge da essa i versetti che più si confanno al suo pensiero religioso.
La stessa cosa si può dire per quanto riguarda l’interpretazione del testo sacro. Per Lutero infatti ogni fedele deve leggere la Sacra Scrittura da solo senza la mediazione della Chiesa. Questo è il suo pensiero, eppure nella stessa Bibbia si legge: “Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana fu mai creata una profezia, ma mossa da Dio” (cfr 2 Pt 1,20-21) (p. 72).
Quando poi ognuno inevitabilmente inizia a leggere a modo suo le Sacre Scritture, iniziano a sorgere altre comunità cristiane oltre a quella luterana. Non avevano forse ragione i latini nel dire “tot capita tot sententiae”!?
Come reagisce Lutero a questo pullulare di nuove comunità cristiane? Nel 1531 afferma: “Non è permesso che un Tizio qualunque venga fuori di sua testa, crei una sua propria dottrina, si spacci per un maestro Pallottola e voglia farla da maestro e biasimar chi gli piaccia”! (p. 65).
Ma non si era egli stesso analogamente opposto all’autorità del Papa qualche anno prima vestendo i panni di quel Tizio che ora biasiama?!
E questa sorta di intolleranza non si arresta alle sole parole: per placare la rivolta dei contadini di Munster che avevano dato vita ad una chiesa separata da quella luterana, Lutero non si fa troppi scrupoli e infiamma l’animo dei principi tedeschi che reprimeranno i dissidenti con la forza provocando la morte di circa 100.000 di essi
Sono proprio i principi tedeschi che diventano le nuove guide della cristianità riformata da Lutero dopo che il riformatore ha di fatto abolito l’autorità ecclesiastica. È nel pensiero di Lutero che si deve vedere la genesi dello stato moderno, quella forma di comunità politica che si pone sopra ogni uomo e sopra ogni altra istituzione senza alcun vincolo.
Con Lutero la fede da pubblica diventa fatto privato, intimistico, che riguarda solo ed esclusivamente la coscienza. Anche il culto risente di questa visione e Lutero ne abolisce ogni esteriorità e visibilità. La Pellicciari arriva a definire, non a torto, Lutero come il primo iconoclasta moderno (p. 89)
Il libro dunque ha l’indubbio pregio di poterci far riflettere su una pagina di storia spesso mal raccontata e può aiutarci a diradare le ombre dei luoghi comuni che si sono annidate nei nostri “cassettini della memoria”.
Il contributo dell’autrice aiuterà sicuramente a riconoscere nell’opera di Lutero una rivoluzione ecclesiale e non una riforma come troppo spesso viene ancora definita in linea con quanto già affermato dallo storico della Chiesa Jedin
Una riforma che ha finito per spaccare in due l’Europa come ci ricorda anche l’immagine scelta dalla Pellicciari per la copertina
L’ultima sala che visitiamo prende il nome da uno dei dipinti in essa contenuti. Fu decorata da Raffaello e dagli allievi della sua scuola fra il 1514 e il 1517 durante il pontificato di Leone X che volle utilizzare questo ambiente come sala da pranzo. Il Pontefice volle celebrare due omonimi pontefici Leone III e Leone IV, entrambi raffigurati con le sembianze del Papa committente.Nel primo affresco vediamo rappresentata la battaglia di Ostia combattuta nell’849. La flotta cristiana combatte, sconfiggendola, quella saracena nei pressi della foce del Tevere. Sulla sinistra si riconosce il castello di Ostia. Al Papa Leone IV, seduto su un trono, vengono condotti i prigionieri del contingente nemico. Il tema di questo dipinto si deve alla preoccupazione del Papa per l’Europa che a quel tempo era minacciata dai turchi.
Leone IV è il protagonista anche del successivo affresco che dà il nome a tutta la sala. Il Pontefice affacciato da suo palazzo, rispondendo alla richiesta di aiuto di numerose donne, con la sua benedizione sta spegnendo un incendio divampato nell’847 nel rione Borgo. Accanto al palazzo papale possiamo scorgere l’antica basilica di San Pietro. In primo piano vediamo le bellezze di Roma che vanno in rovina: il Tempio di Marte Ultore a sinistra e quello di Saturno a destra. Anche questa scena è dettata dal contesto storico e vuole mostrare il carattere pacifico della Santa Sede che cerca di moderare le rivalità fra le grandi potenze europee.
Nella terza parete è rappresentato un episodio chiave della storia europea: durante la notte di Natale dell’anno 800, il Papa Leone III incorona Carlo Magno Imperatore. Il Pontefice, assiso in trono e attorniato da un gran numero di vescovi, pone sulla testa del sovrano francese inginocchiato la corona imperiale, mentre un giovane paggio regge quella reale appena deposta. L’affresco allude al concordato stipulato nel 1515 a Bologna fra lo Stato della Chiesa e il Regno di Francia. Se infatti si presta attenzione, si possono scorgere nei volti di Leone III e di Carlo Magno le sembianze del Papa Leone X e del Re Francesco I
L’ultima scena rappresentata nella sala ha ancora una volta come protagonista Papa Leone IV e rappresenta un episodio accaduto due giorni prima dell’incoronazione di Carlo Magno. Il pontefice, assistito da due diaconi, giura, ponendo le mani sul libro dei Vangeli posto sull’altare, di rispondere delle sue azioni solo davanti a Dio e non intende discolparsi dalle false accuse mossegli dai nipoti del Papa Adriano I. A rafforzare l’idea che il Pontefice può essere giudicato solo da Dio, nel paliotto dell’altare è raffigurata la martire Caterina che non viene lesa dalle ruote dentate che i suoi carnefici hanno predisposto per torturarla. Assistono al giuramento l’imperatore Carlo V, l’altro personaggio di primo piano nel quadro politico del ’500 insieme a Francesco I, che ci dà le spalle e indossa una catena d’oro e vari Vescovi. L’affresco vuole ricordare la conferma, avvenuta durante il quinto concilio Lateranense, della Bolla Unam Sanctam con la quale il Papa Bonifacio VIII si proclamava suprema autorità civile e spirituale
Ammiriamo ora la “Disputa del Sacramento”. Mentre la “Scuola di Atene” rappresenta il Vero Razionale, cioè la verità che l’uomo può cogliere a partire da se stesso, la “Disputa del Sacramento” rappresenta il Vero Rivelato, cioè la verità che l’uomo può cogliere a partire da Dio che si fa conoscere alla sua creatura. Il dipinto è impostato su un asse verticale ( Dio Padre , Cristo, lo Spirito Santo e il Santissimo Sacramento) e su tre assi che si dipanano dal Padre Eterno, dal Figlio e dall’Ostia consacrata.Partiamo dall’alto. Il Padre Eterno ha in testa un nimbo quadrato, ha la barba lunga e folta, indossa una tunica verde e celeste. Con la mano destra benedice, mentre nella sinistra tiene in mano un globo, simbolo della sua onnipotenza. Egli domina tutta la scena dall’empireo insieme a degli angeli sospesi fra le nuvole.
Sotto il Padre Eterno, il Figlio Gesù, assiso su un trono di nubi condiviso con sua Madre alla sinistra e San Giovanni Battista alla destra, ci mostra le ferite della Passione. Indossa una veste bianca, simbolo di Resurrezione. Alla sua gloria partecipano numerosi santi. A partire da sinistra riconosciamo Pietro, vestito con i colori giallo e blu caratteristici della famiglia Della Rovere, che tiene in mano le chiavi del Paradiso, Adamo, seminudo, con le gambe accavallate, Giovanni Evangelista, vestito di rosso e di verde, mentre scrive il suo Vangelo, il Re Davide con una cetra in mano e il Diacono Lorenzo. Dall’altra parte riconosciamo invece il diacono Stefano con la dalmatica e la palma del martirio, Mosè col volto raggiante che mostra le tavole della Legge, l’Evangelista Matteo, Abramo col coltello del sacrificio in mano e Paolo con la spada e le sue lettere nella mano sinistra.
Sotto al Cristo, notiamo, avvolto in un clipeo di luce, la colomba, simbolo dello Spirito Santo. Alla sua destra e alla sua sinistra degli angeli portano in gloria i quattro Vangeli.
Fin qui Raffaello ha rappresentato la Chiesa Trionfante del Paradiso. Tutti i soggetti rappresentati hanno uno sguardo sereno perché contemplano direttamente la gloria di Dio. Più animata invece la parte bassa del dipinto dove numerosi ecclesiastici, rappresentati della Chiesa Militante, si interrogano sul Mistero Eucaristico. Il centro della scena è dominato dall’Ostia contenuta in un ostensorio adagiato su un altare con dei fregi gialli su sfondo blu. I due personaggi più vicini all’altare, posti specularmente a Platone e ad Aristotele che si trovano nel dipinto di fronte, imitano i due filosofi greci: uno indica l’Ostia mentre l’altro indica il cielo come a dire che l’Eucaristia ha allo stesso tempo un aspetto materiale terreno e uno spirituale celeste. Forse mai il mistero eucaristico è stato meglio rappresentato nell’arte!
Sulla sinistra scorgiamo un personaggio con le sembianze del Bramante, appoggiato su una balaustra, mentre sta invitando il personaggio vestito di giallo e di blu, Francesco Maria Della Rovere ( lo stesso che abbiamo notato nella Scuola di Atene) a leggere su un libro. Il Della Rovere sembra che risponda quasi infastidito al Bramante, indicandogli come via maestra quella della contemplazione e dell’adorazione.
Fra i numerosi personaggi riusciamo anche a notare tre pontefici, cinque vescovi fra i quali Ambrogio ed Agostino, San Tommaso d’Aquino vestito da domenicano e San Bonaventura in abito cardinalizio e persino Dante Alighieri, considerato al tempo non solo poeta ma anche teologo.
L’ultimo dipinto che ammiriamo, il Parnaso, rappresenta la categoria platonica del Bello. Secondo la mitologia greca, su questo monte dimoravano le muse. Al centro del dipinto vediamo il dio Apollo mentre suona la lira da braccio. Gli stanno vicino le nove muse, riconoscibili dai caratteristici attributi. Attorno a questo nucleo ci sono alcuni dei più importanti poeti dell’umanità: il cieco Omero e alle sue spalle Virgilio che mostra a Dante Alighieri la Musa della Commedia
La terza stanza che oggi conosciamo insieme è la stanza della Segnatura, così chiamata perché qui si riuniva il Tribunale della “Segnatura Graziae et Iustitiae” presieduto dal Pontefice, anche se all’inizio il Papa aveva pensato di adibire questo spazio a suo studio privato. Raffaello lavorò in questo ambiente fra il 1508 e il 1511 su commissione di Giulio II.
Il programma iconografico è stato influenzato da due fattori: il ritorno in auge della filosofia platonica agli inizi del ’500 e il fatto che questa corrente di pensiero era sostenuta dai francescani dalle cui fila proveniva Giulio II. Raffaello ha infatti dipinto sulle pareti qualcosa che rappresentasse:
1) il Vero nella sua dimensione umana (filosofia) e nella sua dimensione rivelata (teologia);
2) il Bene (Virtù e Giustizia);
3) il Bello (Poesia).
Partiamo dal Vero nella sua dimensione umana. Nella Scuola di Atene sono rappresentati vari filosofi greci. Essi sono inseriti in una struttura che ricorda la vicina Basilica di San Pietro, come a dire che la Chiesa ha protetto e custodito il desiderio degli uomini di giungere al Vero. La presenza di questa struttura sta anche a dire lo sforzo che l’uomo mette per conoscere la Verità. Nei pilasti vediamo le statue di due divinità greche legate alla filosofia: su quello di sinistra Apollo con la lira in mano, mentre su quello di sinistra Minerva con l’elmo in testa e lo scudo in mano.
I personaggi principali della complessa composizione sono Platone ed Aristotele posizionati nel punto di fuga. Raffaello ha rappresentato Platone (che ha le sembianze di Leonardo da Vinci) con il braccio destro alzato che indica il mondo delle idee, mentre col braccio sinistro regge il Timeo. Aristotele invece distende il braccio in avanti tenendo il palmo della mano verso il basso ad indicare il mondo concreto. Il filosofo regge col braccio sinistro il libro dell’Etica. Il gesto di Platone e quello di Aristotele vanno letti insieme come la capacità dell’uomo di cogliere la totalità della realtà. Le due figure si stanno idealmente muovendo verso il dipinto che hanno di fronte come a dire che la filosofia conduce verso la teologia.
Sulla sinistra scorgiamo una figura di profilo, vestita di verde, che sta parlando con un gruppo di 5 persone. Si tratta di Socrate. Il filosofo sta discutendo con i suoi interlocutori col tipico gesto della adlocutio, cioè sta contando con le dita i ragionamenti che sta sviluppando.
Se abbassiamo di poco lo sguardo notiamo un uomo dai lineamenti gentili, vestito di bianco che guarda lo spettatore. Questo personaggio, che ritroveremo anche nella Disputa sul Sacramento, è con tutta probabilità Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino e nipote di Giulio II.
Spostiamo ora la nostra attenzione sulla destra. Possiamo riconoscere in questi due volti i due artisti che hanno lavorato in questa stanza: il Sodoma, che ha dipinto la volta, con un cappello bianco e un abito bianco e nero e Raffaello. Vicino ai due artisti di spalle c’è Tolomeo, erroneamente dipinto con una corona, che regge un globo. L’altro personaggio che invece regge il globo stellare è Zoroastro. Il personaggio inchinato che sta indicando una piccola lavagna è Euclide con le sembianze di Bramante.
Sulle scale sono seduti due filosofi: quello sulla destra col vestito lacerato è Diogene, mentre con lo sguardo pensoso e assorto è Eraclito che ha le sembianze di Michelangelo.
Passiamo ora alla parete dove sono raffigurate le Virtù e la Giustizia. Nella lunetta in alto possiamo osservare tre donne che rappresentano altrettante virtù. La prima da sinistra è la Fortezza che indossa un’armatura e accarezza un leone. Vicino ad essa si trova un albero di rovere che allude alla famiglia di Giulio II. Al centro si trova invece la Prudenza che si guarda alle spalle per mezzo di uno specchio. Sulla destra vediamo invece la temperanza che regge le briglie moderatrici. Il quartetto delle Virtù Cardinali è completato dalla Giustizia che è rappresentata nella volta. Tre dei cinque angeli che compaiono nella lunetta rappresentano invece le Virtù Teologali. L’angelo che coglie i frutti dall’albero rappresenta la Carità, quello che regge la fiaccola rappresenta la Speranza, mentre quello che indica il cielo allude alla Fede.
Dalle corretta applicazione delle virtù procede il Diritto qui rappresentato nella sua duplice forma di Diritto Civile e di Diritto Canonico. Nel dipinto a sinistra, a rappresentare il Diritto Civile, vediamo il giurista Triboniano che consegna il Codice di Diritto Civile all’Imperatore Giustiniano. Nel dipinto di destra invece, a rappresentare il Diritto Canonico, vediamo il domenicano San Raimondo di Penafort che consegna le Decretali al Papa Gregorio IX che ha le sembianze di Giulio II. Il cardinale a sinistra che regge il piviale del Papa è Giovanni de’ Medici, futuro Leone X.
Raffaello dipinse questa stanza in un momento non troppo felice della vita di Giulio II. Il Pontefice infatti era tornato a Roma dopo una campagna militare nella quale aveva perso la città di Bologna. Giulio II dunque volle far decorare la stanza con delle scene che mostrassero la protezione accordata da Dio alla sua Chiesa.Il primo dipinto mostra l’aiuto che Dio offre in difesa del patrimonio della Chiesa. Raffaello ha rappresentato il brano dell’Antico Testamento (2 Mac 3) in cui il Sommo Sacerdote Onia, che vediamo sullo sfondo, chiede a Dio di intervenire contro l’usurpatore Eliodoro che si è introdotto nel Tempio per rubarne il bottino. Il Sommo Sacerdote, vestito con i colori giallo e blu della famiglia Della Rovere, alla quale il Papa apparteneva, si trova nel Santo, è inginocchiato davanti al tavolo della preposizione, posto vicino alla menorah. Sulla destra tre angeli mandati da Dio, di cui uno a cavallo, scacciano Eliodoro dal Tempio. Sulla sinistra Giulio II assiste alla scena seduto sulla sedia gestatoria.
La seconda scena mostra l’aiuto che Dio offre in difesa della fede della Chiesa. Raffaello ha dipinto il Miracolo di Bolsena che è all’origine della festa del Corpus Domini. Sull’altare della chiesa di Santa Cristina a Bolsena, il sacerdote boemo Pietro sta celebrando la messa, ma dubita della reale presenza di Cristo nell’ostia e da questa stillano alcune gocce di sangue che macchiano il corporale. Davanti all’altare, il Papa Urbano IV, con le sembianze di Giulio II assiste devotamente inginocchiato sul faldistorio al miracolo appena avvenuto.
Il terzo dipinto mostra l’aiuto che Dio offre allo Stato della Chiesa. Raffaello ha rappresentato in questo dipinto lo storico incontro fra Papa Leone Magno e il re degli Unni Attila. Grazie a questo evento, gli Unni non invasero l’Italia. Leone Magno, che ha le sembianze di Leone X, è seduto su un cavallo bianco ed è accompagnato da alcuni dignitari pontifici. Il re degli Unni invece è seduto su un cavallo nero. I santi Pietro e Paolo assistono dal cielo la scena e intervengono in favore di Papa Leone. L’incontro è avvenuto nei pressi di Mantova, qui però il pittore ha voluto ambientare la scena nei pressi di Roma, visto che sullo sfondo vediamo il Colosseo
Il quarto ed ultimo affresco, il vero gioiello della sala, mostra l’aiuto che Dio offre al Capo della Chiesa, cioè al Papa. Raffaello, traendo spunto da un brano degli Atti degli Apostoli (At 12), ha dipinto la fuga di San Pietro dal carcere. La scena ha inizio nel centro: un angelo libera Pietro dalle catene, nonostante nella prigione ci siano due soldati. Sulla destra lo stesso angelo accompagna Pietro, tenendolo per mano, fuori dal carcere mentre altri due soldati dormono. Sulla sinistra quattro soldati si muovono animatamente perché hanno intuito che il prigioniero si sta dando alla fuga. In questa composizione possiamo notare tre fonti luminose: quella naturale della luna, quella artificiale della fiaccola di un soldato, e quella divina dell’angelo che compare per ben due volte. Solo quest’ultima salva Pietro. La scena è di particolare importanza nella storia dell’arte perché rappresenta il primo notturno e doveva essere anche cara a Giulio II visto che, prima di ascendere al pontificato, egli era il titolare della chiesa di San Pietro in Vincoli, dove sono custodite le catene che, secondo la tradizione, hanno tenuto prigioniero il Principe degli Apostoli.