Nicola Rosetti
RIMINI – “La luce splende nelle tenebre. La testimonianza della Chiesa ortodossa russa negli anni della persecuzione sovietica”. È questo il titolo della mostra dedicata ai martiri russi. Il martirio è stato sempre nella Chiesa, la forma più alta di testimonianza cristiana, perché la più aderente a Cristo. Ogni secolo ha i suoi martiri e quest’anno il Meeting ha dedicato una mostra a quelli che sono stati vittima dell’ideologia bolscevica. Si tratta di figure appartenenti alla Chiesa Ortodossa che per la loro fedeltà a Cristo sono giunte ad effondere il sangue per Lui. Il lavoro di preparazione ha coinvolto studenti italiani, ucraini e russi. Abbiamo incontrato e intervistato mons. Francesco Braschi, Direttore della Classe di Slavistica dell’Accademia Ambrosiana e Dottore della Biblioteca Ambrosiana, che è uno dei curatori della mostra.
Quante sono le storie di martiri narrate nella mostra?
La mostra, che copre un arco di settant’anni, è costruita in modo da presentare due binari paralleli di lettura, intorno ai quali sono organizzati i pannelli illustrativi. Abbiamo innanzitutto una serie di pannelli di carattere storico-narrativo, che offrono al visitatore la possibilità di rendersi conto di cosa avvenne in Russia dagli anni precedenti la rivoluzione bolscevica, fino alla fine del comunismo e alla possibilità per la Chiesa ortodossa di poter nuovamente esistere liberamente e alla luce del sole.
Così si permette al pubblico italiano di venire a conoscenza di episodi di solito ignorati dai nostri libri di storia, come il Concilio della Chiesa ortodossa del 1917-18, nel quale venne ripristinata la figura del Patriarca e si discusse di importanti riforme, ma che vide i partecipanti (vescovi, clero e laici) investiti dalle notizie e dagli sconvolgimenti che accompagnarono la rivoluzione d’ottobre.
Oppure, come le diverse parti di cui si componeva il programma di annientamento della Chiesa e della fede cristiana, che vedeva la spoliazione e la confisca delle chiese, ma anche la suscitazione di scismi e conflitti interni pianificata da Trockij, l’educazione ateistica-anticristiana dei giovani e degli adulti, la distruzione di Chiese quale la Cattedrale di Cristo Salvatore, l’istituzione dei Lager “a destinazione speciale”; o, ancora, il “grande terrore” del 1937-38, le vicende connesse alla seconda guerra mondiale e all’”utilizzo” della Chiesa da parte di Stalin in funzione antinazista e le persecuzioni che continuano anche nell’era di Kruscev.
Questo percorso storico viene accompagnato dalla presentazione di una ventina di figure di martiri, di cui si offrono alcuni rapidi cenni biografici e – soprattutto – alcune citazioni che permettono di “fissare” i tratti più importanti del loro pensiero e della loro esperienza. Molti di loro sono praticamente sconosciuti in Italia, altri sono noti per il loro pensiero, come Padre Pavel Florenskij; altri ancora sono particolarmente interessanti anche per l’attualità del loro pernsiero, come Michail Novoselov, scrittore e pensatore.
Non è possibile fermarsi a ricordarli tutti nel dettaglio. Tuttavia, possiamo affermare che i tratti che uniscono tutte queste figure sono principalmente quelli della fedeltà a Cristo e della capacità di riconoscere anche nella prigionia e nella sofferenza la Sua Presenza alla quale affidarsi con piena fiducia.
Quale testimonianza ti ha colpito di più?
E’ difficile fare una scelta tra le splendide testimonianze presentate nella mostra. Posso però menzionare le figure del Patriarca Tichon, che accettò nel 1917 la nomina a Patriarca nella piena consapevolezza che essa significava una continua prova nel tentativo di resistere alle richieste e alle pressioni del governo bolscevico; oppure la figura del Metropolita di Pietrogrado, Veniamin, ancora oggi molto venerato dai fedeli e capace di trasformare un processo-farsa in occasione per una testimonianza di grande forza cristiana e umana. Ma si potrebbe davvero continuare a lungo… in questo senso, il catalogo della mostra è un grande aiuto per iniziare a conoscere queste figure così impressionanti.
I martiri russi erano organizzati in qualche forma di resistenza contro il regime, oppure il totalitarismo bolscevico li ha colpiti singolarmente?
La resistenza era quella della fede, e mentre il governo bolscevico cercava di dividere e annientare la Chiesa ortodossa, usando tutti i mezzi a sua disposizione, vi furono testimonianze splendide di unità e di reciproco sostegno tra i detenuti nei lager. Purtroppo, vi furono anche contrapposizioni interne e figure conniventi con i persecutori, ma queste mostrano quanto più risalti la luce che promana dall’esempio di chi rimase fedele a Cristo e alla Chiesa.
Come si è resa possibile la nascita di un’ideologia così feroce in un contesto così profondamente cristiano come quello russo?
Innanzitutto bisogna ricordare che l’ideologia marxista non nasce in Russia, e che lo stesso Lenin compì la sua formazione politica e ideologica anche nell’Europa occidentale. Certamente, il fatto che dal tempo di Pietro il Grande la Chiesa ortodossa fosse priva del Patriarca ed avesse a capo lo Zar stesso, che la governava per mezzo di un suo funzionario, fece sì che la Chiesa fosse considerata – e di fatto fosse – come una propaggine dello stato zarista. E il sistema di goveno zarista era di fatto opprssivo per la maggioranza della popolazione. Per questo, anche coloro che miravano alla sola caduta dello zarismo, di fatto spesso si trovarono a combattere contro la Chiesa, considerata come organica al potere politico.
RIMINI – In questi giorni i mass media si stanno occupando come ogni anno del Meeting di Rimini. Ad essere messi in risalto, come al solito, sono gli interventi dei politici, ma il Meeting non è solo politica. Anzi! Sono numerose le mostre e le iniziative culturali che animano la kermesse ciellina. Per conoscere meglio il lato più vero del Meeting, quello che i tg non riportano, abbiamo intervistato Edoardo Dantonia, uno dei tanti ragazzi che con impegno, e con altrettanto anonimato, manda avanti questo importante evento dell’estate riminese. Edorardo, classe 1992, è studente di Scienze dell’Educazione e guida i gruppi nella mostra “Il cielo in una stanza: Benvenuti a casa Chesterton” dedicata al celebre scrittore inglese sempre più conosciuto e apprezzato in Italia, anche grazie alla Società Chestertoniana Italiana che ha sede nella nostra diocesi.
Edoardo, a quante edizioni del Meeting di Rimini hai partecipato? Questa è la prima volta che guidi una mostra?
In realtà è la prima edizione del Meeting a cui partecipo: si può dire che abbia iniziato in grande stile con la mostra dedicata al mio autore preferito! Dire che sono emozionato è un eufemismo, visto che ho l’opportunità di approfondire questo grande scrittore e di trasmettere ad altri ciò che esso rappresenta per me.
Puoi spiegare ai nostri lettori come avviene il “reclutamento” delle guide del Meeting?
Non ne so molto in verità. Un mio caro amico, conoscendo la mia passione per Chesterton, mi ha semplicemente proposto di far parte della rosa di guide impegnate nella mostra a lui dedicata: come potevo rifiutare? Iscriversi non è stato difficile e sono stati fatti ben due incontri con i curatori, per chiarire bene le idee sul testo assegnato.
Vieni pagato per questa attività?
Assolutamente no: il lavoro al Meeting è totalmente volontario. Forse è questo che sconvolge maggiormente le persone, ormai assuefatte ad una logica di “do ut des”, in cui nulla può essere fatto gratuitamente. E a dirla tutta, per me è una grandissima opportunità, quindi potrei dire che vengo ripagato più che pienamente per tutta questa fatica!
Quando hai conosciuto la figura di Chesterton?
L’autore della mia “conversione” (virgolettata poiché sono stato battezzato alla nascita, quindi si è trattato solo di riavvicinarmi alla Chiesa) è stato Michael D. O’Brien, con il suo libro “L’Isola del Mondo”, ma è stato Chesterton ad avermi letteralmente trascinato al suo interno. È stato un mio caro amico a consigliarmi la lettura e a prestarmi fisicamente “Ortodossia”, testo impegnativo ma davvero incredibile. Chesterton era un poeta che lavorava molto per immagini: le sue non sono risposte o verità assolute, ma veri e propri “quadri” che colpiscono e sconvolgono e che magari non sono subito chiari nel loro significato.
Qual è l’aforisma di Chesterton che maggiormente ti affascina? E la sua opera che preferisci?
“Le fiabe non raccontano ai bambini che i draghi esistono. I bambini sanno già che i draghi esistono. Le fiabe raccontano ai bambini che i draghi possono essere uccisi.” Adoro questa frase perché mette in scacco i vari cinici che vivono per dimostrare che il male esiste e che non vi si può sfuggire: in realtà si sa già che il male esiste, ciò che è necessario dire è che esso può essere sconfitto. E qual è la forma narrativa che dimostra meglio ciò, se non proprio la fiaba?
Invece l’opera che preferisco è “Uomovivo”, uno delle prime in cui mi sono imbattuto. La considero la migliore per il personaggio di Innocent Smith, l’uomo vivo, dedito ad attività viste come inaccettabili, strambe, criminose, ma che infine si rivelano essere di una lo
Quale parte della mostra preferisci spiegare ai visitatori?
La stanza che preferisco in assoluto è il salotto. Il salotto, senza rivelare troppo, è la stanza dell’incontro con l’altro; incontro che può diventare scontro. E’ il luogo dove affiliamo i coltelli per affrontare il nemico, dove riusciamo persino a trovare noi stessi, a comprendere le ragioni delle nostre convinzioni. Per questo è la mia preferita: perché io sono sempre pronto a battagliare sulle grandi questioni della vita anche e soprattutto per comprenderle io stesso.
Troppo spesso sentiamo in tv storie di violenza nei confronti delle donne. Questi tristi episodi non avvengono soltanto laddove la donna è purtroppo considerata un essere di serie “B”, ma fanno parte anche della cronaca di paesi come il nostro, dove l’uguaglianza e l’emancipazione delle donne è (o dovrebbe essere) ormai da decenni un dato acquisito.
Si scatenano così in tv i dibattiti su un così triste fenomeno e talvolta capita che il cristianesimo venga additato come una delle matrici di odio verso le donne. L’accusa di misoginia verso la chiesa è piuttosto antica e prende le mosse dal fatto che le donne non possono accedere al sacerdozio. Si sostiene che una simile scelta sia fortemente maschilista e discriminante nei confronti della donna. Il cristianesimo, afferma questa tesi, sarebbe nemico giurato e irriducibile dell’universo femminile.
Ma le cose stanno davvero così? Ad una analisi più attenta e lungimirante, l’accesso al sacerdozio è l’unica cosa che nel cristianesimo viene negata alle donne, alle quali è comunque riconosciuta una gran dignità, spesso ricordata negli ultimi giorni anche da Papa Francesco. Basta pensare che la figura più amata e venerata nel cristianesimo, dopo quella di Gesù, è Maria. E la Madre del Salvatore è, nella compagine dei santi, in buona compagnia di moltissime altre figure femminili: pensiamo, solo per elencarne alcune, a Lucia, ad Agata, a Perpetua e Felicita. Il cristianesimo poi è l’unica religione nella quale uomini e donne ricevono lo stesso rito di iniziazione: il battesimo. È l’unica religione monoteista che consente a uomini e donne di stare insieme durante gli atti di culto.
Insomma, la dignità della donna è particolarmente tenuta in conto nella religione cristiana e questo perché lo stesso Gesù chiamò, rompendo con la cultura del suo tempo, fra i suoi discepoli delle donne. Per scoprire la genesi di questo amore del cristianesimo verso l’universo femminile può essere utile la lettura del libro “Le donne di Gesù. Figure femminili del Nuovo Testamento” di Maria Luisa Eguez edito dalle “Edizioni Messaggero Padova”.
L’autrice, classe 1951, nella breve prefazione afferma che questo non è un testo esegetico, tuttavia dimostra di avere un ottima padronanza del testo biblico. La Eguez esplora 12 tipologie di figure femminili del Nuovo Testamento, un numero che non sembra affatto casuale.
Ampio risalto viene dato alla Madre di Gesù, alla quale l’autrice dedica bel 29 pagine. La figura della Vergine viene attentamente analizzata partendo dal testo evangelico nel quale si colgono i vari echi veterotestamentari. Maria dunque viene descritta come una figura femminile pienamente inserita nella storia del suo popolo, nella quale le parole dell’Antico Testamento trovano compimento e pienezza.
Tutte le altre figure femminili prese in considerazione consentono di fare una duplice riflessione: da una parte si incontrano volti di persone che la cultura del tempo aveva escluso dal piano di salvezza di Dio, come la madre della straniera ( p. 73), e che vengono ampiamente esaltate da Gesù per la loro fede, dall’altra ogni donna analizzata permette di evidenziare qual è lo sguardo di Gesú verso l’umanità e verso il mondo femminile in particolare come nel caso dell’adultera (p. 63)
La lettura che l’autrice offre non è, come ella stessa afferma, un’interpretazione femminista del vangelo, ma offre lo spunto per comprendere come l’amore per il femminile sia una dimensione costitutiva e originale del cristianesimo, in sostanziale asimmetria con non pochi contesti culturali coevi alla nascita della nostra religione.
Un testo sicuramente consigliabile per avere un quadro generico, ma allo stesso tempo completo, su questo aspetto e che può essere di aiuto per la preparazione di un incontro di catechesi o una lezione di religione.
SAN BENEDETTO DEL TRONTO – È pronto lo stemma pontificio di Papa Francesco che farà bella mostra di sé sul balcone dell’episcopio di San Benedetto del Tronto. L’opera è stata firmata dall’ingegnere e architetto Alberto Romani che abbiamo avuto il piacere di incontrare e intervistare. Alberto Romani è nato a San Benedetto del Tronto il 23 Dicembre del 1976. Dopo essersi laureato in “Ingegneria Edile – Architettura”, ha intrapreso la strada della libera professione ed è fondatore e presidente dell’Associazione Nazionale dei Laureati in “Ingegneria Edile – Architettura”. Inoltre si occupa di araldica (realizza stemmi) e liuteria (costruttore e restauratore di chitarre).
Può dirci qualcosa per introdurci nel mondo dell’araldica?
L’araldica ecclesiastica, in modo simile a quanto avviene per l’arte iconografica, non può prescindere dalle preghiere che l’artista recita durante la composizione dello stemma. La preghiera deve essere continua e in “favore” della persona che viene rappresentata nell’emblema stesso.
Sin dal suo concepimento, e durante il procedere della scrittura araldica, fino alla definitiva conclusione, il compositore entra in “confidenza” con il Signore, con la Vergine Maria, ma anche con i Santi che talvolta, per scelta del committente, vengono rappresentati attraverso i simboli nello stemma stesso. Chiaramente tutto ciò richiede tempo, concentranzione, pazienza, serenità da parte di chi realizza l’opera.
Badiamo bene che quest’arte, riferita all’ambito ecclesiale, vuole ricordare anche che sussiste la necessità di costante preghiera per i nostri Vescovi, Arcivescovi, Cardinali, Papi, i quali hanno voluto rappresentare la loro missione, il loro affidamento e le loro aspirazioni di fede attraverso un insieme di simboli.
A tal proposito, sottolineo il fatto che tale stemma è stato, non a caso, benedetto dalla Comunità dei Frati Francescani Minori Conventuali della nostra città, durante una celebrazione eucaristica domenica 4 agosto; il tutto a ricordare il legame istauratosi tra il nostro attuale Pontefice e la figura di San Francesco d’Assisi.
Quanto tempo ha impiegato per realizzare l’opera?
Ho realizzato quest’opera in circa 3 mesi e mezzo di tempo. Anche se uno stemma può apparire semplice da realizzare come disegno, tuttavia, ci sono delle tempistiche e dei procedimenti particolari, anche dovuti alla tipologia di materiale che viene utilizzato. Sottolineo poi il fatto che è particolarmente indicato, per le premesse fatte sopra, realizzare queste opere completamente a mano, cercando di evitare le realizzazioni industriali, perchè appunto verrebbe meno tutto l’aspetto spirituale. Per capirci, è come se un’icona venisse realizzata con delle macchine industriali!
Quale tecnica è stata utilizzata?
Ho anzitutto creato il supporto in lamiera zincata da 3 mm di spessore. Dopo averla calandrata e irrigidita nella parte posteriore con lamelle saldate sempre dello stesso materiale, ho dato il fondo con primer e vernice color chiaro (tonalità tra l’avorio chiaro e il sabbia). Dopo aver disegnato i contorni dell’emblema, ho utilizzato vernici sintetiche brillanti per esterni, nonché oro e argento dove occorreva.
È la prima volta che realizza oggetti del genere?
Ho già avuto modo di realizzare opere di questo tipo per privati, ma anche per l’attuale Papa Emerito Benedetto XVI e per il nostro Vescovo della Diocesi di San Benedetto Del Tronto-Ripatransone-Montalto, Sua Eccellenza Monsignor Gervasio Gestori. Ho anche realizzato uno stemma araldico per il “Gruppo Diocesano Ministranti per le Celebrazioni Solenni” che tuttora è in possesso del nostro Vescovo. Di recente ho avuto l’opportunità di realizzare uno stemma araldico per la “Pastorale Giovanile della Provincia Francescana delle Marche” dei Frati Minori Conventuali.
Può spiegare il significato della simbologia adoperata da Papa Francesco per la sua insegna?
Fondamentalmente, Papa Francesco ha conservato il suo stemma anteriore, che scelse già al momento della sua consacrazione episcopale. I simboli della dignità pontificia sono uguali a quelli che furono a suo tempo scelti da Benedetto XVI (mitra collocata tra chiavi decussate d’oro e d’argento, rilegate da un cordone rosso).
Lo scudo è totalmente di colore blu: questo colore, nella simbologia, indica il distacco dai valori mondani e l’ascesa dell’anima verso Dio; nell’araldica, simboleggia fedeltà, santità, castità, devozione e giustizia, nonché, bellezza, fortezza, vigilanza e perseveranza.
All’interno dello scudo, in alto, campeggia l’emblema dell’ordine di provenienza del Papa, la Compagnia di Gesù: un sole raggiante e fiammeggiante caricato dalle lettere, in rosso, IHS, che indicano il monogramma di Cristo. La lettera H è sormontata da una croce; in punta sono rappresentati in nero i tre chiodi della crocifissione.
In basso a sinistra (ovvero nel linguaggio tecnico “a destra dell’ombelico” dello scudo), si trovano la stella, mentre a destra (ovvero nel linguaggio tecnico “a sinistra dell’ombelico” dello scudo) il fiore di nardo. La stella, secondo l’antica tradizione araldica, simboleggia la Vergine Maria, madre di Cristo e della Chiesa; mentre il fiore di nardo indica San Giuseppe. Nella tradizione iconografica ispanica, infatti, San Giuseppe è raffigurato con un ramo di nardo in mano. Ponendo nel suo scudo tali immagini, il Papa ha inteso esprimere la propria particolare devozione verso la Vergine Santissima e San Giuseppe.
Il motto del Santo Padre Francesco è ripreso dalle Omelie di San Beda il Venerabile, sacerdote (Om. 21; CCL 122, 149-151), il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di San Matteo, scrisse: “Vidit ergo Jesus publicanum et quia miserando atque eligendo vidit, ait illi Sequere me” (Vide Gesù un pubblicano e siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi).
Questa omelia è un omaggio alla misericordia divina ed è riprodotta nella Liturgia delle Ore della festa di San Matteo. Essa riveste un significato particolare nella vita e nel percorso spirituale di Papa Francesco. Difatti, nella festa di San Matteo del 1953, il giovane Bergoglio sperimentò, in un modo del tutto particolare, la presenza amorosa di Dio nella sua vita. In seguito ad una confessione, si sentì toccare il cuore ed avvertì la discesa della misericordia di Dio, che lo chiamava alla vita religiosa, sull’esempio di Sant’Ignazio di Loyola.
Una volta eletto Vescovo, Bergoglio, in ricordo di tale avvenimento decise di scegliere, come motto e programma di vita, l’espressione di San Beda “miserando atque eligendo”, che ha inteso riprodurre anche nel proprio stemma pontificio.
Lei è un appassionato di araldica. Quando è nato questo suo interesse?
Diciamo che sin dall’età adolescenziale sono stato attratto dalla simbologia e dallo studio dei simboli. Inizialmente cercavo di capire da solo il significato degli stessi e poi verificavo il mio pensiero attraverso documentazioni e ricerche. Poi rimasi incuriosito quando lessi una frase su un libro di araldiche, attraverso la quale si confermava ciò che era già da tempo il mio pensiero: ogni individuo, in quanto essere umano uguale ad un altro essere umano ha il diritto di poter possedere uno stemma araldico che lo rappresenti, a prescindere dal fatto che egli stesso sia un nobile oppure no, un alto prelato oppure no; perchè la vera nobiltà, scaturisce dalle opere che si compiono in favore dell’umanità e se esse rimangono solo un’ideale rappresentato attraverso simboli, allora l’araldica non ha senso di esistere. Poi decisi di iniziare a buttare giù un primo schema di stemma araldico personale, tuttora nel cassetto e in fase di studio preliminare.
Può lasciare un recapito per chi eventualmente fosse interessato a contattarla per lavoro?
Certamente! Chi fosse interessato, può contattarmi all’indirizzo e-mail albertoromani@alice.it
L’ultima tela che ammiriamo nella cappella Contarelli riguarda la morte di san Matteo. La composizione si ispira a quanto descritto nella “Legenda Aurea” da Jacopo da Varagine secondo cui l’evangelista sarebbe stato ucciso dopo aver celebrato la messa.
Al centro della composizione si vede il carnefice seminudo che impugna con la mano destra una spada, mentre con l’altra blocca il braccio destro di San Matteo che è ancora vestito con alcuni paramenti liturgici. Un angelo si affaccia da una nuvola per porgere all’evangelista la palma, simbolo del martirio.
Sullo sfondo si intravvede un altare sul quale il santo ha appena celebrato l’eucaristia. Esso è anche riconoscibile grazie alla croce che vi è disegnata.
Tutto intorno stanno degli uomini che sono inorriditi dall’atto che il carnefice sta per compiere. Fra di essi, un po’ nascosto per la verità, possiamo vedere il ritratto di Caravaggio.
Anche in questo caso la contestualizzazione storica e teologica ci permette di comprendere meglio l’opera. Possiamo immaginare che la preoccupazione dei committenti sia sempre la stessa e cioè quella di tradurre in immagini la genuina dottrina cattolica da contrapporre alla nuova eresia protestante. Martin Lutero aveva negato (contraddicendo la stessa Scrittura che tanto venerava) il carattere sacrificale dell’eucaristia a favore del solo carattere conviviale del sacramento.
Egli aveva anche negato il valore e l’efficacia del culto dei santi. Ecco allora che l’artista sta qui a ribadirci la dottrina di sempre: nel sacramento dell’eucaristia, oltre all’aspetto conviviale dato dalla materia con la quale il sacramento stesso si celebra, vi è un vero e proprio memoriale del sacrificio di Gesù sulla croce che viene ricordato dalla posizione dell’evangelista che muore con le braccia spalancate. Anche la croce dipinta sull’altare sta a ricordarci la stessa verità di fede.
Se ogni Santo è un “alter Christus” il martire lo è ancora di più, perché muore in perfetta imitazione del suo Signore. È dunque per questo motivo che i martiri, come tutti gli altri santi, meritano un culto particolare che Lutero aveva loro negato.
Si conclude così questa ulteriore catechesi della bellezza che ci ha dimostrato ancora una volta come il linguaggio dell’arte possa aiutare noi cristiani ad annunciare verità così alte che difficilmente possono essere espresse attraverso le parole. Le immagini invece si imprimono più facilmente nella nostra mente e ci fanno penetrare il Mistero.
GMG – Lo vediamo spesso in televisione, stampato su magliette e gadget dei giovani che stanno partecipando alla XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù. Stiamo parlando del logo della straordinaria manifestazione che raccoglie centinaia di migliaia di giovani cattolici provenienti da ogni parte del mondo. Ma chi lo ha “inventato”? L’Ancoraonline ha contattato Gustavo Huguenin, il giovane ideatore del logo, e lo ha intervistato.
Quanti anni hai e quali studi hai fatto?
Ho 27 anni e studiato Graphic Design.
Fai parte di qualche movimento religioso?
Sì! Io faccio parte del Rinnovamento Carismatico Cattolico, attraverso il gruppo di preghiera e di azione nella comunicazione del movimento.
Come è nato il logo della giornata mondiale della gioventù?
La creazione ha avuto il suo inizio nella preghiera, ho chiesto l’aiuto dello Spirito Santo, meditando il passo biblico “Andate e ammaestrate tutte le nazioni”(Mt 28,19). L’opera, dal concepimento fino alla consegna del materiale, è durata circa 10 giorni.
Quante persone hanno proposto un logo per la giornata mondiale della gioventù?
Ci sono stati più di 200 i partecipanti al concorso provenienti da molti paesi. Poi i loghi dei 5 finalisti sono stati inviati in Vaticano per la scelta del vincitore
Quando hai saputo che il tuo logo era stato scelto per la giornata mondiale della gioventù?
All’inizio dell’anno 2012 mi hanno invitato ad andare al comitato GMG e mi hanno dato questa incredibile notizia .
Quali sono state le tue emozioni?
Sono stato molto contento di sapere che il mio lavoro sarebbe stato così importante. Non ho fatto in tempo a digerire questa bella notizia che già durante quella prima settimana ho potuto vedere l’impatto di questo. Migliaia di pellegrini indossano oggi la maglia col logo. Molti altre cose che i pellegrini usano sono legate al logo, dalle magliette, agli orecchini, alle collane. Molti si sono ispirati al logo e c’è chi è venuta a farsi un taglio di capelli con il disegno del simbolo! Ho visto anche autoadesivi con il logo e una torta di compleanno!
Hai avuto modo di incontrare personalmente papa Francesco in questi giorni?
Venerdì 26, ho avuto l’opportunità attesa per oltre 18 mesi. Ho sempre detto che incontrare il Papa sarebbe stato il premio più grande! Quando il mio logo fu scelto, mi aspettavo di incontrare Papa Benedetto XVI, che ammiro e verso il quale continuo ad avere un amore filiale. Oggi il Papa è Francesco, e sono stato accolto con il suo sorriso caldo e sincero e con la sua gioia contagiosa.
Cosa vi siete detti?
Ero un un po’ nervoso e la cosa che mi preoccupava di più era mostrare il mio affetto per lui. Gli ho baciato la mano e gli ho chiesto la sua benedizione. Gli ho regalato una carta con il logo della GMG. Quando ha visto il simbolo, ha sorriso e ha detto: “Bellissimo! Che creatività!”. E io ho gli ho risposto: “Santo Padre, questo simbolo rappresenta la gioventù che è venuta alla GMG, è il cuore che riceve l’abbraccio di Gesù”.
Come sta vivendo la giornata mondiale della gioventù il ragazzo che ne ha inventato il logo?
Ho lavorato per oltre un anno nel comitato organizzatore locale, coordinando il team e i progetti di design. È stato un lavoro piuttosto intenso e impegnativo, ma ricompensato dal vedere che ci sono i valori cristiani e tanti giovani in cerca di Dio in tutto il mondo.
Puoi spiegare ai nostri lettori il significato del logo?
Sulla base del brano del Vangelo di Matteo (capitolo 28), il simbolo esprime un riferimento a due persone: Gesù e il discepolo. In questo episodio, Gesù si incontra con i suoi discepoli su una montagna, proprio come avviene presso la statua del Cristo Redentore, simbolo universale della città di Rio de Janeiro. Attorno a questa immagine si forma un cuore, che rappresenta tutto l’uomo e ha senso come il centro, così come Rio de Janeiro ospiterà tutte le nazioni.
Il riferimento al discepolo è presente nella composizione del cuore con Cristo, così come quelli che hanno Gesù nel cuore. Il nostro popolo ha un cuore caldo e generoso, che ha la sua essenza nella fede in Cristo.
La parte superiore, verde, si ispira ai tratti di Pan di Zucchero, simbolo della nostra meravigliosa città, e la croce in essa contenute, rafforza il senso del territorio brasiliano conosciuto come “Terra di Santa Cruz”.
Puoi lasciare un indirizzo email per coloro che eventualmente fossero interessati a contattarti per lavoro?
Il mio indirizzo email è: gustavo@inspiratodesign.com
Abbiamo detto nel precedente articolo che molto tempo passò prima che la tela che oggi vediamo posta sopra l’altare principale potesse esservi collocata.
Caravaggio aveva terminato le due tele che raffiguravano “La vocazione di San Matteo” e “Il martirio di San Matteo” (tela della quale parleremo nella prossima puntata) quando gli eredi del cardinale Matteo Contarelli fecero collocare sopra l’altare della cappella il gruppo scultoreo che oggi possiamo ammirare nella chiesa della Trinità dei pellegrini. Esso rappresenta un angelo che col braccio sinistro regge un calamaio mentre col destro indica il cielo a significare l’origine divina delle parole che San Matteo sta per scrivere nel suo Vangelo. L’evangelista è seduto su uno scranno e viene come sorpreso alle spalle dall’angelo a significare l’alterità dell’azione divina nei confronti dell’uomo.
Per chi osserva l’opera, la mano che regge la penna con la quale l’evangelista sta per scrivere è in una posizione media fra l’angelo e il libro. Con questo particolare l’artista ha espresso la posizione che l’agiografo ha nella storia della salvezza: egli si trova a metà strada fra l’angelo che lo ispira e il libro che egli consegnerà alla comunità cristiana. I vangeli non sono scesi dal cielo, allo stesso modo in cui il Corano è sceso dal cielo per i musulmani: essi sono testi ispirati da Dio, ma scritti con le mani e con la testa degli uomini di cui Dio si è servito; si può dire che in un certo senso vale per la composizione delle Sacre Scritture lo stesso principio del rapporto Grazia divina-responsabilità umana del quale abbiamo parlato a proposito della precedente tela. Per i cattolici, a differenza dei protestanti, non vale il principio della “Sola Scriptura”, essa è sempre annunciata e interpretata dalla Chiesa in linea con le parole di Sant’Agostino: “Non crederei al Vangelo se non mi ci inducesse l’autorità della Chiesa cattolica” (cfr. Sant’Agostino, Contra epistulam Manichaei quam vocant fundamenti, 5, 6).
Dunque a un livello teologico l’opera dell’artista fiammingo rispondeva perfettamente alle esigenze del tempo. Perché dunque è stata rimossa? Molto probabilmente perché accanto a due opere di Caravaggio gli spettatori potevano avvertire qualcosa di “stonato”, un’opera scultorea forse si inseriva male fra due opere su tela e ne spezzava l’unità. Fu così che i committenti nel 1602 decisero di rimuoverla e di commissionare a Caravaggio anche la tela che doveva sovrastare l’altare.
Come dicevamo nella precedente catechesi della bellezza, quest’opera venne giudicata inopportuna: l’angelo faceva tutto un corpo con San Matteo non evidenziando l’origine divina della Sacra Scrittura e in più guidava materialmente l’evangelista nella stesura del Vangelo e una tale immagine non rendeva bene la visione cattolica sull’ispirazione delle Scritture; l’evangelista sembrava una sorta di burattino nelle mani dell’angelo che figurava così come l’unico autore del vangelo a scapito della componente umana. L’opera, come dicevamo, fu acquistata da Vincenzo Giustiniani, passò poi ai Musei di Berlino e fu distrutta verso la fine della seconda guerra mondiale nell’incendio della Flakturm Friedrichshain ed oggi la conosciamo solo grazie a qualche foto scattata prima che fosse distrutta.
Fu così che Caravaggio compose l’attuale tela. Caravaggio riprese il modello elaborato da Jacob Cobaert e dipinse San Matteo sorpreso alle spalle dall’angelo, però pose questi sospeso nel cielo per accentuare l’origine divina del messaggio evangelico. La posizione dell’evangelista è comunque tutt’altro che classica! Egli sta scrivendo il suo vangelo ascoltando le parole dell’angelo stando seduto in modo poco composto su uno sgabello.
La cappella Contarelli
Ci accingiamo a conoscere uno dei luoghi più visitati e amati di Roma: la cappella Contarelli in San Luigi dei francesi. La cappella prende il nome dal cardinale francese Matteo Contarelli che la comprò nel 1565 e decise di adornarla con opere d’arte che si riferissero al santo del quale portava il nome: l’apostolo ed evangelista Matteo.
Benché il cardinale avesse espresso con chiarezza cosa avrebbe voluto nella sua cappella, nulla si fece fino a quando nel 1585 giunse la morte. Ad occuparsi allora della realizzazione delle opere d’arte furono gli eredi, che però videro i primi risultati solo poco prima del 1600.
Ad occuparsi della realizzazione della cappella fu Caravaggio, su interessamento del potente cardinale Del Monte, suo protettore. Egli realizzò la “Vocazione di San Matteo” e poco dopo “Il martirio di San Matteo” che vennero posti rispettivamente sulla parete sinistra e su quella destra della cappella.
Sulla parete di fondo invece venne sistemata nel 1602 “L’ispirazione di San Matteo”, opera dello scultore fiammingo Jacob Cobaert, che però non piacque e venne rimossa. Oggi l’opera può essere ammirata nella chiesa della Trinità dei pellegrini. Al suo posto venne realizzata una tela da Caravaggio, che però ancora non riuscì a soddisfare i gusti dei committenti. L’opera fu acquistata da Vincenzo Giustiniani, passò poi ai Musei di Berlino e fu distrutta verso la fine della seconda guerra mondiale nell’incendio della Flakturm Friedrichshain. Infine Caravaggio realizzò l’opera che oggi ammiriamo.
Le tre tele che stiamo per conoscere possono essere definite un condensato di teologia cattolica: infatti l’autore ha espresso attraverso il linguaggio dell’arte le più alte verità della fede cattolica, messe in dubbio in quel periodo dalla rivoluzione protestante. Per parlare di queste meravigliose opere d’arte, seguiremo lo stesso metodo utilizzato per “La cena di Emmaus”: passeremo dalla descrizione al significato.
La vocazione di San Matteo
Descrizione
Nel quadro possiamo individuare due gruppi di persone: quelle sedute al tavolo e quelle in piedi. Al primo gruppo appartengono 5 persone, fra cui, in posizione centrale, San Matteo. In piedi sta invece Gesù, quasi coperto da San Pietro. I primi sono vestiti in abiti cinquecenteschi tipici dell’epoca del pittore, mentre il Signore e il principe degli apostoli sono vestiti con abiti antichi. Nella parte alta del quadro, in posizione comunque decentrata, si vede una finestra, dalla quale però non proviene luce. Il buio della scena viene squarciato dalla luce che proviene dalla parte del Cristo e che va a illuminare tutti i personaggi seduti al tavolo, compresi quelli che, in posizione curvata, continuano a contare i denari non curandosi minimamente di quello che sta accadendo. I pubblicani più vicini a Gesù lo osservano con stupore, tuttavia l’unico che sembra rispondere alla chiamata di Gesù sembra essere proprio Matteo, che con l’indice sinistro indica se stesso come se si sentisse interpellato. La mano di Pietro sembra confermare la chiamata del Cristo che avviene in modo dolce. Si noti la posizione della mano di Gesù che richiama quella del Creatore nella volta della Cappella Sistina.
Significato
Passiamo dalla descrizione al significato. Con un po’ di stupore ci accorgeremo che la tela è piena di significati, che solo grazie ad una approfondita conoscenza della teologia cattolica possiamo apprezzare in pieno. Partiamo proprio dai due gruppi; quello seduto al tavolo rappresenta la “dimensione orizzontale” umana, mentre il gruppo formato da Gesù e Pietro rappresenta la “dimensione verticale” divina: insomma, il quadro ci sta parlando del più grande dei misteri, quello dell’incontro dell’uomo col divino.
La luce proviene dalla parte di Gesù e di colui che egli ha chiamato a guidare la Chiesa e non dalla finestra, come a dire che solo dalla parte del Salvatore e della Chiesa che egli ha instituito può provenire la salvezza. Dobbiamo pensare che non è ancora passato mezzo secolo dalla rivoluzione protestante che ha spaccato l’Europa e la committenza ecclesiastica vuole ribadire l’unicità della Chiesa, anche attraverso il potente linguaggio delle immagini. Sempre in quest’ottica va vista collocazione di Pietro che è posta fra Gesù e lo spettatore: Pietro, e con lui tutta la Chiesa, svolge un ruolo di mediazione fra il divino e l’umano, al contrario di quanto affermato da Lutero.
La luce poi illumina tutti coloro che sono seduti al tavolo. Anche qui dobbiamo vedere tradotta in immagini una delle verità più importanti dell’antropologia cristiana, quella della grazia e del libero arbitrio. La luce della grazia illumina tutti gli uomini, è Dio che fa il primo passo verso di loro, ma a questo desiderio di salvezza non tutti rispondono allo stesso modo: è il dramma della libertà incarnato dai due personaggi che stanno sull’estrema sinistra, non a caso curvati su se stessi; sono così attenti solo ed esclusivamente alle loro persone e ai loro interessi, che si autoescludono dalla salvezza portata dalla grazia di Cristo. Al contrario, Matteo si sente coinvolto dalla chiamata e risponde positivamente. Egli si sente chiamato dalla dolcezza di quella mano che non è rigida e tesa come in atto di comandare, ma con estrema delicatezza invita alla sequela e alla responsabilità
CITTÀ DEL VATICANO – Il Santo Padre ha celebrato nella cappella di Santa Marta l’ultima messa prima della pausa estiva. Ci ha abituati in questi mesi a uno stile semplice e diretto. Per saperne di più abbiamo intervistato il Sig. Filippo Petrignani, che lavora presso la Direzione dei Musei Vaticani in qualità di vice responsabile dell’Ufficio Immagini e Diritti, che ha avuto modo di partecipare ad una messa celebrata dal Papa.
Quando ha partecipato alla messa del Papa?
Ho partecipato alla prima messa celebrata in pubblico dal Papa Francesco, che si è svolta domenica 17 marzo 2013 presso la Parrocchia di Sant’Anna in Vaticano. Sono stato per così dire “invitato” alla celebrazione il sabato pomeriggio precedente, allorquando una Suora che abita in Vaticano mi ha detto che il Santo Padre avrebbe presenziato la Celebrazione Eucaristica delle ore 9, aperta a tutti i residenti e i dipendenti della Città del Vaticano che avessero voluto partecipare.
C’è qualche passaggio dell’omelia tenuta dal Papa che le è rimasto particolarmente impresso?
Sono arrivato a Sant’Anna alle 8,45 circa ed ho trovato la piccola Chiesa già stracolma, trovando posto solo in fondo, verso la porta di uscita. Il Santo Padre ha celebrato la Liturgia Eucaristica, soffermandosi nell’Omelia sul Vangelo del giorno, invitandoci con parole semplici a chiedere perdono a Dio sempre e comunque. “Non ci stanchiamo di chiedere perdono, perché Dio non si stanca mai di perdonarci”. Il suo linguaggio semplice ed i suoi modi sono rimasti impressi nei nostri cuori.
Ci sono particolari sullo stile del Papa che l’hanno colpita, anche al di fuori del momento liturgico?
Alla fine della celebrazione, come da tradizione dei Suoi predecessori, il Santo Padre ha lasciato per primo la Chiesa. Le Guardie Svizzere ed il personale della Sicurezza vaticana (Corpo della Gendarmeria), come di consueto ci hanno trattenuti in Chiesa, per lasciare (immaginavamo) che il Santo Padre si allontanasse prima di consentire l’uscita del pubblico. Dopo un paio di minuti circa, ci hanno lasciati uscire. Io, essendo tra i più vicini alla porta, sono stato tra i primi a varcare la soglia. Subito dopo, l’incredibile: il Papa, come un Parroco, ci aspettava fuori dalla porta, sulla strada, ancora con i paramenti liturgici indosso, per salutarci uno ad uno!! La Signora che era davanti a me ha esclamato: “Non è possibile, non può essere il Papa…” Invece era Lui, in persona, con il Suo sorriso. Quando l’ho incontrato mi ha chiesto subito chi fossi e dove lavorassi. E poi mi ha detto: “Prega per me”. Gli ho risposto: “Prego per Lei e per la Chiesa tutta, Santo Padre”. Lui mi ha detto: “Grazie. Anche io pregherò per tutti Voi che oggi siete venuti qui”. Insomma, nei quasi 30 anni che presto servizio per la Santa Sede tante volte, per lavoro o solo per vederlo, per ascoltare il Suo messaggio, ho atteso il Papa, Giovanni Paolo II o Benedetto XVI, per salutarlo: sia che transitasse all’interno delle Mura vaticane, sia che arrivasse ad una Celebrazione Eucaristica, ad una processione, al GMG, ad un qualsiasi appuntamento con i Fedeli. Mai mi era capitato che un Papa aspettasse me per salutarmi….
Ci sono altri episodi che può raccontare?
Non ho avuto modo ancora di partecipare alla Messa mattutina nella residenza di Santa Marta. I miei colleghi che sono già andati mi hanno tutti confermato l’informalità di questo Papa, che saluta tutti prima di lasciare la Cappella per andare a lavorare. Memorabile il giorno in cui, salutando il gruppo dei presenti, ha detto: “Prima di andare a lavorare ci vuole un buon caffè” e al suo Segretario che si affannava a chiedere l’arrivo dal bar di una tazzina di caffè ha risposto “No, perché? C’è una macchinetta distributrice? Andiamo a prendere il caffè lì. Non preoccupatevi, ho gli spiccioli…”
Durante le nostre catechesi artistiche abbiamo sempre rivolto la nostra attenzione a opere di chiese cattoliche, oggi invece prendiamo in considerazione un polittico che si trova nella chiesa luterana di Santa Maria a Wittenberg. Lo facciamo essenzialmente per due motivi: in primo luogo perché il linguaggio dell’arte, essendo comune non solo alle varie confessioni cristiane, ma addirittura ad una gran quantità di religioni, avvicina fra loro gli uomini e poi perché, dall’osservazione di una tale opera, possiamo imparare a conoscere un po’ meglio i nostri fratelli cristiani, pur non condividendo le loro dottrine.
Il polittico in questione è posto sull’altare della chiesa di Santa Maria di Wittenberg, è stato dipinto nel 1547 da Lucas Cranach il Vecchio, che può essere considerato l’ideologo del Luteranesimo nel campo della pittura, ed è composto da quattro panneli. I primi tre ci illustrano i tre sacramenti riconosciuti dai luterani: il battesimo, l’eucaristia e la penitenza. Nell’ultimo, posto in basso, c’è il crocifisso.
Partendo dal primo pannello possiamo osservare Filippo Melantone, stretto collaboratore di Lutero, mentre sta amministrando presso un fonte battesimale il primo sacramento dell’iniziazione cristiana. Accanto a lui, sulla destra, scorgiamo l’iniziatore della riforma protestante che tiene aperto il libro della bibbia. Sulla sinistra invece vediamo il pittore stesso che regge la veste bianca che il neo battezzato indosserà. Vicino a Lucas Cranach il Vecchio ci sono la madre e il padre del bambino in ricchi abiti cinquecenteschi.
Veniamo ora al pannello centrale. Sia per la sua posizione che per le sue dimensioni comprendiamo che questa è la scena più importante. Il momento dell’ultima cena è rappresentato ispirandosi all’iconografia orientale che mostra spesso gli apostoli disposti a mo’ di “sigma” mentre Gesù è seduto a capotavola. La scena si ispira alla narrazione di Giovanni: vediamo infatti l’apostolo prediletto dal Signore appoggiarsi sul suo petto mentre Gesù imbocca Giuda. Fra i dodici apostoli è seduto Lutero il quale sta dando il calice ad un uomo che ha le sembianze di Lucas Cranach il Giovane. In questo particolare possiamo vedere uno dei capisaldi della dottrina eucaristica luterana e cioè la comunione sotto le due specie. I Luterani infatti non riconoscono la dottrina cattolica della concomitanza e pertanto ritengono valida la comunione solo se ricevuta attraverso entrambe le specie del pane e del vino
Nel terzo pannello è raffigurato Johannes Bugenhagen, pastore della chiesa di Santa Maria di Wittenberg, mentre con una chiave accoglie nella comunione della chiesa un fedele e con un’altra allontana un peccatore. Fino a questo momento, a livello iconografico, le chiavi sono sempre state un attributo di Pietro. Lutero però ha contestato (erroneamente) la dottrina del primato asserendo che le chiavi non appartengono al solo Pietro, ma a tutta la chiesa. Ecco perché Cranach le dipinge nelle mani di un semplice pastore
Veniamo ora all’ultimo pannello posto in basso. Al centro vi è il crocifisso, sulla destra Lutero che predica e sulla sinistra i fedeli che lo ascoltano. Fra questi si può riconoscere la moglie di Lutero, l’ex suora cistercense Caterina von Bora , mentre mentre dà la mano a loro figlio Hans. Se è vero che il crocifisso occupa una posizione centrale nel pannello dando espressione alla cosiddetta “theologia crucis”, dall’altra dobbiamo constatare che esso ha dimensioni più piccole rispetto alla sovrastante scena dell’ultima cena e questo perché per Lutero, a differenza della comune dottrina di allora, vede nell’eucaristia il memoriale della cena e non del sacrificio di Cristo sulla Croce.