Senza istruzione corriamo il rischio di prendere sul serio le persone istruite. G.K.C.

Nicola Rosetti

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Paolo Annibali, scultore e docente di Storia dell’Arte presso il Liceo Scientifico (anche del sottoscritto!) di San Benedetto del Tronto, ha da poco terminato la sua ultima opera “La porta degli emigrati” che da qualche giorno fa bella mostra di sé presso il Santuario di San Gabriele a Colledara. Lo abbiamo contattato ed ha gentilmente risposto alle nostre domande.

Professore, da quanti anni svolge la sua attività di scultore e come è iniziata la sua attività?

Sin da bambino divoravo album da disegno, avevo sempre le mani sporche di plastilina, ma questa voracità si è spenta con gli anni delle elementari, la scuola di allora non teneva in nessuna considerazione queste doti. Il desiderio dell’arte è riapparso con la fine delle medie, quando incontrai degli insegnanti che davano grande importanza ai rapporti umani. Provo nei loro confronti una grande riconoscenza, non solo per le scelte artistiche future, ma, diventato insegnante, ho cercato in qualche modo di imitarli, usandoli come modelli.

Debbo a loro che intrapresi gli studi con il liceo artistico e poi l’accademia. Certo, non è così scontato tradurre un talento in mestiere, è molto facile perdersi, l’arte è il mondo dell’incertezza, dell’approssimazione. Ancora non dimentico l’espressione dei miei genitori, quando comunicai che volevo fare l’artista, anzi lo scultore, lessi nei loro occhi la disperazione di chi immagina, non senza cognizione, il proprio figlio proiettato verso una vita di stenti.

In effetti il mestiere dell’arte è un percorso in eterna salita, nella quale devi credere senza esitazioni in te stesso e in quello che fai. Quando sei giovane il mestiere è un continuo inizio, in quanto i riscontri, soprattutto economici, sono pesantemente modesti, e solo quella fede ti può salvare.

Tra i tanti inizi, quello che più ha segnato la mia strada, è quello del 1981, quando giovane promessa appena uscito dall’accademia, mi colse l’artrite reumatoide, che per un lungo periodo m’impedì qualsiasi attività. L’esperienza del dolore mi offrì la possibilità di esplorare il mio mondo interiore più intensamente. Quando i morsi della malattia si attenuarono, la mia sensibilità si era affinata, il bagaglio emotivo arricchito. Nel 1983 organizzai la mia prima mostra personale in cui la mia ricerca poetica si era avviata verso quelle tematiche che ancora fanno parte della mia opera.

A quale corrente artistica appartiene la sua produzione e qual è lo scultore che lei vede come un modello?

Non mi sento di appartenere a nessuna corrente artistica. Oggi l’arte vive un momento di grande complessità e fragilità. Il mio lavoro è orientato verso la figurazione, un mondo direi forse rassicurante e anacronistico, anche se oggi mi sembra più che mai attuale, in quanto molti giovani sembrano esprimere le stesse tensioni.

Non ho mai pensato ad uno scultore come modello, ma a tanti. A tutti quelli che hanno espresso una forte componente morale e civile: Giovanni Pisano, Donatello…. Ma anche pittori come David, Courbet, Mantegna….

Nell’arco della sua carriera si è parecchio dedicato a soggetti sacri. Può ricordare ai nostri lettori quali sono le opere di maggior rilievo che ha prodotto per la committenza ecclesiastica? Ci può dire poi quale opera considera il suo capolavoro?

Tra le opere più significative che ho realizzato, penso ci sia l’ultima, la “Porta degli emigrati” per il Santuario di San Gabriele, forse perché è l’opera della maturità, forse perché è ancora fresco il ricordo della fatica, ma anche l’ambone della cattedrale di Fiesole, la porta della cattedrale di Jesi.

Più che il mio capolavoro, il cui giudizio lascerei ad altri, parlerei dell’opera che amo di più: la “Madonna della Misericordia” per la parrocchia di San Pio X a San Benedetto del Tronto. E’ una scultura che racconta un momento particolarmente difficile della mia esistenza.

Quale rapporto c’è fra chi commissiona l’opera d’arte e lo scultore? L’artista ha una certa libertà?

Tra artista e committente si istaura una certa complicità, quando il committente ti sceglie per realizzare un’opera, ha in te una grande fiducia. Va un po’ sfatato il luogo comune per cui le opere su committenza siano delle costrizioni per la sensibilità dell’artista.

I temi definiti sono per l’artista, quello che è la rima per il poeta, per non parlare poi di tutta l’arte del passato in cui si operava solo esclusivamente su committenza. Direi anche che la libertà espressiva e la propria personalità si possono affermare anche nei temi più angusti delle opere su committenza. L’importante è la qualità dell’opera.

In che misura secondo lei l’arte contemporanea riesce a descrivere la sensibilità religiosa dell’uomo di oggi?

Il rapporto tra spiritualità e arte contemporanea è complesso e spesso conflittuale. Distinguerei tra un’arte sacra creata appositamente per la liturgia e un’arte che pur lontana nei temi evidenzia la ricerca di senso, l’annuncio, l’intuizione del divino. Nella complessità del contemporaneo molto spesso è più la seconda tipologia di opere che ci avvicinano al sentimento di Dio. E’ sempre la bellezza lo strumento attraverso la quale si può parlare di spiritualità.

Lei oltre ad essere scultore è docente. Come si pongono secondo lei i ragazzi di oggi di fronte al nostro patrimonio artistico e in definitiva rispetto alla bellezza?

Se il mestiere dell’arte è straordinario posso dire, dopo tanti anni di insegnamento, che quello di docente lo è altrettanto. Il mondo della scuola è ancora il mondo della speranza e direi anche della bellezza. Certo lo studio è fatica, chi di noi si alzava la mattina con la gioia nel cuore pensando di andare a scuola? Nonostante che i ragazzi intuiscano che parlando di Masaccio o di una colonna greca, gli racconti le cose più belle che ha creato l’uomo, un conto è assistere una lezione, dove l’insegnante cerca di trasmetterti la sua passione, un conto è poi studiarsela e di nuovo raccontarla.

Ma il tempo dell’adolescenza è un tempo particolare. Nell’età adulta si ripensano tante cose e ci si accorge che molti discorsi sono “passati”, così l’arte è entrata a far parte del patrimonio più profondo di ognuno. Credo che tu ne sia la testimonianz: ebbi un sussulto di gioia, quando, in visita a Santa Maria sopra Minerva a Roma, ti incontrai mentre spiegavi le numerose opere d’arte del luogo ad un gruppo di bambini.

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Il 17 dicembre 2013 Papa Francesco ha esteso alla Chiesa universale il culto liturgico in onore di Pietro Favre, che, a detta dello stesso Pontefice, è la figura di gesuita che gli è più cara, dopo ovviamente Ignazio di Loyola. Ma chi è Pietro Favre? Per conoscere questo “nuovo santo” può essere utile la lettura del volume “Pietro Favre. Servitore della consolazione” curato dal Direttore de “La Civiltà Cattolca”, padre Antonio Spadaro ed edito per i tipi dell’Ancora.

Il testo raccoglie un insieme di saggi comparsi su “La Civiltà Cattolica” che possono aiutare a delineare il ritratto del “santo di Papa Francesco”. Il primo contributo scritto nel 1979 da padre Giuseppe Mellinato è di taglio biografico e funge da introduzione agli altri che invece si soffermano su particolari carismi di Favre.

Scopriamo allora che Pietro Favre è nato a Villaret, in Savoia, il 13 aprile 1506 in una modesta famiglia di contadini. All’età di 19 anni si recò a studiare alla Sorbona di Parigi, dove incontrò Ignazio di Loyola che era più grande di lui di una ventina di anni. Insieme dimorarono presso il Collegio Santa Barbara con Francesco Saverio.

Capiamo subito quindi che Favre è uno dei primi amici di Ignazio e dunque avvicinarlo significa comprendere qualcosa in più su come è nata la Compagnia di Gesù. Egli non aveva le idee chiare su quale fosse la propria vocazione, fu così che nel gennaio del 1534 iniziò gli esercizi spirituali, la pratica di discernimento ideata proprio da Ignazio, che lo porteranno nel maggio dello stesso anno a diventare prete.

Egli dunque è il primo sacerdote della  Compagnia di Gesù, prima ancora dello stesso Ignazio! Fu proprio Favre a celebrare la messa quel 15 agosto 1534 quando Ignazio e altri cinque suoi amici alle pendici di Montmartre fecero voto di unirsi in quello che sarebbe divenuto uno dei più importanti ordini religiosi della Riforma Cattolica.

È proprio nel contesto della desiderio di riforma che Favre svolge il suo apostolato. Egli, secondo le parole dei padri Coupeau e Zollner, “poteva testimoniare che la diffusione del protestantesimo era dovuta a una crisi morale e spirituale in seno alla Chiesa cattolica. Per il fatto che i cattolici dei paesi tedeschi avevano perso il retto sentire, era andata persa anche la retta fede.  Per poter riacquistare la retta fede, la strategia di Favre tendeva a ricondurre i fedeli al retto sentire” (p. 72).

E quale metodologia seguiva Favre? Sono ancora i due gesuiti a spiegarcelo: “Anziché esibirsi pubblicamente in dispute teologiche o polemizzare sulle condanne reciproche, con incontri personali voleva convincere i protestanti di quanto gli stesse a cuore la riforma spirituale e quanto fosse necessaria l’unità di tutta la Chiesa” (ibidem).

Troviamo in queste parole una grande assonanza con la sensibilità spirituale di Papa Francesco. Il Pontefice infatti, proprio come il santo che ha tanto a cuore, predilige la cosiddetta “cultura dell’incontro”: al centro dei suoi interessi non c’è l’esposizione di una dottrina, ma il desiderio di farsi prossimo ad ogni uomo.

Lo vediamo nella sua gestualità, nel suo chinarsi verso le persone più sofferenti, nei suoi non rari contatti telefonici: in ognuno di questi  suoi gesti possiamo scorgere il desiderio di incontrare direttamente le persone alle quali vuole fare sentire l’abbraccio di Cristo.

Papa Francesco, come Favre, vive in un tempo di riforma, che è anzitutto una sempre maggiore adesione del cuore a Cristo prima che una serie di cambiamenti di strutture. La riforma della Chiesa è qualcosa di sostanzialmente molto diverso da quella che può essere la riforma di uno stato: essa passa prima di tutto attraverso le persone.

Per tutti questi motivi crediamo che Papa Francesco si ispiri e senta così vicino il primo sacerdote della Compagnia di Gesù.

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SAN BENEDETTO DEL TRONTO – La chiesa di San Benedetto Martire è la più antica della nostra città. Essa sorge sul luogo dove da tempo immemorabile si conservano i resti mortali del santo eponimo. L’edificio che oggi vediamo risale al XVIII secolo ed è opera dell’architetto Pietro Augustoni.

La chiesa è a navata unica. Oltre all’altare maggiore, vi sono altri sei altari, tre a destra e tre a sinistra. Varcata la porta, troviamo, murata nella controfacciata, la parte di una lapide che in origine era posta sul sepolcro di San Benedetto e che, secondo le ricostruzioni che sono state fatte, ci fornisce qualche dato sulla vita di San Benedetto. Il martire aveva una sorella gemella di nome Frutta che visse 58 anni, egli invece morì all’età di 28 anni il giorno 13 ottobre (probabilmente 304), quando erano Augusti Diocleziano e Massimiano.

Osservando poi il primo altare sulla parete destra possiamo notare due statue lignee: quella della Madonna Addolorata del 1950 e, in basso, quella del Cristo Morto del 1880.

Sopra al secondo altare della parete destra, vediamo una tela del XVIII secolo nella quale è raffigurata la Madonna del Carmelo che regge Gesù Bambino. Il divin fanciullo sta donando gli “abitini” a Santa Apollonia, riconoscibile dalle tenaglie che ha in mano, suo caratteristico simbolo iconografico. Assistono alla scena anche Santa Lucia, che regge in mano i suoi occhi, e San Nicola di Bari che ha in mano tre palle d’oro.

Sopra al terzo altare della parete destra possiamo ammirare la Pala della Madonna del Rosario, opera del XVI secolo. In questo dipinto distinguiamo due mandorle: in quella più esterna sono rappresentati i 15 misteri del Rosario, mentre in quella interna vediamo la Vergine e Gesù Bambino nell’atto di donare le corone del Rosario a San Domenico e a Santa Caterina da Siena.

Fra le due mandorle corre una fascia, sulla quale troviamo la frase del Salmo 45: “Astitit regina a dextris tuis in vestitu deaurato, circumdata varietate”. Al di sopra della mandorla scorgiamo due angeli oranti, mentre sotto di essa possiamo vedere due uomini che sorreggono dei cartigli: su quello di sinistra si legge “Egredietur virga de radice jesse” (Is 11,1) mentre su quello di destra è scritto “Ecce virgo concipiet et pariet filium” (Is 7,14).

Volgendo la nostra attenzione ora sull’altare che troviamo nella parete di fronte, possiamo ammirare la statua del santo patrono: Benedetto è rappresentato come un giovane soldato romano. Sopra la sua armatura indossa un mantello di colore rosso. Con la mano sinistra tiene una palma, simbolo del martirio, mentre con la destra regge un modellino del Paese Alto. Presso questo altare, visibili al pubblico, possono essere venerati il cranio e le ossa del santo.

Sul secondo altare della parete sinistra troviamo il simulacro della Immacolata Concezione, una immagine molto venerata perché, grazie alla sua intercessione, nel 1855 cessò nella nostra città la piaga della peste. Ogni anno l’8 dicembre, come segno di gratitudine verso la Vergine, questa statua viene portata in processione.

Fra questi due altari non possiamo non notare il luogo dove riposa Padre Giovanni dello Spirito Santo, al secolo Giacomo Bruni, sacerdote passionista sambenedettese che si spense a soli 23 anni e che la chiesa ha riconosciuto come Venerabile. Il dipinto è opera dell’artista don Luigi Sciocchetti, fratello di Mons. Francesco Sciocchetti, benemerito parroco della Madonna della Marina dal 1890 al 1920.

L’ultima pala d’altare che osserviamo risale al XVIII secolo e mostra le anime del purgatorio che grazie all’intercessione di San Giacomo della Marca e di San Pietro d’Alcantera si protendono verso la Madonna e Gesù Bambino nella speranza di raggiungere il cielo.

Se ora spostiamo la nostra attenzione nella zona del presbiterio e più precisamente sull’abside, possiamo notare la pala d’altare, realizzata nel 1707 dal pittore fermano Ubaldo Ricci, raffigurante la scena dell’Ultima Cena. Il Signore Gesù e gli apostoli sono radunati attorno alla mensa. Giovanni è appoggiato sul petto di Gesù e alla sua figura si contrappone quella di Giuda che, voltando le spalle a Gesù, abbandona la mensa.

Nell’abside si possono scorgere alcuni angeli che reggono in mano i simboli della passione: la colonna, la canna con la spugna, il martello, la corona di spine, il calice, la scala, le tenaglie e la croce. La pala d’altare e i putti ci introducono, attraverso il linguaggio delle immagini, al mistero che sull’altare viene celebrato: con il pane e il vino consacrati Gesù ci invita alla sua mensa che è memoriale del suo sacrificio.

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BOLOGNA – “La bellezza della festa. Iconografia e arte nel mistero cristiano”. È questo il titolo di un’interessante iniziativa promossa dalla Pinacoteca Nazionale di Bologna in collaborazione con l’Arcidiocesi di Bologna. Da gennaio a maggio, con cadenza mensile, si terranno degli incontri presso la sede della pinacoteca e ai visitatori sarà proposto un percorso di lettura di opere d’arte che rapresentano varie feste cristiane.

Franco Faranda, direttore della pinacoteca, ha dichiarato al quotidiano “La Repubblica”: “L’iniziativa è stata nostra di fronte all’evidenza di un numero sempre crescente di persone che non hanno più consuetudine coi riti della Chiesa ed hanno così perso le conoscenze di base per leggere un quadro religioso. Un danno vistoso, considerato che l’80 per cento della nostra raccolta è a tema sacro. Ci siamo resi conto che molti visitatori non sanno che cosa è la Pentecoste e che pure iconografie come l’Annunciazione non sono così immediate”.

Per conoscere meglio questa iniziativa, abbiamo intervistato Don Gianluca Busi, membro della Commissione Diocesana per l’Arte Sacra e ideatore con Franco Faranda della mostra.

Don Gianluca, quando e come è nata questa iniziativa?

L’iniziativa comincia in maniera singolare! Ho tenuto una conferenza nella biblioteca storica dei francescani della mia città, lo scorso anno, dal titolo: “Capolavori mariani alla Pinacoteca Nazionale di Bologna”. Mi proponevo di condurre una sorta di “visita virtuale” al Museo nell’ambito di un programma di spiritualità, attraverso l’arte a tema mariano, che è stata filmata e pubblicata su youtube sul mio canale “gianluca busi”. Con mia grandissima sorpresa ho ricevuto entro breve tempo una telefonata personale da parte del direttore della Pinacoteca, il dottor. Franco Faranda, che, molto contento del mio intervento, mi invitava ad una collaborazione.

In che modo è stato coinvolto nella preparazione di questo evento?

Dopo un primo incontro, abbiamo fissato i termini per un reciproco patrocinio, coinvolgendo la mia diocesi ed il ministero per i beni culturali. Si è trattato soprattutto di evidenziare le reciproche competenze. Per motivi storici risaputi, la critica artistica in occidente vive all’interno di una frattura non sanata. Infatti l’approccio accademico risente della critica vasariana, ripresa nel secolo scorso dal Longhi e presente nei manuali che tende a privilegiare la ricerca filologica delle opere d’arte. Al contrario l’approccio ecclesiale, riproposto di recente, soprattutto attraverso l’opera miliare di Mons. Timothy Verdon di Firenze, tenta di ricollocare l’opera d’arte nel cosiddetto “contesto nativo”. Cerca cioè di leggere un dipinto o una scultura, ripensandola nel luogo originario per cui fu eseguita.

Colto questo punto, abbiamo pensato ad interventi a due voci, in cui la soprintendenza si prende cura di descrivere l’aspetto filologico di un’opera, mentre per noi della Diocesi si tratta di ricollocare  le opere d’arte alla luce della storia del popolo di Dio e di come le percepiva nel contesto della Liturgia celebrata.

Lei ha guidato già il primo dei 5 appuntamenti che sono in programma. Quali sono le sue impressioni e come hanno risposto i visitatori?

In realtà io ho soltanto introdotto l’iniziativa per il primo appuntamento, mentre l’introduzione vera e propria è stata di un delegato del mio Cardinale Arcivescovo Carlo Caffarra. Io stesso però compaio fra i relatori e terrò due conferenze dedicate al tema dei “crocifissi” e della “Pasqua”, nel taglio peculiare che come diocesi abbiamo scelto, quello cioè della cosiddetta “spiritualità attraverso l’arte”.

La cosa che ci ha sopreso è stata il numero dei partecipanti! Non sono bastati i posti a sedere nella già ampia Aula Magna della Pinacoteca! La mia impressione è che l’inziativa sia soltanto agli inizi, e che riceverà nel tempo un notevole sviluppo, anche perché il contatto con i destinatari ci consente di elaborare una strategia sempre più efficace ed “a misura” del nostro uditorio. Faccio notare  che le conferenze vengono filmate in modo professionale da un operatore che ha lavorato per la RAI e che sappiamo raggiungere migliaia di utenti in rete.

Credo che il punto di forza sia la formula coinvolgente che vede all’inizio le due conferenze concertate come dicevo a “due voci”, che poi prosegue nella visita “in situ” alle opere cui era dedicato il tema della giornata, nella fattispecie per il primo incontro, il tema del “Battesimo di Gesù”.

Una cosa di cui soffre spesso il visitatore di un Museo infatti è quella specie di distacco, “gap” incolmabile, fra il fruitore e l’opera d’arte. Questo avviene perché la ricerca accademica tende ad un eccessivo rispetto del visitatore, cercando di non comunicargli mai un’ermeneutica dell’opera d’arte che sia realmente fruibile. Questo avviene a mio parere a causa di un eccesso di rispetto pensando erroneamente che il visitatore abbia già una conoscenza adeguata dell’opera e che non debba essere influenzato da nessuna interpretazione.

Al contrario l’approccio di questa iniziativa si pone proprio l’obiettivo di comunicare una interpretazione nel contesto, quindi molto precisa, in vista di una sorta di “ri-alfabetizzazzione” del visitatore che spesso non ha più nessuno strumento per ricongiungersi con un dipinto che non appartiene alla sua cultura di riferimento.

Quando è nata la sua vocazione artistica?

Dipingo da quando ho tre anni, la mia prima maestra di pittura è stata mia madre che nello studio di Sartoria casalingo mi correggeva i primi disegni. Tuttavia mi sento un iconografo. Ho cominciato a dipingere icone in età adulta verso i trent’anni, a causa di un soggiorno presso di una comunità religiosa fondata da don Dossetti, vicina alla spiritualità orientale e all’iconografia canonica. Da circa vent’anni divido il mio ministero sacerdotale fra l’attività di Parroco ed insegnante con la pittura di icone.

Possiamo dare ai nostri lettori tutti i riferimenti per potervi raggiungere?

Certamente: le conferenze come ho già avuto modo di dire sono disponibili sul canale youtube “gianluca busi” in una playlist dal nome “bolognafedearte”. Ma possono essere reperite, insieme ad immagini di repertorio, sulle pagine fb della “Pinacoteca Nazionale di Bologna” e alla pagina “bolognafedearte”. Pensiamo anche di aprire un forum ed un gruppo fb in futuro, nel desiderio di cercare un contatto con i nostri destinatari per affinare continuamente questo progetto.

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Nei giorni 19, 23 e 29 agosto 2013 Padre Antonio Spadaro, direttore de “La Civiltà Cattolica” si è recato a Santa Marta per intervistare Papa Francesco. Questa intervista è uscita il 19 settembre proprio sulla prestigiosa rivista dei gesuiti. Ora il testo viene ripubblicato dalla dalla casa editrice Rizzoli.

In questa nuova edizione, l’intervistatore fornisce un aiuto nella comprensione di quanto già dichiarato dal Pontefice, permettendo ai lettori di addentrarsi dietro le quinte di quella che lo stesso Spadaro ha definito, più che un’intervista, un’esperienza spirituale.

La comune formazione gesuitica ha permesso a Padre Spadaro di leggere in profondità le espressioni del Papa. Si può dire infatti che fra i due ci sia “un linguaggio comune in più” (p. 18). Ciò permette al lettore di avvicinarsi al “vero Papa Francesco” e non a quello a volte caricaturale di certa stampa.

L’incontro si è svolto in un clima assai sereno nel quale il Papa ha messo a suo agio padre Spadaro. La sua autorevolezza – scrive il direttore de “La Civiltà Cattolica” a p. 19 – non si accompagna alla distanza ieratica, ma alla disponibilità vicina.

In fin dei conti, una delle chiavi del “successo” di Papa Bergoglio, sta nel suo entrare in sintonia con chi gli sta di fronte. “Si tratta di quella simpatia di cui parla Abraham Joshua Heschel e che riguarda il profeta, il quale armonizza la sua vita alla parola di Dio, coinvolgendo i sentimenti di chi lo ascolta (p. 20)”. Il Papa comunque non si limita a comunicare, ma crea eventi comunicativi, cioè rende attori e protagonisti coloro che dovrebbero essere solo spettatori (cfr. p. 69).

Papa Francesco è il primo papa, dopo più di 180 anni, che proviene da un ordine religioso. L’ultimo era stato il bellunese Bartolomeo Alberto Cappellari che apparteneva all’ordine benedettino e che, alla sua elezione, prese il nome di Gregorio XVI. Come è noto, chi appartiene a una particolare famiglia religiosa, ne segue il carisma. Uno degli aspetti più interessanti del libro è sicuramente il continuo richiamo alla spiritualità dell’ordine dal quale il Santo Padre proviene.

Una particolarità della spiritualità gesuitica sulla quale più si riflette è quella del discernimento, cioè la capacità di scorgere fra le cose umane quelle divine. Esso richiede una profonda immersione in Dio: “Il discernimento si realizza sempre alla presenza del Signore, guardando i segni, ascoltando le cose che accadono, il sentire della gente, specialmente poveri (p. 28)”.

È proprio questa visione delle cose che ha portato il Papa a circondarsi di 8 cardinali, ascoltando i quali egli prenderà quelle decisioni che sono più utili per il bene della Chiesa. Riforme che ci saranno, ma in modo lento e graduale, proprio perché il Papa diffida delle scelte impulsive.

Le riforme non saranno solo strutturali. Queste avverranno in seconda battuta. Papa Francesco, con una logica profondamente cristiana, ritiene che la prima e la più importante delle riforme sia quella del cuore: “La prima riforma è quella dell’atteggiamento (p. 59)”.

Il più grande cambio di atteggiamento che il Papa vuole, in piena conformità con il messaggio del vangelo, è quello che riguarda il ruolo della Chiesa. Il Santo Padre desidera che la comunità ecclesiale non sia autoreferenziale, ma tutta protesa verso i bisogni dell’uomo di oggi: “Invece di essere solo una Chiesa che accoglie e che riceve tenendo le porte aperte, cerchiamo pure di essere una Chiesa che trova nuove strade (p. 60)”.

Per Papa Francesco non si tratta di un appiattimento della Chiesa verso il mondo, come troppo spesso proposto dai mass media, ma di un genuino senso missionario che dovrebbe spingere la Chiesa a uscire da sé per abitare le tante periferie geografiche ed esistenziali

Ma Bergoglio è un conservatore o un progressista? Quando anni addietro si trovò con ruoli di responsabilità all’interno del suo ordine, papa Bergoglio confessa di aver preso scelte che contribuirono ad affibbiargli l’etichetta di conservatore. Non pochi oggi al contrario lo etichettano come progressista, ma si direbbe che questo è il destino degli uomini di Dio i quali, in realtà, oltrepassano di gran lunga queste categorie mondane.

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Sono molte le pubblicazioni in questi ultimi anni che aiutano i lettori ad avvicinarsi al mondo della fede attraverso l’arte. Basti pensare ai volumi di Timothy Verdon, Maria Gloria Riva o Maria Rosa Poggio. A questa ampia letteratura si aggiunge un interessante volume del gesuita Andrea Dall’Asta intitolato “Dio storia dell’uomo. Dalla parola all’immagine” delle Edizioni Messaggero Padova.

Il testo, più che una raccolta di opere d’arte di ispirazione religiosa e delle loro relative spiegazioni, si propone come una riflessione di ampio respiro sul rapporto fra parola e immagine, come messo in luce già nel titolo.

Tutte le esperienze gnoseologiche e religiose si sbilanciano a favore del dato visivo, come nel mondo greco, dove si predilige l’osservazione della realtà, oppure di quello uditivo, come nella cultura ebraica, dove il popolo eletto si mette in ascolto della rivelazione divina. L’autore invece mostra come il cristianesimo offra una straordinaria sintesi fra questi due dati, una sintesi resa possibile dal Mistero dell’Incarnazione nel quale la Parola si è fatta Carne.

La centralità della Parola nell’Antico Testamento viene analizzata nel primo capitolo, mentre l’importanza dell’Immagine occupa il secondo. Questi primi due capitoli, che fanno da introduzione agli altri temi successivamente esposti,  sono quelli più propriamente teologici e sono ricchi di riferimenti scritturistici.

Fra le analisi delle opere prese in esame, abbiamo particolarmente apprezzato quella sull’autoritratto di Albrecht Dürer. Dall’Asta spiega come il pittore tedesco abbia rappresentato se stesso come Figlio di Dio. Apparentemente, ritrarsi in questo modo, potrebbe sembrare blasfemo, ma l’analisi dell’autore ci mostra come invece Dürer abbia colto in profondità l’essenza del cristianesimo: ogni fedele è chiamato a conformarsi a Cristo, a diventare sua immagine. È nel Figlio che diventiamo figli di Dio.

Probabilmente l’autore sente questa immagine molto vicina a sé, visto che è stata anche scelta come copertina del libro.

Quello che colpisce dell’analisi di tutte le opere è la particolare profondità con la quale vengono studiate. Le parole usate dall’autore non servono solo a descrivere le opere in termini formali, ma si spingono a cogliere l’anima di ogni raffigurazione, restituendo ad esse il “valore sacramentale” che ogni opera religiosa possiede e che spesso i critici sottovalutano. L’arte sacra infatti rimanda sempre a un contenuto più alto. Essa è stata realizzata con un fine catechetico e per accendere nel fruitore/fedelela pietà. Ignorare queste dimensioni non fa cogliere appieno queste espressioni artistiche.

Lo stile adoperato è sempre chiaro e lineare, nonostante la profondità dei contenuti. In più passi è possibile scorgere una sensibilità quasi di stile orientale, molto attenta alla dimensione trinitaria e in particolare alla pneumatologia.

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Dopo essersi intrufolato in casa Chesterton, Andrea Monda, insieme con Saverio Simonelli, ha sbirciato nella biblioteca di Papa Francesco, dando così vita al libro uscito per la casa editrice Àncora “Fratelli e sorelle, buona lettura! Il mondo letterario di Papa Francesco”.

Il testo ha l’intento di ricostruire, a partire dalle citazioni che di tanto in tanto Papa Francesco ha fatto, quali siano gli autori preferiti dell’attuale Vescovo di Roma.

Una simile operazione fa essere questo testo fra le prime pubblicazioni, se non la prima in assoluto, che descrivono lo spessore culturale di Papa Francesco. La nostra testata fu la prima a scorgere una somiglianza fra il profilo umano e spirituale di Papa Francesco e quello di Giovanni Paolo I, una somiglianza che possiamo notare anche sotto il punto di vista culturale.

Papa Luciani, al pari di quanto sta accadendo per Papa Bergoglio, è stato principalmente percepito come un uomo semplice e vicino alla gente, mentre è sfuggita ai più il suo amore per la letteratura.

Un errore nel quale non sono caduti gli autori del nostro libro che hanno rintracciato nei vari discorso di Papa Francesco i vari riferimenti al mondo della letteratura, un mondo che il Pontefice conosce bene, visto che negli anni ’60 insegnò nell’Istituto Immacolata Concezione della città argentina di Santa Fe.

Leggendo questo libro, sono molte le cose che si possono scoprire sul back-ground culturale di Papa Francesco. Il Pontefice apprezza lo scrittore inglese G.K. Chesterton ed è anche iscritto alla Società Chestertoniana Argenitina.

Apprendiamo ancora che Papa Francesco ha attinto l’espressione “le classi medie della santità” dalla produzione letteraria dello scrittore francese Joseph Malègue.

Anche in un momento come quello della visita all’isola di Lampedusa, in memoria di quanti hanno drammaticamente perso la vita in mare, Papa Francesco non ha tralasciato un collegamento con l’universo letterario individuando nel manzoniano Innominato la figura di quanto si disinteressano del prossimo.

Monda e Simonelli prendono ancora in esame autori del calibro di Dostoevskij, Tolkien e Hölderlin, senza trascurare altri autori minori che hanno influito su Bergoglio. Un libro da leggere per conoscere un aspetto del nuovo Papa fino ad ora poco studiato.

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Abbiamo il piacere di intervistare il Dott. Filippo Cagnetti, ricercatore in matematica alla University of Sussex, a Brighton, in Inghilterra. Il Dott. Cagnetti è nato a San Benedetto del Tronto l’8 Marzo 1975. Dopo la maturità classica conseguita nel 1993 ha frequentato la il corso di laurea in Fisica presso l’università “la Sapienza” di Roma, dove si è laureato nel 2003.

Dott. Cagnetti, dopo quanti anni a distanza dalla laurea ha maturato l’idea di arricchire il suo percorso formativo all’estero e cosa l’ha spinta a lasciare l’Italia?

Subito dopo la laurea ho iniziato un dottorato di ricerca in matematica alla “SISSA” di Trieste. Si tratta di una scuola internazionale, in cui gli studenti vengono da ogni parte del mondo e le lezioni sono tenute in inglese. È stata un’esperienza altamente formativa, durante la quale i docenti mi hanno insegnato a guardare alla comunità scientifica come a una grande famiglia, senza barriere di alcun tipo.
Così, quando alla fine del 2007 ho conseguito il dottorato, ho visto la possibilità di andare all’estero non come una “fuga”, ma come una grande opportunità per incontrare i migliori matematici in circolazione.
Quindi mi sono trasferito alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh fino a Settembre 2009, dove ho insegnato e fatto ricerca. Da lì mi sono spostato all’Instituto Superior Técnico di Lisbona, fino a Marzo 2013, con una parentesi di sei mesi alla University of Texas di Austin. Da Aprile 2013 sono alla University of Sussex, in Inghilterra.

Quali sono i pregi della formazione universitaria negli Stati Uniti e quali differenze ha trovato col sistema italiano?

Le differenze sono davvero molte. Negli Stati Uniti l’università è gestita come un’azienda, con tutti i pro e i contro che questo comporta. Gi studenti, ad esempio, sono trattati come clienti e quindi la loro soddisfazione ha un grande peso nelle decisioni prese. Questo si riflette sull’organizzazione del corso di studi, che è spesso impeccabile: classi poco numerose, esercitazioni corrette e valutate dal professore con cadenza settimanale. Da questo punto di vista l’università americana somiglia più al nostro liceo. Ad esempio, non è possibile rimandare all’infinito un esame e rimanere indietro nel corso degli studi. A fine anno o si passa o si è bocciati.

Naturalmente questo sistema ha degli aspetti negativi. Le tasse, ad esempio, sono molto alte. Spesso gli studenti sono incoraggiati a fare dei mutui, che dovranno pagare negli anni successivi, dopo che avranno cominciato a lavorare. Ricordo alcuni amici americani che non potevano permettersi di lasciare un lavoro ben pagato che detestavano, semplicemente perché altrimenti non sarebbero mai riusciti a saldare i debiti accumulati negli anni di studi.

Cosa ha di positivo il nostro sistema?

Paradossalmente, l’idea americana e inglese di soddisfare il più possibile le richieste degli studenti può andare a discapito degli stessi ragazzi. In alcuni casi questo porta ad abbassare il livello dei corsi, per paura di eccessive proteste. Nel nostro paese questo non accade. A mio avviso il livello medio di preparazione di un laureato italiano è migliore di quello di moltissimi altri paesi.

Quali sono gli aspetti che da un punto di vista professionale l’hanno maggiormente colpita avendo l’opportunità di lavorare all’estero?

La prima sorpresa l’ho avuta quando mi trovavo a Austin, in Texas, e ho ricevuto una telefonata da un’università inglese a cui avevo inviato per posta elettronica il mio curriculum 3 settimane prima. Nonostante non conoscessi nessuno, mi avevano selezionato per fare un colloquio. Si scusavano dello scarso preavviso, ma spiegavano che, se avessi accettato di presentarmi, avrebbero pagato il volo di andata e ritorno Stati Uniti-Inghilterra, un albergo per i giorni di permamenza, e tutte le spese di vitto.
Non ho avuto il posto, ma poi sono stato ad altri colloqui in Inghilterra, tutti dello stesso tipo. La loro preoccupazione è scegliere il migliore tra i partecipanti ed assumerlo subito, prima che qualcun altro lo faccia.
Devo purtroppo ammettere che quello che mi è capitato in Italia è molto diverso. I concorsi italiani richiedevano la preparazione di molti documenti, che poi andavano stampati e spediti via posta all’università in questione. In un caso, è passato un anno tra la presentazione della domanda e la data del colloquio. Naturalmente tutte le spese erano a carico mio, e non erano poca cosa, visto che venivo dall’estero.
Detto questo, non cambierei mai il percorso di formazione che ho fatto in Italia con uno all’estero. Se non fosse per quello che ho imparato nel mio paese, non sarei mai riuscito a fare della mia passione un lavoro. L’Italia ha una tradizione e una cultura che non sono seconde a nessuno. Proprio per questo però fa male vedere dipartimenti inglesi e americani pieni di scienziati italiani di prim’ordine, mentre sono rarissimi i casi di professori stranieri che si spostano nelle nostre università.

Come si trova nella città di Brighton?

Pur essendo arrivato da pochi mesi, mi trovo molto bene. Brighton è una città particolare, piuttosto piccolo ma davvero vivace e ricca di opportunità. È sede di due università e ogni anno ospita diversi festival artistici che richiamano gente da tutto il Regno Unito. Inoltre, è una località balneare molto amata dai turisti inglesi. Si trova a meno di un’ora da Londra, quindi è molto ben collegata a tutto il resto d’Europa.
Qui ho scoperto che gli inglesi sono molto più socievoli di quanto pensassi. Nella prima settimana di permanenza sono stato a messa a St. Joseph, la prima chiesa cattolica che ho trovato. All’uscita, io e tutti i giovani presenti siamo stati invitati a pranzo nei locali della parrocchia. Adesso frequent regolarmente i ragazzi che ho incontrato quel giorno. Da loro sto imparando tanto, è molto bello sentirsi accolti quando si è in un paese straniero.

Pensa che un giorno tornerà in Italia?

Ci penso spesso. Certamente sento la mancanza della famiglia, degli amici più cari e del mio paese. Allo stesso tempo, qui sono felice perché posso coltivare la mia passione e mi vengono date opportunità che in Italia non sono così scontate. Spero in futuro di poter tornare, e magari di fare qualcosa di buono per un paese che mi ha dato così tanto.

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ROMA – Anche se con fatica, le scuole italiane si stanno lentamente dotando di mezzi tecnologici che preparino gli alunni ad affrontare un mondo sempre più digitalizzato. Per saperne qualcosa in più, abbiamo incontrato Luca Paolini, docente di Religione Cattolica della Diocesi di Livorno e anima del sito religione 2.0.

Da quanto tempo insegna e quando ha iniziato a usare la tecnologia nelle sue lezioni?

Insegno Religione Cattolica dal 1986; ho un ricco bagaglio di esperienze perché sono stato sia alla scuola primaria, sia al serale, sia nelle due secondarie di 1° e 2°. In generale ho sempre usato gli audiovisivi e il computer a scuola, magari coinvolgendo i ragazzi nel sito internet scolastico. E’ solo però dal 2007 che ho scoperto la didattica 2.0 ed ho cominciato timidamente a sperimentarla in contemporanea con il blog “Religione 2.0”. Allora di didattica interattiva se ne parlava poco o punto, le LIM erano solo in pochi istituti, quindi mi sono dovuto inventare i miei percorsi didattici, e ancora oggi cerco di sperimentarne di nuovi, è un lavoro che non finisce mai, perchè la tecnologia evolve e noi dobbiamo evolvere insieme a lei, senza appiattimenti ma anche senza rimanere troppo indietro.

Nel corso degli anni di insegnamento, cosa vede di differente fra gli alunni di oggi e quelli che ha incontrato all’inizio della sua carriera?

Io credo che gli alunni siano sempre alunni, in qualsiasi epoca. Bambini e ragazzi che hanno bisogno di una guida autorevole e non autoritaria o ancora peggio insignificante. Certo è che oggi i ragazzi arrivano a scuola con altre “attese”, che puntualmente vengono “disattese” perché la scuola spesso è vecchia, lontana dal loro mondo, non è più un luogo dove si va volentieri e dove si fanno scoperte, perché l’apprendimento avviene in gran parte per via informale. Specialmente nella fascia di età tra i 6 e i 13 anni, sono i veri nativi digitali, manipolano la tecnologia e vorrebbero spazi tecnologici anche a scuola dove invece si ritrovano per ore su libri, quaderni e voci noiose dell’insegnante; si badi bene lungi da me l’idea di stigmatizzare libri e quaderni, che sono sempre utili e importanti, ma credo che oggi serva anche altro.

Come si svolge concretamente una sua lezione?

Le mie lezioni sono tutte diverse e utilizzano anche media e device differenti; posso chiedere di lavorare a casa con il computer, a scuola con il cellulare o con il tablet, oppure fare una lezione interattiva alla LIM. Per fare un esempio: spesso inizio la lezione con un brainstorming fatto con le tag cloud alla LIM, poi vediamo alcuni spezzoni di video o immagini, oppure facciamo visite virtuali con Google Street View o Google Earth; dopo passo alla parte veramente attiva della lezione dove loro devono produrre un tweet, un video, fare foto in giro per la città con il loro cellulare. Tratto molto la storia biblica e la storia della Chiesa in questo modo, ma anche la parte più esistenziale si presta molto all’utilizzo di questi strumenti. Ad esempio nelle prime classi della scuola secondaria di 1° dove insegno, l’anno scorso hanno realizzato le parabole con fumetti animati, reinterpretandole a loro modo. E’ stato come in tanti altri casi un vero successo e quelle parabole non credo che le dimenticheranno tanto facilmente.

Spesso le classi hanno le Lim, ma poi i docenti non le usano, oppure c’è la Lim, ma magari manca l’adattatore. Secondo lei fra tecnologia, istituzione scolastica e corpo docente c’è affinità?

Io direi che spesso le Lim ci sono ma si usano come una normale lavagna di ardesia e questo è molto triste. Ad oggi il corpo docente è in gran parte formato da persone non più giovani, tante volte stanche di avere a che fare con le problematiche sempre più difficili della scuola, con una generazione che sembra indifferente alle loro lezioni, desiderosi solo di andare in pensione. Non si è capito che l’uso della tecnologia non è solo una risorsa per i ragazzi, ma è una risorsa anche per i docenti che possono tornare a guardare con simpatia ed entusiasmo il loro lavoro, i loro ragazzi; conosco insegnanti anche non più giovanissimi, che hanno avuto il coraggio di rimettersi in discussione ed oggi vanno a scuola felici di sperimentare una didattica nuova e hanno ricostruito un rapporto con i loro alunni.

Molti pensano che l’uso dei mezzi tecnologici sia più una fonte di distrazione che un’opportunità per acquisire il sapere. Cosa si sente di rispondere a questa obiezione?

Io credo che molti oggi parlino così perché fanno pura demagogia, perchè non sono mai entrati in una classe, oppure non hanno mai provato a proporre una didattica diversa. E’ chiaro che è più facile demonizzare che rimboccarsi le maniche e lavorare seriamente per acquisire nuove competenze digitali da trasferire poi in classe. Questo è vero per tutti gli insegnanti e anche per gli insegnanti di Religione Cattolica.

Si sente una mosca bianca oppure lavora in rete con altri docenti?

Molto si sta muovendo in questo campo. Per esempio, sono stato contattato da alcuni Uffici Scuola delle varie diocesi italiane che mi hanno chiesto di organizzare corsi sulla didattica 2.0. Su Facebook poi esiste un gruppo molto attivo di circa 1000 docenti irc che si chiama proprio Insegnanti di Religione Cattolica 2.0, è un luogo di confronto, di dialogo proprio su queste tematiche.

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ROMA – Alla fine della presentazione del libro “Cyberteologia” di Antonio Spadaro, abbiamo intervistato il Ministro per la Pubblica Amministrazione e la Semplificazione Giampiero D’Alia, che insieme ad altri onorevoli ha organizzato l’evento. Il Ministro, classe 1966, è nato a Messina. È stato nel passato membro di varie commissioni parlamentari e da quest’anno presiede il ministero di Corso Vittorio Emanuele II.

Abbiamo appena parlato di cyber teologia. Lei, da uomo politico, pensa che la Chiesa riuscirà a raccogliere la sfida che viene dal mondo di internet? Riuscirà la Chiesa a entrare nel cuore delle persone anche attraverso questo luogo?

Secondo me sì! La sfida c’è e la Chiesa l’ha saputa raccogliere. Credo che anche questa iniziativa di oggi testimoni come scienza, tecnologia e fede siano intimamente connesse.

Il clima politico in queste ultime settimane è particolarmente arroventato. I mezzi di informazione non fanno altro che mostrarci le aspre polemiche. Vorremmo provare a dare ai nostri lettori qualche notizia positiva: qual è la cosa più importante che il suo ministero sta portando avanti da quando lo presiede?

Stiamo lavorando a rendere più trasparente le pubbliche amministrazioni, anche attraverso l’accesso civico, uno strumento di partecipazione diretta dei cittadini alla vita delle istituzioni, di controllo sociale dell’efficienza delle attività, delle amministrazioni e questo credo che sia la sfida anche per il futuro del nostro Paese.

Noi italiani abbiamo bisogno di un Ministro per la Semplificazione. Che cosa è che culturalmente ci fa essere cosi contorti?

Noi abbiamo troppo pubbliche amministrazioni, troppi centri di costo, troppi conflitti di competenze e tutto questo va semplificato. In parte lo possiamo fare con la legge, in parte lo dobbiamo fare cambiando in profondità il nostro sistema istituzionale, evitando che comuni, province, regioni e stato facciano contemporaneamente cose fra di loro in conflitto, non consentendo ai cittadini e alle imprese di poter dialogare col settore pubblico in termini di efficienze, così come richiesto anche dal momento che viviamo

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